Lessico

sf. [sec. XIII; dal francone werra].

1) Situazione di conflitto armato fra due o più Stati: dichiarare, muovere guerra; entrare in guerra; vincere, perdere la guerra; stato di guerra, situazione di emergenza in cui si trova una nazione coinvolta in un conflitto; diritto, legge, tribunale, economia, prigionieri di guerra; arte della guerra, strategia militare; macchine, veicoli, navi da guerra; guerra terrestre, navale, aerea; guerra chimica, conflitto in cui vengono impiegati aggressivi chimici, guerra batteriologica, conflitto in cui vengono impiegati aggressivi biologici, ovvero ceppi batterici in grado di diffondere epidemie tra la popolazione, guerra nucleare, elettronica;guerra di posizione, in cui gli eserciti opposti si fronteggiano restando a lungo attestati su posizioni organizzate; guerra di movimento, che comporta rapide operazioni e continui spostamenti di fronte; guerra difensiva, combattuta per respingere l'offensiva di un nemico aggressore; zona di guerra, la parte del territorio (nazionale o nemico) in cui è in vigore la legge di guerra; guerra coloniale, d'indipendenza, di religione; guerra civile o intestina, che divide i cittadini di uno stesso Stato in fazioni contrapposte; guerra mondiale, che coinvolge tutte le principali nazioni del mondo: di questo tipo furono i conflitti del 1914-18 e del 1939-45.

2) Battaglia, combattimento: grido di guerra, che incita al combattimento.

3) Per estensione, conflitto tra Stati o potenze esercitato non con le armi ma con altri mezzi offensivi di natura economica, politica, ecc.: guerra commerciale, situazione in cui due o più nazioni cessano d'intrattenere fra loro rapporti economici; guerra doganale, tipo di guerra commerciale in cui le nazioni interessate cercano reciprocamente di danneggiarsi applicando dazi eccessivamente elevati; guerra psicologica, che fa ricorso in forma massiccia alla propaganda per fiaccare il morale della nazione rivale; guerra fredda, stato di acuta tensione tra Paesi rivali che si manifesta in azioni ostili di carattere diplomatico e propagandistico, senza ricorso alla lotta armata.

4) Fig., contesa, discordia, dissidio, ostilità fra persone o gruppi: era in guerra con i genitori; una guerra fra sette religiose; “una guerra d'ingegni” (Manzoni); urto di forze contrastanti: due opposti sentimenti facevano guerra nel suo animo. Ant. o lett., fatica; tormento: “l'aria del bel volto, / dove pace trovai d'ogni mia guerra” (Petrarca).

