Lessico

sf. [sec. XVIII; dal francese diplomatie].

1) Attività diretta a gestire le relazioni internazionali di uno Stato al fine di contemperarne gli interessi in contrasto con altri soggetti di diritto internazionale. In questo senso la diplomazia appare anzitutto come una tecnica distinta dalla politica estera e caratterizzata prevalentemente da fini pacifici tendenti a favorire la reciproca collaborazione tra le nazioni mediante un insieme di procedure negoziali poste in essere principalmente dagli organi statali all'estero. Di fatto, però, l'attività diplomatica è strettamente intrecciata, fin quasi a confondersi, con la politica estera degli Stati e, d'altra parte, non sempre è diretta a comporre vertenze e a conciliare interessi nazionali divergenti, verificandosi sovente circostanze in cui essa prepara l'affermazione della potenza e realizza disegni egemonici o violenti oppure mira esclusivamente alla conoscenza di notizie segrete.

2) Il complesso degli organi (capo dello Stato, ministro degli Esteri e vari agenti diplomatici) incaricati di mantenere tali relazioni. Anche la carriera degli agenti diplomatici, è entrato in diplomazia. Fig., abilità nel trattare con gli altri; tatto, accortezza.

Cenni storici: la nascita della diplomazia

Storicamente, nel suo significato più rudimentale, la funzione diplomatica è antica quanto quella delle relazioni esterne tra i popoli, giacché anche quelli meno civilizzati hanno sentito la necessità di inviarsi scambievolmente individui incaricati di dichiarare guerra, concludere la pace, stipulare alleanze. All'invio di messi ricorsero frequentemente i Greci; meno i Romani che potevano far pesare sugli altri popoli la loro grande forza politica e militare. Sin dall'età greco-romana, comunque, cominciarono a porsi i caratteristici problemi delle missioni diplomatiche: libertà di passaggio attraverso i territori stranieri, salvacondotti, immunità, inviolabilità della persona dell'ambasciatore, rispetto dovuto all'autorità da questi rappresentata e solennità della sua opera. Nell'antichità, però, non esistevano delegazioni permanenti, ma soltanto ambasciatori occasionali, deputati ad affrontare e risolvere di volta in volta problemi specifici. Caratteristica che rimase anche nell'alto Medioevo, benché tra V e VIII secolo si registri presso la corte di Bisanzio la presenza dell'apocrisario, rappresentante il pontefice romano, che fu tra i primi a inviare a sovrani e principi suoi “missi” o “legati” ogniqualvolta lo esigesse un contenzioso ecclesiastico-civile. Nel basso Medioevo le trattative principali erano generalmente condotte dagli stessi sovrani, ma talora erano preparate da personaggi minori. Solo durante la guerra dei Cento anni si iniziò a dare un certo carattere di continuità ai compiti degli ambasciatori per sbrogliare lo spinoso contenzioso dei trattati; in genere erano scelti a questo ufficio giuristi ed ecclesiastici appartenenti al personale delle cancellerie, che assumevano il nome di “procuratori”. Fin dall'XI secolo Venezia teneva ambascerie permanenti a Roma e Costantinopoli, mentre nel secolo XII anche molte altre città italiane, come Genova e Pisa, istituirono dei “consolati” nelle città straniere dove più intensi erano i loro traffici, come poi fece pure l'Impero ottomano i cui “consoli” assunsero via via incarichi diplomatici. Tuttavia il vero passaggio da una diplomazia occasionale a una stabile e residente avvenne in Italia nel corso del sec. XV, quando la necessità dei singoli Stati della penisola di conservare l'equilibrio politico raggiunto con la Pace di Lodi (1454) e la Lega italica dell'anno seguente impose a ciascuna delle tante compagini statali d'impegnarsi tramite continue negoziazioni diplomatiche affinché nessuna delle altre prendesse il sopravvento. Alla nascita di una diplomazia residente, e alla connessa fissazione dei suoi primi caratteri normativi, contribuirono soprattutto i due Stati che già avevano alle spalle una tradizione in tal senso: lo Stato della Chiesa, a causa dell'influenza direttamente o indirettamente esercitata dal papato in tutta Europa, e la Repubblica di Venezia, spinta dalla consapevolezza della propria vulnerabilità internazionale. Già con un provvedimento del 1425 (che peraltro ribadiva un obbligo più antico) Venezia prescrisse a tutti i suoi diplomatici rientranti da una missione all'estero di riferire, inizialmente a voce e poi per iscritto, i risultati delle loro osservazioni ai Consigli governativi: nacquero così le celebri “Relazioni” degli ambasciatori veneziani, documentatissime e ricche di informazioni geografiche, economiche, religiose, spesso tracimanti gli scopi politici della missione stessa. Firenze e il Ducato milanese, da parte loro, avevano un proprio rappresentante permanente in Spagna, alla corte francese, a Vienna e a Roma.

