La vita

Poeta italiano (Firenze 1265-Ravenna 1321). Nacque da Alighiero di Bellincione e da Bella in una famiglia di piccola nobiltà cittadina (il trisavolo Cacciaguida, cavaliere di Corrado II, era morto nella crociata del 1147) non fornita di larghe risorse. Perduta nell'infanzia la madre, promesso dal 1277 a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), visse adolescenza e giovinezza nelle occupazioni consuete ai giovani del suo ambiente: studi grammaticali e retorici, amicizie letterarie, incontri con personaggi affermati della cultura del tempo. Primo fra questi il guelfo Brunetto Latini, massimo esponente della cultura retorico-enciclopedica del Duecento, al quale era dovuta la divulgazione in Firenze dell'enciclopedismo francese. Altra componente culturale del tempo, la cosiddetta scuola poetica “siciliana”, e poi dei rimatori siculo-toscani, fra cui ebbe grande spicco la personalità artistica di Guittone d'Arezzo: letture di questo tipo influenzarono il primo momento poetico di Dante e lo disposero al fondamentale incontro (1283) con un altro poeta, già affermato e maggiore d'età, Guido Cavalcanti, definito nella Vita nuova “primo amico”. In questi anni l'esperienza letteraria e la vita stessa del poeta ricevettero un'impronta originale e incancellabile dall'incontro con Beatrice Portinari: momento vitale, il cui significato è chiarito dalla Vita nuova. La morte della donna amata (1290) e la ricerca di un conforto al proprio dolore avviarono Dante a una più profonda meditazione e a più ampi studi di filosofia cui seguì ben presto (1295) la partecipazione alla vita pubblica. Egli aveva già servito il Comune (1289) combattendo a Campaldino (contro Arezzo) e a Caprona (contro Pisa); ma, nella guelfa Firenze divisa in parte nera (capeggiata dai potenti Donati e sostenuta dal papa) e parte bianca (guidata dai Cerchi, più moderati e fautori d'una politica autonoma), Dante, aderendo spontaneamente ai Bianchi e opponendosi all'ingerenza di Bonifacio VIII nella vita cittadina, primeggiò tra i responsabili della politica fiorentina. Ambasciatore del Comune a San Gemignano e priore nel 1300, venne inviato in ambasceria presso il papa nel 1301, quando Carlo di Valois (ufficialmente paciere tra le parti, ma occulto sostenitore dei Donati) si avvicinava a Firenze. Con l'entrata di Carlo in città i Neri conquistarono il potere: nel 1302, accusato di baratteria, Dante venne condannato prima all'esilio e poi alla morte. Bandito, egli fu tra i firmatari, a San Godenzo, del patto con gli Ubaldini per muovere guerra a Firenze; cercò quindi aiuti per i fuorusciti a Forlì e a Verona e sperò infine, inutilmente, nella pacificazione delle parti tentata nel 1304 dal cardinale Niccolò da Prato. Staccatosi dai compagni, non partecipò a un tentativo armato contro Firenze (La Lastra, luglio 1304) e cominciò le solitarie peregrinazioni per ogni parte d'Italia. Tra il 1304 e il 1306 fu a Bologna: lì prese a comporre il De vulgari eloquentia e il Convivio, che segnano l'ulteriore allargarsi e approfondirsi di interessi culturali e civili. Dopo un soggiorno in Lunigiana presso i Malaspina (1306), Dante fu a Lucca (1308), indi in Casentino. In quello stesso anno l'elezione di Enrico di Lussemburgo a imperatore fece rinascere le speranze dell'esule, convinto che il disinteresse dei passati imperatori e la prolungata vacanza dell'impero fossero cause determinanti del disordine politico e morale d'Italia e d'Europa e che la venuta in Italia di Enrico VII avrebbe riportato l'ordine e la pace. Ma la morte di Enrico (1313), dopo che la sua missione era stata avversata, oltre che da Firenze, dalla curia papale e dal re di Napoli, troncò ogni sogno di pacificazione; e Dante, intorno al 1316, riparò a Verona, presso Cangrande della Scala, e più tardi a Ravenna, presso Guido da Polenta: qui egli compì la Commedia e qui lo raggiunse la morte, il 14 settembre 1321.