Dottrine politiche

In quanto lotta armata tra gruppi umani organizzati, la guerra è strettamente connessa alla politica, giacché un gruppo umano organizzato, per elementare che sia, costituisce comunque un'unità politica. I legami tra guerre e politica possono essere indagati dal punto di vista strategico, ossia come rapporti tra politica ed operazioni militari, e dal punto di vista storico-politologico, cioè analizzando la guerra come fenomeno sociale complesso. Obiettivo della strategia è di indicare di volta in volta i modi migliori per utilizzare i mezzi militari in funzione degli scopi politici che s'intendono raggiungere. Come tale è stata pensata fin dall'antichità: già tra i sec. VI e V a. C. per esempio, il cinese Sun Tzu elaborava per primo nella sua Arte della guerra (il più antico testo di strategia pervenutoci) la relazione guerra-politica, sostenendo che la prima è subordinata alla seconda: la guerra è uno degli strumenti di cui si serve lo Stato per realizzare i propri fini ed è pertanto un insieme di azioni politiche, talché un generale non è in ultima analisi solo un tecnico che comanda eserciti, ma un responsabile di atti con scopi politici. Solo in epoca moderna tuttavia la strategia ha raggiunto una sua compiuta autonomia concettuale. All'inizio del XVI secolo a definire con chiarezza teorica i nessi tra guerra e politica fu Machiavelli, per il quale la forza e la coesione di uno Stato e di un popolo sono alla base di ogni condotta di guerra. Le intuizioni machiavelliane furono il punto di partenza del maggior teorico moderno della relazione guerra-politica, il generale tedesco K. von Clausewitz. Nel suo Vom Kriege (Della guerra, 1853) concepì la guerra in due modi. In senso puramente logico e astratto, la guerra sarebbe affrancata da ogni freno ed indotta, per sua stessa essenza, a spingersi fino all'estremo dell'annientamento totale del nemico. Nella concreta esperienza storica la guerra risulta invece limitata, oltre che da fattori tecnici e materiali, in primo luogo dalla politica: di fatto la logica della guerra è sempre una logica politica, che vincola e condiziona l'uso della violenza bellica e impedisce a quest'ultima di liberare fino in fondo la sua naturale tendenza alla distruzione dell'avversario (tale è l'autentico significato della celebre formula clausewitziana “la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi”). Nella guerra giocano pertanto un ruolo primario le ragioni della politica, intese però da Clausewitz, in sintonia con Machiavelli, non solo e non tanto nel senso della volontà del sovrano, ma anche e soprattutto nel senso delle passioni ideologiche di un popolo. L'importanza assunta da queste ultime, nell'arco di tempo che va dalla Rivoluzione francese alle campagne napoleoniche, indica la grande novità della guerra moderna rispetto a quella tradizionale, e cioè il ruolo in essa assunto dalle masse e dgli eserciti dei coscritti, dei cittadini-soldati infiammati dall'ideologia. Dopo Clausewitz il pensiero strategico non ha sostanzialmente prodotto granché di nuovo. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si diffuse, prima in Germania e poi, durante la prima guerra mondiale, in tutta Europa, la convinzione che la guerra dovesse svincolarsi dalla politica, lasciando completamente in mano ai militari anche gli aspetti propriamente politici della conduzione delle operazioni belliche. Le cose cambiarono con la seconda guerra mondiale, quando a dirigere il gioco militare furono sempre i capi di Stato e i governi, e soprattutto dopo il 1945 con la contrapposizione planetaria dei due blocchi ideologici comunista e occidentale e l'avvento della cosiddetta “guerra fredda”. Si fece allora strada l'idea che, rovesciando la formula di Clausewitz, nel mondo bipolare fosse la politica a costituire la continuazione della guerra con altri mezzi. Successivamente, con la crescita degli armamenti nucleari e con il cosiddetto "equilibrio del terrore" (riassumibile nella sigla MAD: mutua distruzione assicurata), si pensò che la politica non potesse più considerarsi prosecuzione della guerra, giacché quest'ultima rischiava di trasformarsi in un'apocalisse (“prospettiva pantoclastica”, come è stata definita dal massimo polemologo italiano, F. Fornari). Benché anche in questo caso le cose siano andate diversamente e la politica abbia continuato a comandare sulla guerra anche nell'epoca della bomba atomica, i rapporti guerra-politica sono divenuti ancor più problematici dopo il crollo dei regimi comunisti e l'avvento della cosiddetta globalizzazione. La crescente interdipendenza economica planetaria sembra infatti implicare una perdita di sovranità da parte dei singoli Stati a favore di un'unica superpotenza militare, gli USA, garante degli equilibri mondiali, con la conseguenza di subordinare di fatto i fini politici di ogni Stato alle decisioni belliche di uno solo. Siamo con ciò al secondo modo di considerare la guerra, quello storico-politologico, teso a indagarne cause, effetti e meccanismi evolutivi nel contesto delle relazioni internazionali e della storia degli aggregati socio-politici che sono protagonisti degli eventi bellici e vengono da questi modificati. Da questo punto di vista sia nell'antichità, sia nel pensiero moderno la guerra è stata giudicata da taluni filosofi come una condizione naturale ed oggettiva, indipendente dalla volontà degli individui. Così pensarono Eraclito ed Empedocle, così ancora nel sec. XVI