Cenni storici: l'epoca dei trattati

A partire dal XVI secolo il sistema italiano della diplomazia residente si estese gradualmente al resto d'Europa, dove assolse una funzione analoga a quella per cui era sorto nella penisola nella seconda metà del Quattrocento: tentare di mantenere in equilibrio le contrastanti spinte egemoniche dei grandi Stati nazionali monarchici. Contemporaneamente l'avvento della Riforma e il susseguirsi delle lotte religiose e confessionali costituì un'altra potente spinta alla formazione di ambascerie stabili. Sempre più si passava da una rappresentanza diplomatica caratterizzata ancora da legami fortemente privatistici, personali e fiduciari (con connessa molteplicità di funzioni esercitate dal diplomatico: agente commerciale e finanziario, patrocinatore di cause e di affari, procacciatore di merci per il suo Stato), a una specifica professione contraddistinta da competenze concernenti anzitutto la politica estera. Il fenomeno tese a generalizzarsi e nel 1661 alla corte di Francia erano già accreditate sei ambasciate nelle quali il personale formato da giuristi ed ecclesiastici venne sostituito da gentiluomini, incaricati di rappresentare con il dovuto lustro il proprio Paese. Con il secolo XVIII questi rappresentanti cominciarono ad assumere il nome di “ambasciatori”. Fu in questo contesto che venne consolidandosi la prassi dei trattati internazionali, come la Pace di Augusta (1555), che regolò i conflitti religiosi della Germania, e quella di Câteau-Cambrésis tra Francia e Spagna (1559). Nel 1648 i trattati di Vestfalia, a conclusione della guerra dei Trent'anni (1618-1648), impressero una svolta alla storia della diplomazia giacché i lunghi negoziati preliminari (iniziati nel 1644) impegnarono i diplomatici degli Stati europei nella risoluzione non solo dei contrasti politici e religiosi (conciliazione confessionale e politica tedesca, status internazionale di Olanda e Svizzera, pace tra Francia da una parte e Spagna e Impero asburgico dall'altra), ma anche in una serie di complicate questioni procedurali (come il rifiuto degli Stati protestanti di trattare con i rappresentanti del pontefice romano) e formali (credenziali, precedenze, libertà di transito e comunicazione). Contemporaneamente venne sviluppandosi una trattatistica specifica sui compiti e le immunità degli ambasciatori: apparvero così in Europa tra i sec. XVI e XVII testi quali il De legationibus (1585) di Alberico Gentili, L’ambasciatore (1627) di Gaspare Bragaccia Piacentino, A relation of the proceedings against ambassadors who have miscarried themselves (1651) di Robert Cotton, mentre nel secolo XVIII la materia fu illustrata con maggior rigore dal giurista olandese Cornelis van Bynkershoek nel De foro legatorum (1721). Nasceva in tal modo una dottrina utile per meglio definire la figura dell'ambasciatore, di per sé soggetta a un'intrinseca ambivalenza. Da un lato infatti l'ambasciatore è rispettato in quanto rappresentante di una potenza straniera, ma dall'altro, per lo stesso motivo, è soggetto a diffidenze e sospetti, giacché si teme che possa dedicarsi ad attività di spionaggio o complottare contro lo Stato ospite, magari divenendo punto d'attrazione per ribelli e contestatori politici o religiosi. In ogni caso, per dirimere conflitti e punti controversi, gli Stati poterono via via riferirsi a quella stessa sistemazione dottrinale alla quale un contributo essenziale dava, proprio mentre si combatteva la guerra dei Trent'anni, il grande giurista olandese Ugo Grozio. Questi infatti, nel suo De iure belli ac pacis (1625), elaborò i fondamenti del diritto internazionale, la cui storia andò da allora intrecciandosi con quella della diplomazia, sia perché quel diritto divenne uno strumento irrinunciabile per la concreta attività diplomatica, sia perché una parte di esso disciplinò man mano gli obblighi degli Stati per garantire l'opera dei diplomatici. Questi divennero così custodi di un corpo di norme affatto peculiari che, a differenza di quelli vigenti negli Stati sovrani, era ed è rimasto evanescente e mutevole, mancando di un potere impositivo ed essendo anzi soggetto ai cangianti rapporti di forza della vita politica internazionale, cui proprio la diplomazia si sforza continuamente di adattarlo. Lo dimostrarono, dopo il 1648, i successivi trattati internazionali: da quello di Utrecht del 1713, che pose fine alla guerra di Successione spagnola modificando la carta geopolitica d'Europa, fino al Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) con il quale i quattro vincitori della Francia napoleonica – Austria, Prussia, Russia e Inghilterra – ridisegnarono l'assetto territoriale e politico del continente. Allora fu però il rappresentante della nazione sconfitta, Talleyrand, a suggerire alla diplomazia delle grandi potenze il criterio, di legittimità dinastica, cui ispirare la ricostruzione dell'Europa sconvolta, criterio-guida sul quale s'incardinarono le relazioni diplomatiche sino al 1848. Per altro verso, codificando definitivamente il principio dell'equilibrio politico, il Congresso di Vienna conferì al diplomatico, accanto al vecchio e non dimesso ruolo di difensore della sicurezza del proprio Stato, anche la nuova funzione di responsabile non solo del diritto internazionale ma anche di un ordine superiore stabilito concordemente dal concerto di tutti gli Stati e diretto a conservare la pace.