Le opere giovanili e le Rime

Carattere di franca esercitazione, soprattutto linguistica e metrica, hanno due componimenti letterari attribuiti a Dante in forza dello stile, il Detto d'amore e il Fiore, nati nell'ambito dell'ideale lezione di Brunetto Latini. Il Detto, poemetto mutilo in distici di settenari a rima baciata, è rielaborazione giovanile di una parte del Roman de la Rose. Più tardo, ben più spigliato, di maggior respiro, il Fiore, “corona” di 232 sonetti, parafrasa e riassume con abilità le parti narrative del Roman stesso, omettendone le digressioni dottrinali, ma non gli spunti polemici. La prima opera di incontestata paternità e di contenuto assolutamente originale è la Vita nuova (ca. 1293), che raccoglie 31 liriche in una cornice di prosa, a celebrazione dell'amore del poeta per Beatrice, ed è non solo il primo romanzo autobiografico della nostra letteratura, ma anche il manifesto della personalissima concezione che, pur entro lo stilnovo, Dante ebbe dell'amore e della poesia a esso ispirata. Narrando il primo e il secondo incontro con Beatrice, gli effetti miracolosi del suo saluto e la sofferenza per la perdita di esso, l'interiorizzarsi del proprio sentimento, il presentimento della morte dell'amata e l'angoscia per la sua scomparsa; rievocando la ricerca di conforto nell'amore di una “gentile donna” e l'interiore lotta che ne consegue, fino al vittorioso prevalere del pensiero di Beatrice e del proposito di dire di lei “quello che mai non fue detto d'alcuna”, Dante pone le basi del futuro primo nucleo della Commedia. Nello stesso tempo supera i modi e i contenuti dello stilnovo, elaborando un suo proprio concetto d'amore, non più soltanto frutto di nobiltà spirituale e fonte di rinnovamento interiore, ma sentimento assoluto che trova in se stesso la propria ricompensa e apre all'uomo la conoscenza (analogica) del Divino, tramite la contemplazione della perfezione e della bellezza dell'amata. Per il carattere particolare che la Vita nuova assume nell'itinerario umano e poetico di Dante, vi è compresa solo una parte delle liriche composte nel decennio 1283-93. Nelle altre Rime (la produzione si conclude intorno al 1308), a un momento sicilianeggiante e guittoniano, improntato a un provenzalismo di maniera, succedono le testimonianze dell'adesione del poeta allo stilnovismo, prima generico e di scuola, poi scopertamente cavalcantiano, indi aderente ai moduli del grande maestro, il Guinizzelli. Di altri stimoli è esempio la “tenzone” con Forese Donati (ca. 1293-96), realistica nelle forme e pungente nel contenuto: essa, cadute le ipotesi di apocrifità, rimane come prova di genere e di linguaggio, notevole in sé e per la futura utilizzazione nella Commedia. Le contemporanee canzoni allegoriche e dottrinali (tra cui le tre poi commentate nel Convivio), pur movendo ancora dalla tematica stilnovistica e guinizzelliana (con ascendenze guittoniane), mostrano un nuovo Dante, fatto poeta di virtù e di scienza, mentre nelle rime ricche ed equivoche delle “petrose” (modellate, con evidenti prestiti tecnici e tematici, sul trobar clus del provenzale Arnault Daniel) un'alta ricerca d'arte e di stile innesca il tema di una bruciante passione non corrisposta. Alle canzoni allegoriche e dottrinali si riallacciano molte delle composizioni dell'esilio (tra cui la canzone sulla giustizia Tre donne), testimoni d'un pieno possesso dello stile e di vigoroso impegno morale e civile. Ma non scompaiono del tutto gli antichi temi: riprende la corrispondenza poetica con Cino da Pistoia (già precedente all'esilio), ritorna, con la canzone “montanina”, la rappresentazione dell'amore dispotico in toni stilnovistici; quest'ultimo esperimento chiude (se si trascurano numerose Rime di dubbia attribuzione) il ciclo lirico dell'Alighieri, fondamentale non solo per la comprensione della personalità dell'autore (teso a sperimentare e a svolgere originalmente le forme e i contenuti poetici più diversi), ma anche per il futuro svolgimento della lirica italiana.