Hobbes, secondo il quale lo stato di natura è uno stato di guerra permanente tra gli uomini, e così ancora nel sec. XIX Hegel, che vide nella guerra uno strumento con cui lo Spirito Assoluto assegna a un certo popolo una posizione di predominio sugli altri. Nel clima influenzato dall'illuministica persuasione dell'imminente possibilità di pacifica conciliazione dei contrasti internazionali, i fondatori della scienza economica (A. Smith, D. Ricardo, J. S. Mill) ritennero invece che lo sviluppo del libero scambio avrebbe condotto al declino della guerra. Altrettanto credette inizialmente la sociologia, che sottovalutò la guerra giudicandola un residuo del passato pre-industriale. Successivamente si sono sviluppate teorie della guerra che hanno fatto riferimento a cause extrapolitiche oppure politiche. Nel primo tipo rientrano: la teoria biologica, che considera in sostanza la guerra una manifestazione di un innato istinto di aggressività dell'uomo; la teoria psicanalitica (una variante della precedente), che interpreta la guerra come scatenamento dell'aggressività monopolizzata dallo Stato; la teoria demografica, per cui è la crescita della popolazione a scatenare l'evento bellico (con la conseguenza che la guerra ristabilirebbe periodicamente l'equilibrio demografico mediante l'eliminazione fisica di una parte della popolazione); la teoria economica, che spiega la guerra come risultante dello scontro di interessi economici (la variante più nota è quella marxista, che ha dato adito a diverse teorie sull'imperialismo). Le spiegazioni che privilegiano i fattori politici come origine della guerra si distinguono fra quelle che ne individuano le cause nel sistema internazionale e quelle che le colgono invece nelle dinamiche interne degli Stati. Il primo tipo di interpretazione comprende tre filoni: realistico, geopolitico e sistemico. Il filone realistico risale alla classica dottrina della “ragion di Stato”, dominante dal 1500 al 1800 e ancora presente nel sec. XX a opera di alcuni storici e scienziati politici che ne studiarono l'evoluzione (L. von Ranke, O. Hintze, L. Dehio). L'idea base è che, in un quadro di anarchia delle relazioni internazionali, lo scontro tra gli interessi politici delle nazioni si componga periodicamente in determinati assetti di equilibrio politico (bipolare o multipolare) che viene però rotto con la guerra mossa da uno o da alcuni Stati per migliorare la propria posizione a scapito degli altri. Un'altra versione del filone realistico sostiene invece che l'ordine internazionale non dipende dal sistema dell'equilibrio, ma dall'egemonia di una sola potenza e che, di conseguenza, la guerra scoppia quando questa potenza declina, in termini politici o economici o tecnologici o di sicurezza, o quando aumenta per gli stessi motivi la forza di uno Stato rivale in precedenza subordinato o più debole. La seconda prospettiva, quella geopolitica, sottolinea a sua volta l'importanza determinante per la guerra dei fattori geografici (in senso ampio: dislocazione territoriale degli Stati, relazioni fra aree regionali, sfere di egemonia, effetti spaziali del potere, migrazioni, distribuzione spaziale delle risorse ecc.), condividendo con il filone realista l'idea dell'anarchia dell'ordinamento internazionale. Il terzo filone interpretativo è infine sistemico, nel senso che per spiegare la genesi delle guerre non guarda alle sole relazioni interstatali ma alla globalità dei rapporti politici, economico-transnazionali, culturali, militari ecc. Una sua prima versione (elaborata da G. Modelski) sostiene il primato dei fattori politico-militari su quelli economici e culturali, talché la guerra nell'età moderna sarebbe il risultato dell'imposizione dell'egemonia di una potenza militarmente leader, ciclicamente scalzata da un'altra potenza leader. Una seconda versione (del sociologo neomarxista I. Wallerstein) assegna viceversa il primato alla sfera economico-commerciale, il cui dominio assicurerebbe alla potenza egemone anche la predominanza politico-militare; sicché alla fine di ciascuna delle guerre globali dell'epoca moderna (la guerra dei Trent'anni, le guerre nate dalla Rivoluzione, francese, quelle napoleoniche e le due guerre mondiali del XX secolo) tre potenze avrebbero conquistato in successione il controllo dell'economia mondiale: i Paesi Bassi prima, la Gran Bretagna poi e infine gli Stati Uniti. Mentre le teorie sin qui ricordate spiegano la guerra a partire dal sistema internazionale, altre la interpretano come conseguenza delle dinamiche socio-politiche interne degli Stati. In questa ottica la guerra può essere un risultato: sia della necessità dei governanti di stornare l'attenzione della popolazione da conflitti interni che rischiano di dissolvere la coesione sociale e politica di uno Stato (teoria oggi nota come scapegoat theory, ma già enunciata nel XVI secolo da Machiavelli e J. Bodin); sia dello squilibrio interno a un paese tra domanda di benessere economico e limitatezza delle risorse nazionali, per cui il governo sarebbe indotto a cercare di soddisfare quella domanda rivolgendosi all'esterno ed entrando in conflitto con altri Stati; sia delle tensioni politiche nazionali generate dall'incongruenza tra un elevato tasso di sviluppo economico e una posizione di debolezza politica nello scenario internazionale (o viceversa dallo squilibrio causato dalla notevole forza politica internazionale di una Stato in fase di decadenza economica interna).