Cenni storici: l'epoca dei congressi internazionali

Dall'epoca dei trattati si passò a quella dei congressi internazionali, nei quali le grandi potenze decidevano collegialmente non soltanto la fine di un conflitto o la riparazione dei danni di guerra, ma soprattutto l'assetto di interi sistemi territoriali e geopolitici, dapprima europei e poi tendenzialmente planetari, della cui stabilità si facevano garanti. Di tal genere furono i congressi di Aquisgrana (1818, con ammissione della Francia nell'alleanza dei vincitori), di Troppau e Lubiana (1820-21, dove si presero in considerazione i moti nazionali spagnoli e italiani), di Parigi (1856, che riunì i rappresentanti delle potenze partecipi della guerra di Crimea), di Berlino (1878, che esaminò i risultati della guerra russo-turca e sistemò la carta politica dei Balcani), ancora di Berlino (1884-85, con cui 14 Stati, tra cui gli Stati Uniti d'America, stabilirono le regole della loro espansione coloniale). Tutto ciò favorì nel corso dell'Ottocento l'avvento di una sorta di comunità diplomatica sovranazionale: i diplomatici cominciarono così a parlare tutti la stessa lingua (il francese), a usare gli stessi strumenti lavorativi (trattati, convenzioni, protocolli, note verbali, promemoria), a frequentare gli stessi luoghi. Ulteriore conseguenza del sistema dei congressi fu che si cercò di dare concreta attuazione all'antica aspirazione, presente almeno dal sec. XVII, di una pace stabile, stimolando iniziative come la conferenza di pace dell'Aja del 1899 (promossa per iniziativa dello zar Nicola II) nel corso della quale le grandi potenze si accordarono genericamente circa la composizione pacifica delle vertenze internazionali, la proibizione di alcune armi, il trattamento dei prigionieri di guerra. A questa seguì nel 1907, sempre all'Aja (e questa volta per iniziativa del presidente statunitense Theodore Roosevelt), una seconda conferenza di pace in cui si discussero i problemi dell'arbitrato internazionale, dei debiti tra Stati, dei diritti e doveri delle nazioni neutrali. Intanto, tra il sec. XIX e il XX, mentre l'espansione coloniale diffuse sempre più la diplomazia occidentale anche nei Paesi dove la prassi diplomatica era ancora occasionale, in Europa si registrò una progressiva apertura della professione diplomatica, tradizionalmente appannaggio dell'aristocrazia, ai ceti colti della borghesia. Contemporaneamente la diplomazia si burocratizzò, trasformando il diplomatico in un impiegato dello Stato dotato di specifiche competenze e definendo meglio le sue principali funzioni professionali e politiche, che erano e sono ancora quelle di reperire informazioni attendibili sulla politica del Paese presso cui è accreditato, consigliare il proprio governo in particolari momenti di crisi internazionale e illustrare motivatamente ai governi stranieri i giudizi e le posizioni negoziali del proprio Stato.