Il problema della lingua e dello stile

All'opera critica e poetica di Dante Alighieri va il merito di aver dato al volgare italiano dignità di lingua d'arte. Se nella Vita nuova si limita a giustificare l'uso del volgare sul piano della prassi poetica dei rimatori d'amore, nel ConvivioDante avvia un discorso più generale sulla lingua italiana, riconoscendole, nel trattato introduttivo, quei tratti di amabilità, ricchezza, proprietà, bontà che fino ad allora erano attribuiti solo al latino (e al francese). Il tipo stesso di prosa volgare usato nel Convivio (dal periodare complesso e alto, modellato su quello latino-scolastico) e il contenuto delle liriche commentate nell'opera si distaccano dall'operetta giovanile (e Dante stesso ne è cosciente), come si conviene alla diversa esperienza dell'autore, maturata dall'esilio, e alla materia trattata, frutto di studi filosofici e di impegno civile e politico. Il volgare sarà quindi “sole nuovo”, che illuminerà sulla via della conoscenza coloro cui “lo sole usato”, cioè il latino, “non luce”. È il riconoscimento della validità ideale e pratica del volgare italiano come lingua di scienza e d'arte. Lo svolgimento puntuale, teorico e applicativo insieme, di questa tesi è contenuto nel De vulgari eloquentia (1304-05), opera latina progettata in 4 libri, ma interrotta al cap. XIV del II libro. Dalle affermazioni dell'autore, che porta a esempio se stesso come poeta della virtù, appare chiaro che la lingua di cui egli tratta è quella d'arte: in particolare, è la lingua, e lo stile, dello stesso Dante, nella sua più alta produzione lirica di ispirazione etica. In questo senso il trattato sulla lingua si riallaccia al Convivio, alle grandi canzoni in esso commentate (concreta applicazione della teoria), a tutta la ricerca stilistica di Dante, aperta dalla Vita nuova e dalle Rime e riassunta e conclusa dalla Commedia. In essa la lingua vive, nello stesso tempo, come mezzo di comunicazione e come creazione artistica di volta in volta innovata, come il “sole nuovo” di cui l'autore aveva sentito la necessità concettuale ed etico-politica e come realizzazione di ben precise scelte stilistiche.