Diritto internazionale

Secondo la sintetica definizione di A. Gentili la guerra si configura come publicorum armorum iusta contentio (contesa giusta in cui le armi pubbliche sono usate in modo regolare, secondo le norme vigenti). Diverse le opinioni sulla natura della guerra, intesa come istituto giuridico: taluni autori l'hanno considerata come un metodo di risoluzione coattiva delle controversie internazionali (Balladore Pallieri, Cansacchi); altri, invece, l'hanno designata come un procedimento di autotutela posto in atto per la difesa di diritti soggettivi internazionali. Il sec. XX, anche in considerazione dei sempre più micidiali effetti delle armi moderne, ha visto sorgere numerose iniziative tendenti a limitare, se non impedire del tutto, il determinarsi di conflitti bellici. Il Patto della Società delle Nazioni (1920) tendeva a porre la guerra fuorilegge. A integrazione e anche in esecuzione di queste norme furono stipulati nel 1925 il Patto di Locarno e nel 1928 il Patto Briand-Kellogg. Il primo vietava la guerra a eccezione di tre casi: legittima difesa; misure in applicazione dello Statuto della Società delle Nazioni; azione conseguente a decisione dell'Assemblea o del Consiglio della Società delle Nazioni. Il Patto Briand-Kellogg prevedeva, invece, la rinuncia alla guerra “come strumento di politica nazionale”. Nel 1933, Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania stipularono il Patto a Quattro che si riproponeva anch'esso di prevenire i conflitti armati mediante negoziati pacifici. Nel secondo dopoguerra, con la creazione delle Nazioni Unite, un nuovo tentativo è stato effettuato con l'impegno, da parte dei Paesi membri (art. 2 dello Statuto 26 giugno 1945), di astenersi nelle loro relazioni internazionali dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Nonostante i molti tentativi non si è riusciti ancora a creare un organismo (forza di polizia internazionale o altro) che abbia il potere d'intervenire militarmente per fare cessare conflitti armati. Secondo il diritto internazionale, perché nasca lo stato di guerra occorre oltre alla volontà delle parti (animus bellandi) anche un'espressa manifestazione di volontà. In tal caso è la Convenzione dell'Aia (1907) che all'art. 1 prescrive: “Le potenze contraenti riconoscono che le ostilità non dovranno avere inizio fra di loro senza un avvertimento preventivo e non equivoco che avrà la forma sia di una dichiarazione di guerra motivata sia di un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionata”. Qualora si realizzino le clausole contemplate nel casus foederis di un'alleanza, gli Stati firmatari sono tenuti a entrare in guerra accanto al loro alleato. Il sorgere dello stato di guerra comporta l'applicazione di varie norme di diritto internazionale sancite sia dalla consuetudine sia da varie convenzioni. Tali norme hanno, in linea generale, lo scopo di rendere meno inumane le condizioni dei belligeranti. Si ricordano, al riguardo, le Convenzioni dell'Aia del 1899 e del 1907, le Convenzioni di Ginevra del 1864 e del 1906 sul trattamento dei feriti; la Dichiarazione di Pietroburgo del 1868 sui proiettili esplosivi; la Convenzione di Washington del 1922 sui sottomarini e sull'impiego dei gas; la Dichiarazione di Ginevra del 1925 sulla guerra chimico-batteriologica; la Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri. Nel secondo dopoguerra il più importante accordo internazionale è costituito dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 riguardanti: il miglioramento della sorte dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; il miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate marittime; il trattamento dei prigionieri di guerra; la protezione dei civili in tempo di guerra. In Italia, premesso che il testo costituzionale, all'art. 11, dichiara che “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, il diritto positivo di guerra è compendiato nel regio decreto 8 luglio 1938, n. 1415, conforme alle norme internazionali, e dal Codice Penale Militare di guerra approvato con regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303 e modificato con decreto legge del capo provvisorio dello Stato del 20 agosto 1947, n. 1103. § Zona di guerra, ambito spaziale nel quale i belligeranti possono lecitamente svolgere attività bellica. Comprende, quindi, i territori dei Paesi belligeranti e lo spazio a essi sovrastante, le acque territoriali e l'alto mare. Tuttavia, negli ultimi due conflitti mondiali si è verificata la tendenza a fissare determinate “zone di operazioni” anche al di fuori dei territori interessati al conflitto. Ciò allo scopo d'impedire, in dette zone, il commercio fra Paesi neutrali e Paesi belligeranti. Così, nell'ultimo conflitto mondiale l'Italia definì “zona permanente di operazioni” le coste del Mediterraneo, del Mar Rosso, del golfo di Aden e del Sudan. Tuttavia tale prassi non è ritenuta legittima dal diritto internazionale bellico.