Cenni storici: la creazione di organismi internazionali permanenti

Alla fine della prima guerra mondiale l'attività diplomatica subiva ulteriori trasformazioni.. Anzitutto perché, man mano che si affermavano regimi liberali e democratici, cresceva la richiesta di maggiore pubblicità e controllo parlamentare della diplomazia, anche se non era (e non è) possibile eliminare del tutto la segretezza, necessaria a un buon andamento di trattative e negoziati. In secondo luogo perché da una diplomazia prevalentemente bilaterale si passò a una prevalentemente multilaterale, legata alla nascita di organismi internazionali permanenti quali la Società delle Nazioni (istituita nel 1919 ed entrata in vigore nel 1920) e, dopo il fallimento di questa e la fine della seconda guerra mondiale, risorta con la creazione di organizzazioni talora mondiali (come l'ONU, nata nel 1945), talora regionali (come la CEE, istituita nel 1958), mediante cui gli Stati cercarono di risolvere i problemi della loro convivenza e di raggiungere obiettivi comuni. Di qui lo sviluppo di nuove prassi e tecniche diplomatiche, nuove sedi di negoziato, nuove consuetudini e norme convenzionali cui gli Stati subordinano una parte della propria sovranità nazionale restringendo in prospettiva il campo d'azione della diplomazia nazionale. In questo quadro, e già a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, le materie trattate dalla diplomazia si sono estese dalle tradizionali relazioni politico-militari e commerciali alle questioni attinenti la sfera economico-finanziaria, l'emigrazione, la criminalità internazionale, l'assistenza ai paesi in via di sviluppo. La diplomazia ha dovuto conseguenzialmente modificare i propri strumenti e le proprie competenze: al diplomatico incaricato di compiti politici generali si sono andati gradualmente sostituendo diplomatici dotati di specifiche professionalità (addetto economico e commerciale, finanziario, culturale, per la cooperazione e sviluppo). Nella seconda metà del sec. XX, inoltre, i margini specifici della mediazione negoziale affidata all'ambasciatore si sono ulteriormente ridotti a causa della rapidità delle comunicazioni consentita dalla tecnologia (fax, Internet, videoconferenze) e relativa diminuzione dei tempi di decisione politica. Nello stesso tempo la crescita della competizione e dell'interdipendenza economico-finanziaria a livello mondiale hanno spostato, per materie importanti, buona parte delle sedi negoziali dagli Stati nazionali a nuovi organismi internazionali (come il G8), a istituzioni economiche e finanziarie planetarie (Organizzazione mondiale del commercio, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) e ad organizzazioni continentali o regionali sovranazionali (Unione Europea, NAFTA, MERCOSUR).

Bibliografia

A. F. Tranguis, Dictionnaire diplomatique, Parigi, 1954; Garrett Mattingly, Renaissance Diplomacy, London, 1955; L. G. Pearson, Politique mondiale et diplomatie, Parigi, 1958; E. Serra, Manuale di storia dei trattati e diplomazia, Milano 1980; idem, La diplomazia in Italia, Milano, 1988; idem, Professione diplomatico, Milano, 1988; B. Biancheri, Accordare il mondo. La diplomazia nell'eta' globale, Bari, 1999.

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