Il pensiero filosofico e politico

Nel 1316, inviando a Cangrande il I canto del Paradiso, Dante indicava nel “morale negotium sive ethica” il “genere” filosofico cui andava ascritta la Commedia: su eguale metro sono da commisurare le altre opere d'argomento conoscitivo e politico, cioè il Convivio, la Monarchia, le Epistole politiche. La moralità come ricerca del proprio essere da parte dell'individuo e del gruppo sociale si sviluppa, nel pensiero dell'esule fiorentino, come filosofia della pratica e della storia: muovendo dall'esigenza d'autonomia cittadina e dai conflitti di parte, Dante approda a una concezione unitaria e globale della storia e della politica. La base speculativa della posizione dantesca è eclettica, ma identificabile nelle sue componenti fondamentali: il pensiero di Aristotele (mediato attraverso Alberto Magno e San Tommaso); l'eredità classica e postclassica, filtrata attraverso l'esegesi medievale (innanzitutto Virgilio, quindi Cicerone, Seneca, Boezio); la tradizione biblica e le diverse correnti del pensiero religioso cristiano; la conoscenza, parziale, del neoplatonismo; infine, l'influsso dei contemporanei centri di cultura francesi. Dante accetta la struttura gerarchica e finalistica della società umana del pensiero aristotelico-tomista, ma sviluppa e applica in modo autonomo la teoria dei due fini, naturale e soprannaturale, dell'uomo, giungendo a una valutazione indipendente dell'etica e della metafisica, concepite come provvidenzialmente ordinate ai due fini in modo autonomo. Tale posizione è chiarita nel Convivio (1304-07, la prosa; anteriori di circa un decennio le liriche commentate), opera in volgare di contenuto enciclopedico-didascalico, progettata in 15 trattati (ma interrotta al IV) e contenente nel primo, proemiale, l'esposta lode del volgare. Illustrando nel II la lettera e l'allegoria della canzone Voi ch'intendendo, Dante identifica la “donna gentile” dei versi con la filosofia, “bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo” (cioè di Dio) e fonte di spirituale amore; sulla stessa traccia si muove il III trattato, a commento di Amor che nella mente, che della filosofia canta le lodi in chiave stilnovistica. Infine, abbandonata la veste allegorica con la terza canzone (Le dolci rime), il poeta può ordire nel IV trattato un commento esclusivamente e apertamente didattico, che gli consente di introdurre il tema politico: contro la definizione di nobiltà come bene ereditario data da Federico II, non solo è ribadito il concetto stilnovistico di nobiltà legato alla “virtù” individuale, ma si afferma l'autonomia dell'autorità filosofica (in particolare di Aristotele) di fronte a quella imperiale, e il dominio di quest'ultima sulla terra tutta, giustificandone la provvidenziale universalità e romanità. È questo il tema della Monarchia, opera latina in 3 libri, che compendia organicamente il pensiero politico dantesco e ne espone analiticamente i punti. Particolarmente importante è il libro III, dove l'autore entra nel vivo della polemica contemporanea contro i decretalisti, sostenitori della supremazia papale nei confronti del potere politico (ierocrazia): egli confuta l'asserita dipendenza dell'imperatore dal pontefice e dichiara illegittima la donazione di Costantino, riaffermando l'indipendenza dei due poteri e la loro autonoma e diretta provenienza divina. Il contenuto della Monarchia, la sua ampiezza teoretica, la sua acutezza metodologica, i toni biblici e ispirati dello stile si riallacciano da un lato alle Epistole politiche, dall'altro alla Commedia. Le une rispecchiano i primi tempi dell'esilio (Epistola I, in nome della parte bianca, per la pacificazione tentata dal cardinale Niccolò da Prato), le successive speranze legate all'elezione imperiale di Enrico VII (Epistole V, VI, VII, 1310-11, ai signori d'Italia, agli scellerati Fiorentini, a Enrico, per caldeggiare e sostenere la sua discesa in Italia), le speranze ultime di ravvedimento della Chiesa e dei suoi ministri (Epistola XI, 1314, ai cardinali italiani) in un crescendo continuo dagli interessi cittadini all'impegno ecumenico, politico e spirituale; la Commedia, ponendo via via l'accento – non solo nei cosiddetti canti “politici” – sulla città, sui regni, sull'impero, richiama l'umanità tutta, nei capi, nei popoli, negli individui, al riconoscimento dei propri compiti e al rispetto dei propri limiti, mentre asserisce vigorosamente la mutua indipendenza delle sfere d'azione religiosa e politica, sociale e metafisica.

Dalla Commedia alle opere latine minori

L'interruzione del Convivio corrisponde probabilmente all'inizio della Divina Commedia, le cui due prime cantiche erano compiute entro il 1316; il Paradiso sarà invece pubblicato dai figli di Dante, Pietro e Jacopo, nel 1322. Il poema è assai esteso: 14.233 endecasillabi in terza rima, organizzati in 100 canti: uno di prologo a tutta l'opera e 33 per ognuna delle tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso). Dante intitolò il suo poema Commedia, in accordo con le definizioni dei lessici medievali e in rapporto a quella tripartizione degli stili che aveva enunciata nel De vulgari eloquentia. L'attributo “divina”, già usato dal Boccaccio nel suo Trattatello, apparve per la prima volta nel frontespizio di un'edizione del Giolito del 1555. La Commedia è la summa e la conclusione delle esperienze letterarie, civili, spirituali di Dante. Rimangono a ulteriore testimonianza di esse le Epistole latine, dettate (come le parti più alte e non espositive del De vulgari e della Monarchia) secondo le regole del cursus, o ritmo prosastico, medievale. Abbiamo già menzionato le lettere politiche; ecco le altre, nell'ordine: Epistole II, ai nipoti di Alessandro da Romena, per la morte di lui; III, IV, accompagnatorie di liriche (a Cino da Pistoia e a Moroello Malaspina); VIII, IX, X, in nome di Gherardesca di Battifolle all'imperatrice Margherita; XII, all'amico fiorentino, per rifiutare una disonorevole riammissione in Firenze; XIII (1316), di contenuto letterario, per dedicare a Cangrande della Scala il Paradiso, accompagnando l'invio del I canto con le indicazioni dei canoni esegetici atti a chiarire la struttura e il significato del poema. Appartengono invece a una preumanistica corrispondenza in latino, proposta dal bolognese Giovanni del Virgilio, le due Egloghe responsive di Dante (1320-21): ben superiori a quelle del proponente per struttura dell'esametro e tono virgiliano, raffigurano il dolce declino della vita del poeta tra gli amici ravennati, il sogno dell'incoronazione poetica e il proposito di meritarla in Firenze con il completamento del poema. Di questi anni (1320) è la Questio de aqua et terra, relazione scientifica tenuta in Verona sul rapporto d'altezza tra l'acqua e la terra emersa. L'autenticità del trattato, noto solo dalla prima stampa (1508), è confermata dalla conoscenza che ne mostra Pietro di Dante nell'inedita terza redazione del suo commento alla Commedia.