Cenni storici: dall'antichità al XVII secolo

Alle origini la guerra s'identificò con la lotta elementare ingaggiata tra i primi nuclei familiari per il procacciamento dei beni necessari al vivere quotidiano. In seguito, con le trasmigrazioni dei popoli, la stabilizzazione nei territori conquistati e la nascita delle prime forme di organizzazione statale, la guerra divenne mezzo per la realizzazione dei fini politici del sovrano o delle oligarchie dominanti. Alle orde si sostituirono così gli eserciti e si sviluppò l'arte militare che, dopo l'età omerica, in cui la guerra era concepita come duello tra mitiche figure di “eroi”, e la formazione delle prime truppe organizzate in Egitto e Assiria, segnò un punto di svolta all'epoca delle città-Stato greche e di Alessandro Magno, con la coscrizione militare obbligatoria e la formazione di eserciti stabili. Di questi l'unità base era la falange, che raccoglieva la massa della fanteria (opliti), divisa in fanteria leggera e cavalleria. La cavalleria era a sua volta suddivisa in pesante (armata di lancia, spada, elmo, scudo e con cavalieri e cavalli muniti di armatura difensiva), mediana (armata di lancia e spada) e leggera (con solo giavellotto e arco). Dal VII secolo a.C. apparvero anche le prime navi da guerra, costituite prevalentemente da triremi dotate di rostro per l'abbordaggio. Un ulteriore sviluppo alla disciplina ed organizzazione militare impressero i Romani. Inizialmente, nell'epoca regia, solo le tribù originarie dovevano fornire fanti e cavalieri; ma con le prime guerre di conquista (riforma di Servio Tullio, 550 a.C.) la popolazione fu divisa in sei classi (con obbligo del servizio militare) ciascuna delle quali aveva l'obbligo di fornire fanti e cavalieri (tranne l'ultima, dei nullatenenti, che procacciava solo artieri e suonatori). Fin dalle origini l'esercito romano si strutturò sulla legione, ripresa dalla falange greca e formata da 3000 fanti, 300 cavalieri e 1200 veliti (fanteria leggera). La scarsa manovrabilità della legione ne provocò però ben presto radicali trasformazioni: la massa della fanteria fu infatti suddivisa in tre grosse specialità, basate sull'anzianità di servizio e sulle doti militari dei singoli, e fu introdotta un'unità tattica elementare, il manipolo, più flessibile e mobile, composto da due centurie (di 50 o 100 uomini). In battaglia la legione si disponeva su 3 linee di manipoli, mentre la cavalleria gravitava sulle ali dello schieramento insieme con le truppe degli alleati (soci). Nella guerra ossidionale, i Romani costruivano rampe d'accesso alle mura (agger), in legno e pietrame, sulle quali avviavano le colonne d'assalto formate da manipoli frontali, con scudi posti verticalmente a mo' di parete, e manipoli arretrati con scudi in posizione orizzontale a comporre un tetto (testudo). Dopo le guerre puniche furono modificati i criteri di reclutamento e gli organici dell'esercito: con la riforma di Caio Mario (108 a.C.) l'obbligo del servizio fu esteso a liberti e nullatenenti, furono soppresse le specialità della fanteria e al posto dei manipoli venne istituita la coorte, composta da 6 centurie disposte su 6 righe di profondità; la fanteria leggera fu poi integrata con arcieri cretesi e liguri e con frombolieri delle Baleari, mentre la cavalleria con cavalieri tessali, numidi e galli. Fu sostanzialmente con simili formazioni che Cesare conquistò le Gallie, la Britannia e la Spagna, affermandosi come uno dei più grandi condottieri di tutti i tempi. Dal III secolo a.C. anche i Romani adottarono per la guerra marittima le triremi, cui aggiunsero un ponte uncinato (corvo) per l'abbordaggio, e in seguito utilizzarono le quinqueremi e le più maneggevoli galere (con un solo ordine di remi). Dopo la nascita dell'Impero e il conseguente ingrandimento dell'esercito (sottoposto a ulteriori riorganizzazioni) l'arte militare romana conobbe i suoi ultimi bagliori grazie alle spedizioni dell'imperatore Giuliano l'Apostata contro i Germani nella Gallia (356 d. C.) e contro i Persiani (363 d. C.). Nel Medioevo, con la nascita dell'aristocrazia di spada legata al sovrano, si tornò al combattimento individuale a cavallo, sovente sostenuto da fanterie in genere disorganizzate, costituite da torme di contadini variamente armati di arco, picche o forconi. Fecero eccezione a questa situazione dapprima la spedizione di Carlo Magno in Italia (773-774), condotta con la marcia di due colonne di fanti e cavalieri; poi le crociate, che posero in evidenza i limiti della cavalleria contro un nemico ancorato a fortificazioni permanenti o campali; e infine le milizie comunali della Lega Lombarda, che fecero risorgere la fanteria combattendo contro le unità di cavalieri dell'imperatore Federico Barbarossa. Particolare rilievo assunsero nel XIV secolo le formazioni svizzere in lotta per l'indipendenza dei Cantoni, organizzate in battaglioni costituiti da soli fanti (in pratica un ritorno alla falange romana), disposte in avanguardia, corpo di battaglia e retroguardia, e schierate durante il combattimento in “quadrato”, con gli armati di picca ai lati, gli armati di spada e alabarda al centro e gli arceri e i balestrieri ai vertici del quadrilatero in gruppi avanzanti detti maniche. I successi riportati dai battaglioni svizzeri spinsero la maggior parte degli eserciti europei ad assoldarne qualcuno e a imitarne l'organizzazione: sorsero così in Germania i lanz-keneet (servi-lancieri), in Francia i lansqueenets, in Italia i lanzichenecchio lanzi. Furono poi ancora i battaglioni a costituire l'ossatura dei primi eserciti regi sorti in Spagna, Francia e Inghilterra, mentre in Italia si svilupparono le compagnie di ventura, eserciti di mercenari guidati da abilissimi condottieri ingaggiati dai vari Stati della penisola in lotta tra loro. Svolta decisiva nell'arte militare fu naturalmente quella impressa dall'introduzione delle armi da fuoco: le prime bombarde e i primi fucili (“schioppi”) comparvero nel Duecento, mentre già nella discesa in Italia del re francese Carlo VIII (1494) si videro artiglierie mobili trainate da cavalli e archibugi. In seguito l'artiglieria si specializzò in artiglieria da muro(assedio) e da campo, mentre anche la cavalleria si dotò di pistole e moschetti, iniziando la nuova tattica detta del caracollo, seguita in genere dall'assalto all'arma bianca. La ricordata discesa di Carlo VIII in Italia segnò l'avvio di un sessantennio di guerre continue per l'egemonia europea (conclusesi nel 1559) che videro come protagonisti la Francia e l'Impero asburgico, la cui indiscussa superiorità militare ne rifletteva la maggior forza territoriale, politica ed economico-commerciale rispetto agli altri Stati. Nello stesso arco di tempo, in concomitanza con le grandi scoperte geografiche, la guerra marittima poté avvalersi dell'uso della vela (caravelle, poi vascelli, galeoni, fregate, corvette ecc., ben presto dotate di artiglieria), fattore decisivo per lo sviluppo della guerradi corsa (ossia condotta con le forme della pirateria) praticata soprattutto sulle rotte transoceaniche da Francesi e Inglesi contro le flotte della Spagna, ma nel Mediterraneo anche dai Turchi. Nella conduzione della guerra terrestre un progresso si ebbe nel XVII grazie al re di Svezia Gustavo II Adolfo, che riorganizzò l'esercito sulla base della coscrizione, introdusse una ferrea disciplina mediante l'istituzione dei reggimenti, usò corpi armati meno numerosi e schierati in lunghezza più che in profondità (col vantaggio di poter usare tutte le forze simultaneamente) e adottò differenti tipi d'armamento per la cavalleria e moschetti meno pesanti per la fanteria. Le innovazioni di Gustavo II Adolfo furono presto imitate dagli altri eserciti europei, che tuttavia continuarono a essere prevalentemente formati da mercenari (soprattutto svizzeri e spagnoli) il cui alto costo finanziario determinava il contenimento numerico degli organici e la necessità di ridurre al minimo le perdite in battaglia. Ne derivò una strategia offensiva di fatto prudente perché obbligata a evitare lo scontro aperto col nemico in assenza di alte probabilità di successo.

