Poliziano, Àngelo Ambrogini, detto il-

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Biografia

Poeta e umanista italiano (Montepulciano 1454-Firenze 1494). Di famiglia borghese legata ai Medici, rimasto orfano del padre, che era stato ucciso per vendetta, Angelo Ambrogini (che si farà chiamare Politianus dal nome latino della città natale) si trasferì giovanissimo a Firenze, dove seguì le lezioni del Landino e dei greci Argiropulo, Andronico Callisto e Calcondila e si impose per la sua prodigiosa cultura classica (rivelatasi con la traduzione latina dei libri II-V dell'Iliade), che gli valse la protezione del Magnifico e l'ammissione nella sua casa come cancelliere privato; divenuto dal 1475 precettore di Piero e Giovanni, figli di Lorenzo, ebbe accesso alla ricca biblioteca medicea e frequentò il Ficino, ricavandone la disposizione a trasporre sul piano del mito la rivelazione della sapienza.

Opere

Tale attitudine contemplativa si manifesta in un gruppo di elegie, odi, epigrammi in latino, dove personaggi e situazioni perdono i loro connotati realistici per assumere, in un sapientissimo mosaico di citazioni letterarie, la qualità di splendidi miti che sfumano nell'aerea trasparenza del simbolo: è il caso delle due elegie amorose In Lalagen e In violas, dell'ode In puellam suam e soprattutto dell'epicedioIn Albieram Albiziam, in cui la pietà per la morte precoce della bellissima Albiera si muta in una raffinata contemplazione, velata di tenue malinconia. Al gusto di queste liriche si può ricondurre un altro componimento, la Sylva in scabiem, dove il tema dell'orrido e del macabro si svolge in una descrizione letterariamente compiaciuta, elegante e bizzarra. La varietà di toni contrassegna anche la lirica volgare del Poliziano, costituita dai Rispetti continuati (riuniti in serie) e spicciolati (slegati) e dalle Ballate. Queste composizioni conservano la freschezza e la semplicità della lirica popolaresca, rielaborata tuttavia con forme e modi squisitamente letterari che attingono alla lirica erotica latina, agli stilnovisti e al Petrarca. Celebri, in particolare, le ballate I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino, dove l'incanto della natura primaverile suggerisce l'analogia fra la rosa e la bellezza, che deve essere goduta nella fase culminante del suo fiorire, e Ben venga maggio, pervasa del senso pagano dell'onnipotenza dell'amore. Le ballate, che si risolvono in un sogno primaverile di bellezza e di giovinezza, introducono nel clima del capolavoro polizianesco, le Stanze per la giostra. Concepito nel 1475 per celebrare la vittoria in una giostra di Giuliano de' Medici, il poemetto non accenna neppure al motivo delle armi, che è del tutto estraneo alla sensibilità del Poliziano, e canta viceversa il trionfo di Amore sulla violenza della guerra. Ma la storia di Iulio e Simonetta non può ridursi al motivo dell'esemplare celebrazione dei massimi ideali umanistici, dei quali Poliziano avverte la fragilità e che trasforma pertanto in sogni perennemente insidiati dalle forze inesorabili del Fato e della Morte. Ciò vale soprattutto per il mito centrale delle Stanze, quello della bellezza, che prende corpo nella figura di Simonetta, collocata in una dimensione mitica, remotissima dalla cronachistica realtà quotidiana. Un'intima armonia esiste tra la bellezza femminile e la natura primaverile, simbolo della stagione privilegiata della vita; e anche se l'apparizione di Simonetta sullo sfondo della ridente natura è ricalcata su stilemi stilnovistici, danteschi e petrarcheschi, è aliena dal Poliziano ogni complicazione intellettualistica, ogni sondaggio nel mondo interiore della coscienza: c'è solo nella sua poesia il sogno voluttuoso di un rifugio in un Eden incontaminato, da