La fortuna e la critica: dal Trecento al Settecento

La fortuna di Dante entro la cultura letteraria italiana ed europea dal Trecento al Settecento è strettamente legata all'opera maggiore; solo di riflesso, in quei secoli, l'interesse di lettori ed editori si volse alle opere minori, che la scuola “storica” ottocentesca e la critica del Novecento hanno a buon diritto rivalutato e riproposto nella loro autonomia artistica e, insieme, nel significato di momenti necessari e successivi dell'esperienza letteraria e spirituale di Dante. L'identificazione di fatti e personaggi storici e del rapporto tra realtà e finzione che per essi si instaura nel poema è premessa necessaria alla lettura della Commedia e alla comprensione non solo dell'impegno poetico, morale, politico che la anima, ma anche delle forme – esemplarità, allegoria, lingua – in cui esso si traduce: tale indagine preliminare muove, tra il 1322 e il 1358, i primi commentatori (Jacopo Alighieri, Graziolo Bambaglioli, Jacopo della Lana, l'Ottimo, Pietro Alighieri, Guido da Pisa e altri anonimi), che spesso tuttavia eccedono nell'allegorizzazione, tendendo involontariamente a distruggere l'unità concettuale dell'opera e trascurando e travisando progressivamente il pensiero dantesco, legato alla filosofia scolastica e ai più profondi filoni della cultura medievale. I successivi commenti del Boccaccio, di Benvenuto da Imola, di Francesco da Buti testimoniano sia l'estendersi di tale processo, sia quell'affermarsi del culto di Dante che ebbe incremento, anche dal punto di vista della diffusione testuale, proprio dall'attività del Certaldese “editore di Dante” (abbiamo le sillogi autografe comprendenti la Vita di Dante, la Divina Commedia, la Vita nuova, le 15 grandi canzoni). Sulla profonda dottrina allegorica e teologico-morale e sulla perfezione retorica del poema pone piuttosto l'accento la critica del Quattrocento e del Cinquecento (commenti di Cristoforo Landino, Alessandro Vellutello, Bernardo Daniello; studi e commenti di Benedetto Varchi, Giovan Battista Gelli e, sopra tutti, di Vincenzio Borghini, aperto anche a problemi generali di pensiero e a questioni testuali). Nel sec. XVI, inoltre, l'attenzione ai fatti di stile e alla questione della lingua stimola l'interesse per il De vulgari eloquentia, posto al centro di quelle discussioni fiorentine sul volgare italiano (ca. 1514) da cui nasceranno i numerosi e noti “dialoghi” letterari (del Machiavelli, del Martelli, del Tolomei, del Trissino, che nel 1529 tradurrà il trattato dantesco). D'altro canto, non i soli motivi culturali presiedono, tra Quattrocento e Cinquecento, alla prima edizione delle opere minori: si pensi alla editio princeps della Monarchia (1559) in chiave di polemica riformistica. Mentre il Seicento, in genere, nega attenzione a Dante, profondamente innovatore nel giudizio sul poeta e sull'opera è, nel Settecento, Giovan Battista Vico (Scienza nuova, 1725, lettera a Gherardo degli Angioli e Giudizio... sopra Dante..., 1729) che, istituendo il rapporto poesia-irrazionale-età barbara ed eroica e riconoscendo nell'opera d'arte un autonomo momento creativo, fornisce spunti fondamentali alla critica romantica. Sempre nel Settecento, anche gli studi eruditi danno il loro frutto con il Piano di una nuova edizione della Divina Commedia di Giovan Jacopo Dionisi, che presenta novità di impostazione critica e metodologica in rapporto al testo del poema e alle altre opere dantesche. È di questo secolo la prima edizione completa di tutte le opere di Dante Alighieri (1757-58).