Cenni storici: dal XVII al XX secolo

La guerra dei Trent'anni rappresenta il primo vero conflitto dell'età moderna. Coinvolse, oltre alle tradizionali potenze dello scacchiere continentale, anche i paesi scandinavi e baltici, provocando, malgrado ogni accortezza tattica, enormi perdite di vite umane, sia militari che civili, al punto da incidere sul generale decremento demografico seicentesco. Nel sec. XVIII il succedersi ininterrotto di guerre per il predominio tra le monarchie ereditarie e il repentino ingrandirsi degli eserciti sfociò alla fine in un rinnovamento dei principi e delle forme dell'arte militare. Primo grande innovatore fu Federico II di Prussia: questi riordinò l'esercito inquadrandolo sotto l'unitario comando di uno Stato Maggiore, selezionò rigorosamente ufficiali e sottufficiali e introdusse una ferrea disciplina e un'inflessibile pratica addestrativa, tale da rendere le truppe idonee a compiere le manovre con una rapidità ignota agli altri eserciti del tempo. Anche in questo caso le innovazioni vennero riprese da altri eserciti e in particolare da quello francese. Quest'ultimo tuttavia, in seguito alla Rivoluzione del 1789 e al conseguente avvento della leva di massa caratterizzata dalla partecipazione di tutto il popolo alla difesa della patria, trasformò le geometriche evoluzioni prussiane sul campo di battaglia in azioni più semplici e sciolte, supportate da nuovi reparti tecnici (come quello del genio). Su questa struttura, Napoleone inserì una serie di miglioramenti organizzativi: creò il corpo d'armata, riunendo insieme due o tre divisioni (unità composite organiche e inscindibili dell'esercito francese risalenti già al 1770, ma definitivamente organizzate durante la Rivoluzione), l'armata (grande unità strategica e logistica riunente due o tre corpi, istituita nel 1812 durante la campagna di Russia) e il servizio alle truppe (magazzini, depositi, ospedali ecc.). Ma Napoleone si distinse soprattutto nel campo strategico, riuscendo genialmente a reinterpretare i postulati tradizionali della dottrina militare. Come in Alessandro Magno e Cesare, strategia e politica in lui si compenetrarono sino a fondersi. Il principio dell'offensiva, nell'intento di sorprendere l'avversario, si concretizzò nella perenne ricerca della battaglia allo scopo di annientare le energie fisiche e morali del nemico, commisurando però sempre le proprie forze all'entità dell'obiettivo. Fu proprio nell'età napoleonica che anche l'arte militare marittima cominciò a rinnovarsi: la battaglia di Trafalgar (1805) segnò infatti la fine del predominio della vela per le grandi flotte militari allestite, tra il Seicento e il Settecento, dalle maggiori potenze europee impegnate nei commerci con le colonie (Spagna, Francia, Inghilterra) e dall'Impero ottomano. Le prime navi a vapore (1807) tuttavia, a causa della vulnerabilità del loro organo propulsore, la ruota, non interessarono le marine militari che invece adottarono rapidamente la locomozione a vapore dopo l'introduzione dell'elica: nacquero così il sommergibile, il siluro, e poi a seguire la corazzata, la torpediniera e l'incrociatore. Per ciò che concerne la guerra terrestre nell'età postnapoleonica, la diffusione della leva di massa nei vari Stati d'Europa non fu applicata sino in fondo, risultandone eserciti a larga base volontaristica integrati da mercenari (nella stessa Francia ne esistevano ancora nel 1830). Fece eccezione la Prussia, che alla coscrizione obbligatoria aggiunse l'obbligo delle riserve. In merito alla strategia, alla scuola del generale svizzero H. Jomini, secondo cui il successo dipendeva dal piano formulato e dalla genialità del capo, si contrappose quella del K. von Clausewitz, fondata sull'idea giacobina e poi napoleonica della partecipazione di tutta una nazione alla guerra e sul nesso tra arte militare e politica. La dottrina di Clausewitz trovò il suo migliore interprete nel generale prussiano H. K. B. von Moltke, che concependo la guerra come una prova di forza tra nazioni prima ancora che tra eserciti, sconfisse l'Austria a Sadowa (1866) e la Francia a Sedan (1870) grazie ad attacchi rapidi e decisi, nel cuore del Paese nemico. Dopo Sedan la dottrina e i procedimenti tattici prussiani ebbero larga risonanza in Europa e le guerre che seguirono (russo-turca, 1877-1878; anglo-boera, 1899-1902; russo-giapponese, 1904-1905; italo-turca, 1911-1912) non modificarono tali orientamenti. Anzi la scienza strategica accentuò le idee offensivistiche, pur attribuendo il debito peso alla fortificazione permanente in funzione di copertura. In Germania tale impostazione, dopo il generale C. van der Goltz (autore della celebre opera La nazione armata), trovò il suo caposcuola nel feldmaresciallo A. von Schlieffen, promotore della strategia lineare ispirata alla tattica seguita da Annibale a Canne. Von Schlieffen prevedeva uno schieramento delle truppe su un ampio fronte e una successiva avanzata tendente ad aggirare l'avversario per colpirlo da tergo. In Francia il De Grandmaison si fece assertore della teoria secondo cui il nemico doveva necessariamente subire la battaglia, onde al largo schieramento iniziale doveva subito seguire una rapida marcia sull'obiettivo, senza cercare troppe garanzie di sicurezza assicurate dall'avanzata stessa. In realtà, fin dall'inizio della prima guerra mondiale, queste dottrine rivelarono tutta la propria fragilità sui campi di battaglia, lasciando il campo alle sostanziali innovazioni, di mezzi e di strategie, che caratterizzarono il secondo conflitto mondiale.

