Il romanzo tra fine Ottocento e primo Novecento

Verso un romanzo nuovo

La crisi dei valori e delle idee vittoriane, cominciata alla fine dell'Ottocento, si acutizzò allo scoppiare della prima guerra mondiale, nel 1914. Il programma di miglioramento sociale ed economico portato avanti dalla classe media fallì nello stesso momento in cui andava in crisi la fede positivista in un mondo migliore.

Nuovi valori e comportamenti

Nel campo della psicologia, l'ipotesi del padre della psicoanalisi Sigmund Freud che il comportamento umano possa essere influenzato da meccanismi irrazionali, dalle costrizioni e dai limiti ereditati o imposti dalle leggi morali create dall'uomo stesso, ebbe tali conseguenze (ben visibili in scrittori quali Virginia Woolf e James Joyce) da innescare una critica radicale di tutti i rapporti interpersonali e del rapporto fra uomo e società. Da qui la necessità di descrivere accuratamente e sistematicamente nevrosi e devianze psicologiche con un lessico adeguato. In ambito antropologico venne messa in discussione la superiorità dei modelli di comportamento occidentali e si affermò la relatività del concetto di cultura: non esistevano comportamenti migliori o peggiori, solo diversi. La filosofia del Novecento non riuscì a costruire un sistema di pensiero in grado di spiegare le problematiche esistenziali; la riflessione si fece analitica e si concentrò più su problemi di linguistica che di metafisica. La scoperta che le scienze e la matematica erano incapaci di arrivare a verità assolute ­ e la stessa teoria della relatività di Einstein, che introduceva dubbi persino sui concetti di tempo e spazio ­ misero in crisi il positivismo, con la conseguenza naturale di far perdere qualsiasi certezza; sul piano letterario, questo significò la frammentazione della realtà, della coscienza e del punto di vista. La ragione non appariva più lo strumento adeguato di giudizio, esistendo diversi modi di vedere la realtà, e le reazioni più comuni, soprattutto negli scrittori del primo ventennio del secolo, sono un atteggiamento scettico, un senso di solitudine e alienazione.

La narrazione verticale

Il più evidente e sostanziale cambiamento nel romanzo del Novecento, fu l'atteggiamento dell'autore nei confronti della propria opera e dei propri personaggi: il narratore non fu più come quello ottocentesco, che tutto conosceva delle proprie creature, anche i pensieri più nascosti, e diventava spesso un commentatore invadente degli eventi narrati. Le tematiche e la tecnica del romanzo furono rivoluzionate da tre fattori. L'apparente crollo del sistema di valori comuni (ricchezza, posizione sociale) fece sì che gli scrittori, non potendo più contare su una verità universalmente accettata, dovettero basarsi essenzialmente sull'esperienza personale, orientandosi verso un tipo di narrativa individuale, il cui fine principale fosse l'esplorazione della mente umana. Le differenti nozioni di tempo, derivate dalla teoria del filosofo William James (il presente esisterebbe solo come continuo fluire del "non più" nel "non ancora") e dall'idea bergsoniana di "durata" (ovvero del tempo visto non come un susseguirsi di punti in ordine cronologico, ma come flusso e durata) e i nuovi concetti di coscienza, risultato delle concezioni psicologiche che sottolineavano la complessità della vita psichica e il suo articolarsi su piani differenti, in cui l'inconscio gioca un ruolo decisivo. Questi tre fattori produssero nel romanzo il diffondersi di una narrazione verticale anziché orizzontale, di una rappresentazione che all'estensione sostituiva la profondità. Ogni individuo ha coscienza che il proprio passato è sempre presente, in quanto ciascuno è la propria storia e la propria coscienza ed è prigioniero non più dei "valori pubblici", ma del proprio flusso di coscienza; ogni sua reazione nei confronti di avvenimenti nuovi è condizionata dalla realtà del suo passato, quindi ogni gesto assume un valore unico perché appare sempre differente, a seconda dei diversi punti di vista e delle coscienze individuali che lo considerano.