Ovidio

Le opere dell'esilio

Relegato ai confini dell'impero, in una terra "barbara" i cui abitanti non parlavano neppure latino, Ovidio divenne lui stesso il protagonista della sua poesia e vi espresse il rimpianto per il successo di un tempo, la nostalgia per gli affetti perduti e per i suoi cari lontani, le speranze di ritorno, le suppliche ad Augusto, la constatazione di condurre ormai un'inutile esistenza in un luogo orrendo, la sofferenza per la durezza della vita presente. Sono questi i temi che ricorrono, talora ossessivamente, nelle ultime raccolte di elegie i Tristia (Tristezze) e le Epistulae ex Ponto (Lettere dal Ponto), dirette alla moglie e agli amici. Nelle ultime raccolte domina in genere l'aspetto melodrammatico e l'enfasi, anche se nei Tristia non mancano spunti felici, quali la descrizione della drammatica notte in cui è arrivato l'ordine di esilio, con il patetico accenno al pianto straziante della sua sposa, la rigidità dell'inverno a Tomi, in cui gelano mari e fiumi, il vento rade al suolo alte torri e scoperchia i tetti, e l'arrivo della primavera con le "folate di Zefiro che attenuano il freddo", con "i prati che si coprono di fiori variopinti" e la speranza che da Roma arrivi qualche nave. Celebre è la decima elegia del quarto libro, in cui Ovidio racconta per sommi capi la propria vita.