Tecnologia: la guerra informatica

Per guerra informatica (in inglese IW, Information Warfare) si può intendere qualsiasi azione destinata a impedire, sfruttare, degradare o distruggere le informazioni del nemico e le loro funzioni, nonché a proteggere da tali azioni le operazioni informatiche amiche e a sfruttare le stesse. Per usare al meglio lo strumento informatico è necessario conquistarne il dominio e perciò bisogna sopprimere le risorse informatiche delle forze avversarie, avendo cura al contempo di tutelare quelle dei mezzi amici al fine di consentire le operazioni informatiche di attacco nel nuovo campo di battaglia digitalizzato. La superiorità informatica è ritenuta da molti esperti addirittura equivalente alla superiorità aerea, perché fornendo alle forze amiche più informazioni di quante ne disponga il nemico, permette loro l'agilità, la mobilità e la concentrazione di potenza essenziali per prevalere sul campo di battaglia. La guerra informatica può essere impostata secondo due distinte componenti operative, una difensiva e una offensiva. Il ricorso a un atteggiamento puramente difensivo si fonda sull'impiego di tecnologie avanzate atte a garantire la sicurezza delle reti informatiche e di metodi per assicurare la sopravvivenza delle “infostrutture” (ossia delle infrastrutture informatiche) sottoposte ad attacco nemico. Le infostrutture prese di mira possono non essere obiettivi strettamente militari, ma riguardare il tessuto economico di una nazione, la rete telefonica, i sistemi di controllo del traffico aereo e ferroviario e gli archivi delle banche. È ovvio che l'arma principale nella guerra informatica è costituita dalle informazioni stesse; un posto di rilievo spetta alle infezioni da virus, che hanno già inferto danni rilevanti a numerose reti informatiche. Facendo riferimento a Internet, le indagini statistiche hanno appurato che almeno la metà degli host computers di questa rete sia stata vittima di attacchi virali. Va comunque precisato che questi attacchi sono facilitati dal fatto che Internet non è completamente sicuro. Sino a quando le tecnologie per la sicurezza informatica non saranno mature, le infostrutture mondiali saranno estremamente vulnerabili agli attacchi informatici, condotti tanto da apparati militari o informatici nazionali di Paesi il cui governo attui una politica di guerra informatica, quanto da parte di cosiddetti pirati informatici, o hackers, isolati o inseriti in organizzazioni terroristiche, spinti dalle motivazioni più varie. Va considerato, infatti, che la tendenza a ridurre le spese in tutti i campi ha diffuso in ambito militare la pratica di acquistare materiale in commercio, per evitare gli elevati costi connessi con la ricerca e lo sviluppo. Tale prassi fa sì che le organizzazioni militari diventino semplici utilizzatori di sistemi di comunicazione globale commerciali facilmente esposti ad attacchi. La difesa da un attacco informatico può anche comportare il ricorso all'offesa e alla reazione preventiva, attuato tanto con armi tradizionali come missili antiradiazioni e apparecchiature da guerra elettronica, quanto con l'impiego di sistemi non convenzionali utilizzanti radiazioni ad alta energia come le bombe a trasformazione di impulso elettromagnetico (EMP/T, Electro Magnetic Pulse Transformer).