cui siano assenti le sofferenze quotidiane, il dolore, la morte. Centro ideale del poema è pertanto la descrizione del regno di Venere, che si risolve nella rappresentazione del mondo della natura vivificato dal fascino di un'eterna primavera. A questa trasposizione dalla sofferta realtà quotidiana alla dimensione del mito contribuisce la struttura delle Stanze, che risulta dalla contaminazione fra il poemetto encomiastico della latinità decadente e la narrazione in ottave di giostre e feste, tipica della letteratura volgare, in un prezioso intarsio di echi virgiliani, ovidiani, danteschi e petrarcheschi: una letterarietà variegata che ha la sua originalità appunto nel contrasto delle voci poetiche fuse e assorbite nella levigatezza e nel nitore della forma. Una frattura rispetto alle Stanze e alle liriche giovanili si verifica con la vicenda della congiura dei Pazzi, rievocata nella prosa nervosa del Pactianae coniurationis commentarium, di imitazione sallustiana, e presente con la sua tragicità anche nella versione latina del Manuale di Epitteto, dedicata a Lorenzo come medicina spirituale contro la malvagità dei tempi, dalla quale il Poliziano si difende con il ricorso alla satira pungente e arguta dei Detti piacevoli. Tale frattura si approfondisce con la crisi dei rapporti del Poliziano con i Medici, che lo costringono ad allontanarsi da Firenze nel 1479. Recatosi a Mantova, il poeta compone in soli due giorni, per una festa dei Gonzaga, la Favola d'Orfeo, in cui ritorna il sogno idillico di una vita serena in un mondo d'intatta bellezza, ma con una più struggente coscienza del suo rapido sfiorire: anche il linguaggio è meno raffinato di quello delle Stanze ed è più vicino alla semplicità popolaresca delle ballate. Ma l'importanza dell'Orfeo è da ricercare nella novità della composizione, che, rifacendosi alle sacre rappresentazioni popolari, con la sola sostituzione del mito classico alla materia religiosa, inaugura il teatro volgare di argomento profano. Richiamato da Lorenzo nel 1480, il Poliziano sale sulla cattedra dello Studio fiorentino e si concentra nell'attività filologica e critica, cui è legata anche la produzione poetica della maturità: le quattro Sylvae in esametri, prolusioni ai corsi accademici tenuti nel 1482-83 (Manto), nel 1483-84 (Rusticus), nel 1485-86 (Ambra) e nel 1486-87 (Nutricia). Si tratta di una poesia erudita, meno agile e fresca rispetto alle liriche della giovinezza, ma animata da una robusta eloquenza e da una commossa celebrazione della poesia antica. L'assiduo lavoro filologico del Poliziano è testimoniato dall'edizione dei Miscellanea, che raccoglie il fiore del suo insegnamento, ed è accompagnato dalle Epistole: memorabile la lettera a P. Cortese, al quale il Poliziano rimprovera l'esclusivo ciceronianismo, definendo la sua concezione dell'opera letteraria come frutto di molteplici esperienze di lettura. Degna di ricordo, infine, la Lamia (1492), prolusione a un corso sui Priora di Aristotele si palesa la coscienza che il Poliziano ebbe della sua opera, considerata dalla critica come altissima espressione delle esigenze più vive e più profonde del movimento umanistico.

Bibliografia

E. Rho, La lirica di Angelo Poliziano, Torino, 1923; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, 1933; G. Citanna, Saggi sulla poesia del Rinascimento, Milano, 1939; R. Lo Cascio, Lettura del Poliziano, Palermo, 1954; N. Sapegno, Pagine di storia letteraria, Palermo, 1960; R. Ramat, La poesia toscana del Poliziano, Firenze, 1962; R. M. Ruggieri, L'Umanesimo cavalleresco italiano, Roma, 1962; F. Tateo, in Autori Vari, La letteratura italiana - Storia e testi, Bari, 1972; V. Branca, Tra latino e volgare, Padova, 1973.

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