L'Ottocento e il Novecento

Con l'Ottocento Dante diviene vessillo per gli ideali patriottici, oltre che soggetto egregio per gli studi romantici. Ugo Foscolo (Discorso sul testo... della Commedia di Dante, 1825; La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, 1827), prendendo le mosse dall'interpretazione vichiana, apre il secolo con una voce originale, richiamandosi all'analisi storica e testuale (criterio filologico), valendosi di rigorosa argomentazione e capacità sintetica (criterio storico-filosofico), e infine ponendo il poeta al di sopra del creatore di allegorie. Giuseppe Mazzini (Prefazione a La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, 1842; Scritti letterari di un italiano vivente, 1847) segue la traccia foscoliana, mettendo in rilievo la figura umana del poeta e la sua missione entro la nazione e la storia. Pur dando la preferenza all'indagine psicologistica e al rapporto poeta-ambiente, non si allontana molto da questo schema Niccolò Tommaseo nel suo commento al poema, mentre alla visione romantica della vita e della storia si riallaccia il rinato interesse per la biografia dantesca, testimoniato da Il Veltro allegorico di Dante di C. Troya e dalla Vita di C. Balbo. Nella prima metà del secolo, col rifiorire della questione della lingua, si ravviva l'indagine sulle teorie del De vulgari eloquentia (G. Perticari, Dell'amor patrio di Dante) e procede lo studio linguistico-lessicale e interpretativo della Commedia (V. Monti nella Proposta; commenti di G. Biagioli, P. Costa, B. Bianchi; più tardi, edizioni e illustrazioni di tutte le opere a cura di P. Fraticelli e G. B. Giuliani). Massimo esponente della critica dantesca romantica è Francesco De Sanctis, le cui pagine ancor vive e avvincenti delle Lezioni e saggi su Dante (1842-73) e della Storia della letteratura italiana (1870-71) sono fondamentali anche per l'interpretazione moderna: il nucleo del poema è individuato nel motivo universale e interiore (Dante come voce della società umana) e in quello etico-politico; il criterio di lettura è l'emozione, la consonanza patetica tra lettore e testo, senza sovrapposizioni culturali; la poeticità dell'opera è nell'elemento umano, presente più nell'Inferno che nelle altre cantiche (di qui la tendenza a isolare episodi e figure piuttosto che a rilevare l'unità dell'invenzione dantesca). L'ultimo trentennio dell'Ottocento, con l'indagine positivista sui manoscritti della Commedia e delle opere minori, con gli studi storici sui documenti, e linguistici sulle opere di Dante e dei contemporanei, apre la strada alla ricerca critica modernamente intesa. G. Carducci, A. D'Ancona, I. Del Lungo, P. Rajna, F. D'Ovidio, F. Torraca, M. Barbi, E. G. Parodi appartengono a questa scuola “storica” che insieme all'esperienza crociana segnerà di sé il dantismo del secolo seguente. Giosuè Carducci, in particolare, si volge prima alle trascurate Rime (Delle Rime di Dante, in Dante e il suo secolo, 1865), indi all'opera complessiva (Della varia fortuna di Dante, Dante e l'età che fu sua, 1866-67, L'opera di Dante, 1888), dando per la prima volta un quadro dell'autore nella critica e nel costume del Trecento, indicando i rapporti con l'età successiva, dimostrandosi valido storico e insieme sensibile interprete. Dal canto loro gli altri studiosi, valendosi anche dei contributi della critica dantesca straniera (ricordiamo i nomi di C. Witte, E. Moore, P. Toynbee), avviano quelle sistematiche ricerche filologiche e documentarie che porteranno all'edizione critica del De vulgari eloquentia (1896, a cura di P. Rajna) e della Vita Nuova (1907, 1932², a cura di M. Barbi), nonché all'edizione di tutte le Opere curata dalla Società Dantesca Italiana (1921). Di contro alla corrente storico-positivista, Giovanni Pascoli elabora un'interpretazione del tutto soggettiva della Commedia e di Dante: mosso dalla sua vocazione alla visione mistica e simbolica dei fatti, alla rappresentazione dell'“inconoscibile” che anima il mondo, egli con Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1902) offre un'esegesi unitaria in sé, ma fondata su basi eterogenee, e destinata a rimanere in gran parte isolata. L'opera di Benedetto Croce segna, invece, un punto d'arrivo e di partenza per la moderna critica dantesca. Prese le mosse non tanto dal presupposto desanctisiano del rapporto emotivo tra lettore e testo, quanto da una categoria teoretica ben precisa (l'arte come intuizione lirica ed espressione), egli assume come criterio di valutazione dell'opera d'arte l'impressione estetica e la metodica distinzione tra “poesia” e “non poesia”. Perciò nella Commedia la “struttura” è contrapposta alla “poesia”, il “romanzo teologico” all'“elemento lirico”: frutto di ragione, e quindi non poetico, il primo; di intuizione lirica, e perciò tutto poetico, il secondo. Il saggio La poesia di Dante (1921) e tutta la riflessione crociana sull'arte hanno rappresentato una tappa obbligata per il critico del Novecento, influendo (in quanto precedente accettato o polemicamente respinto) sulle diverse correnti del campo letterario – e quindi anche del dantismo – del nostro secolo. Tra gli studiosi d'ascendenza crociana è Attilio Momigliano (commento alla Divina Commedia, 1945-47), il cui saggio sul Paesaggio nella Divina Commedia (1932) propone come criterio d'unità il motivo paesistico, sensibilmente analizzato; con lui ricordiamo anche F. Maggini, Luigi Russo e Carlo Grabher. Entro la tendenza storicizzante postcrociana, che mira a colmare lo iato tra “poesia” e “non poesia” e a considerare l'opera d'arte un divenire piuttosto che un fatto, incontriamo l'opera di Natalino Sapegno (commento alla Divina Commedia, 1957; Dante Alighieri, in “Storia della letteratura italiana”, volume II, 1965), il quale si propone di dare un'interpretazione unitaria dell'autore e delle sue opere, fondendo le componenti linguistica, poetica, storico-culturale; e, ancora, Giovanni Getto, che con il concetto di “poesia dell'intelligenza” presenta una rivalutazione del Paradiso dantesco (Aspetti della poesia di Dante, 1966²). La cultura letteraria contemporanea, che mutua da quella scientifica rigorosità di procedimento e specializzazione di oggetti, trova ancora in Dante un campo di ricerca fecondo, soprattutto per ciò che è dell'individuazione delle fonti, per lo studio dei testi, per la retta interpretazione del mondo dantesco e delle sue forme, sia nei confronti del pensiero filosofico e religioso (B. Nardi e G. Busnelli) e politico (F. Ercole, A. Solmi, ancora Nardi), sia in rapporto alla lingua e allo stile (A. Schiaffini, B. Terracini, C. Segre, M. Fubini) e alla ricerca filologica (G. Contini, F. Mazzoni, G. Petrocchi, A. Pagliaro). Entro questa tendenza e nell'ambito di una tradizione ormai secolare, anche le culture straniere forniscono filoni esegetici particolarmente interessanti, quali l'interpretazione “figurale” di Erich Auerbach, quella simbolico-teologica di Ch. S. Singleton, quella linguistica di L. Spitzer.

Bibliografia

N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano, 1944; M. Apollonio, Dante. Storia della Commedia, Milano, 1952; M. Barbi, Dante. Vita, opere, fortuna, Firenze 1952; U. Cosmo, Guida a Dante, (a cura di B. Maier), Firenze, 1962; M. Barbi, Problemi di critica dantesca, Firenze, 1965; idem, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze, 1965; M. Casella, Introduzione alle opere di Dante, Milano, 1965; F. Maggini, Introduzione allo studio di Dante, Pisa, 1965; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, 1966; E. Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Firenze, 1968; C. S. Singleton, Saggio sulla “Vita Nuova”, Bologna, 1968; P. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze, 1970; A. Vallone, Studi su Dante. Dal '300 all'età romantica, Ravenna, 1970; N. Mineo, Dante, Bari, 1971; A. Vallone, Dante, Milano, 1971; A. Comollo, Il dissenso religioso in Dante, Firenze, 1990. Per la Divina Commedia si veda la bibliografia relativa.

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