Economia

Durante i periodi bellici vige una particolare organizzazione del sistema economico in ogni Paese, caratterizzata da un accentuato intervento statale su tutta l'attività produttiva, in particolare sull'approvvigionamento e sull'utilizzazione dei fattori produttivi, in modo da provvedere soprattutto alle necessità militari, prima che a quelle civili. Di conseguenza tutta l'industria viene ristrutturata per dare l'assoluta precedenza alla produzione bellica, mentre sono coperti i vuoti lasciati dai richiamati alle armi con l'immissione di donne e anziani. Il più delle volte, la produzione interna per consumi privati diminuisce sensibilmente, con un decremento del tenore di vita nella maggioranza dei cittadini; subiscono alterazioni anche gli scambi con l'estero (riduzione e talora anche completa interruzione dei traffici). Dove il controllo dello Stato non sia ben organizzato o la penuria di generi di prima necessità sia particolarmente grave, si assiste anche al fenomeno del cosiddetto “mercato nero” delle merci più ricercate, compiuto al di fuori di ogni controllo dello Stato e con aumenti di prezzo spropositati. A esso si collega anche la questione dei profitti di guerra, cioè dell'accumulo indebito di capitali, realizzato da aziende produttrici di materiale bellico, da ditte appaltatrici o da semplici privati, che si dedicano al traffico di merci approfittando della situazione anormale. Su questi profitti la legge ha applicato (nel 1940) un'imposta progressiva, che andava dal 10% al 60% per la cifra eccedente il reddito normale. Nel 1946 i profitti di guerra furono avocati allo Stato, che li ricalcolò in base al reddito 1937-38, distinguendo fra il maggiore utile reale e l'aumento da addebitarsi invece alla svalutazione della moneta.

Etnologia

La guerra, giustificata o no da presupposti ideologici e sacri, risulta la forma estrema cui può giungere un popolo la cui società è basata sulla proprietà, privata o collettiva, di beni che abbiano un certo valore (per esempio bestiame, campi coltivati, schiavi, materie prime, ecc.). La maggior parte dei popoli agricoltori e allevatori infatti è giunta a praticare la guerra, mentre popoli dediti alla caccia e alla raccolta attuano raramente forme di violenza collettiva. Così vari popoli a economia collettivistica elementare, pur numericamente significativi, hanno spesso subito passivamente la conquista e il dominio di altri, numericamente inferiori o tecnologicamente equivalenti (per esempio gli Arawak rispetto ai Caribe, i Bantu agricoltori rispetto ai Bantu allevatori, i rispetto ai Tupí). Tra le genti afroamericane le guerre non hanno mai raggiunto forme particolarmente cruente (fatta eccezione per quei gruppi etnici, come gli Irochesi, gli Aztechi, gli Incas, gli Zulu, i Mandingo, ecc., che hanno creato grandi Stati autocratici): generalmente ha sempre avuto più significato l'insieme di “parate dimostrative” tese a “spaventare e convincere” l'avversario mentre lo scontro terminava al momento in cui si verificavano i primi feriti o i primi morti. Non di rado l'esito di un'intera guerra veniva affidato allo scontro tra campioni o piccoli gruppi delle opposte parti, oppure la contesa veniva risolta con il pagamento di un indennizzo agli offesi. Solo tra alcuni gruppi etnici, essenzialmente euro-asiatici (per esempio i Caucasici, i Mediterranei, ecc.) non si è ancora persa l'usanza della vendetta del sangue, che è stata giustificazione morale per accendere guerre vere e proprie (faide) tra gruppi etnici cosiddetti a cultura superiore. Fenomeno particolare di guerra-razzia con finalità religiosa è quello che si riscontra tra genti della Mesoamerica precolombiana (soprattutto fra gli Aztechi) e che ha portato alla distruzione di interi villaggi al fine di procurarsi vittime da sacrificare agli dei.

Religioni

Presso moltissime culture primitive la ritualità dei combattimenti denuncia un carattere sacrale della guerra: nella stessa Grecia le guerre arcaiche ricordate dalla tradizione sembrano riducibili agli schemi di un rito iniziatico; anche in casi di apparenti guerre imperialistiche esse non possono essere comprese appieno nel loro aspetto reale se non si considerano come prodotti culturali e soprattutto religiosi. È noto, per esempio, che l'imperialismo arabo ha come fondamento la “guerra santa” agli infedeli. Altro esempio clamoroso: le guerre “imperialistiche” dell'antica Persia che in realtà vanno inserite nella lotta contro le forze del male predicata dalla religione mazdea.

Quiz

Mettiti alla prova!

Testa la tua conoscenza e quella dei tuoi amici.

Fai il quiz ora