CSI

sigla della Comunità di Stati Indipendenti. Dal dicembre 1991, quando la Russia, l'Ucraina e la Bielorussia costituirono la Comunità di Stati Indipendenti, questa organizzazione ha acquistato sempre maggiore consistenza sia perché, in fasi successive, tutte le restanti ex repubbliche federate dell'Unione Sovietica, tranne quelle baltiche (Lituania, Estonia, Lettonia), sono entrate a farne parte, sia in conseguenza della maggiore articolazione della sua struttura sia del crescente peso politico delle sue decisioni. Il gruppo di lavoro formato nel 1991 si è trasformato in segreteria esecutiva nel 1992 e il Comitato di cooperazione economica, creato nel gennaio del 1993, è diventato un vero e proprio organo politico, ove tutti gli Stati membri hanno una propria rappresentanza. I principali temi di discussione attorno ai quali, fin dai primi momenti, si è sviluppato il dibattito sono stati quello dell'integrazione militare e della sicurezza collettiva da un lato, e quello delle relazioni economiche dall'altro. Tutti i nuovi Stati sono stati posti di fronte alla necessità di riconvertire alle proprie specifiche esigenze le strutture del complesso militare-industriale presenti sul loro territorio prive, però, in moltissimi casi, di una vera autonomia, essendo state concepite come singoli elementi di un sistema altamente integrato quale quello sovietico. La discussione su questi temi è stata affrontata nel corso del vertice di Taškent (1992), conclusosi con la firma di un trattato sulla sicurezza collettiva. Tuttavia, le lentezze e disfunzioni che la sua applicazione concreta ha posto in evidenza dimostrano chiaramente l'esistenza di seri ostacoli all'effettiva integrazione militare, riconducibili, in maggior misura, alla contrapposizione tra le esigenze della Russia da un lato, e quelle dei singoli Stati dall'altra. La prima, con le sue immense frontiere, avverte di più la preoccupazione relativa alla loro difesa, mentre per le altre repubbliche i problemi sono a scala più ridotta e spesso assumono una dimensione regionale, tanto che è possibile distinguere, all'interno della CSI, tre diversi poli di integrazione: Caucaso (Armenia, Azerbaigian, Georgia); Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan); Europa orientale (Bielorussia, Moldavia, Ucraina). Nella regione caucasica la spinta a una maggiore integrazione all'interno della CSI è venuta dall'emergere di numerosi focolai di rivolta nazionalistici e si è sviluppata in perfetta corrispondenza con l'interesse della Russia a esercitare un fermo controllo sui suoi confini meridionali e a perpetuare la propria influenza anche al di fuori di essi. Il caso più emblematico è quello della Georgia, dove la rivolta in Abcasia e in Ossezia non solo ha impedito il ritiro delle truppe russe e determinato l'invio di altri contingenti in qualità di forze di interposizione, ma ha anche costretto il governo, che fino ad allora aveva opposto un netto rifiuto, a entrare a far parte della CSI (1994). L'invio delle truppe russe nella regione ha però avuto anche una valenza essenzialmente economica, come nel caso, per esempio, di quelle inviate lungo i confini fra la Federazione Russa e l'Azerbaigian per bloccare il traffico di armi dirette ai ribelli ceceni: la loro presenza garantisce infatti, allo stesso tempo, la tutela e la sicurezza della zona di passaggio dei due oleodotti che convogliano il petrolio del Mar Caspio al porto russo di Novorossisk. Per le repubbliche dell'Asia centrale l'integrazione all'interno della CSI ha assunto un valore particolare, in considerazione del fatto che al momento dell'indipendenza esse non disponevano di eserciti nazionali, per cui hanno mantenuto inalterato il dispositivo militare, costituito da contingenti russi che fino ad allora avevano provveduto alla sorveglianza delle frontiere. Questo fattore di coesione che indubbiamente facilitava la più ampia integrazione all'interno della CSI, pur ponendo la Russia in una posizione privilegiata, è però divenuto via via meno significativo, in concomitanza dell'affermarsi di legami di tipo regionalistico che hanno condotto il Kazakistan, il Kirghizistan e l'Uzbekistan a orientarsi verso una più stretta cooperazione regionale sotto il profilo economico, ma anche militare, al fine di ottenere una reale garanzia di sicurezza nazionale. Tuttavia, questo fronte presenta rilevanti contraddizioni, determinate dalle incertezze politiche, ma soprattutto dalla forte dipendenza economica da Mosca, riconducibile alla necessità di utilizzare la rete di trasporto russa per l'esportazione delle ingenti risorse di idrocarburi – problema che accomuna tutte le repubbliche dell'Asia centrale – mancando, per il momento, soluzioni alternative. Questa dipendenza ha indotto i dirigenti kazaki e kirghisi a rafforzare anche la cooperazione economica con la Russia e la Bielorussia, firmando nel marzo 1996 un trattato che contempla, fra l'altro, il coordinamento delle politiche economiche e socio-culturali, nel quadro dell'unione doganale su cui si erano precedentemente accordati. Una strategia completamente diversa ha invece condotto l'Uzbekistan, che nella prospettiva di assolvere un ruolo di potenza regionale ha scelto di affrancarsi, nei limiti del possibile, dalla dipendenza da Mosca e di tentare di limitarne l'influenza sulla regione; pur dichiarandosi favorevole all'Unione doganale con la Federazione Russa, ha rigettato le clausole militari collegate all'accordo, dichiarando la sua neutralità. Particolare è stato infine il caso del Tagikistan, dove la presenza delle truppe russe si è rivelata particolarmente importante lungo le zone di confine con l'Afghanistan, interessate in maggiore misura alla guerra civile che, dal 1992, ha visto scontrarsi nella ex Repubblica sovietica le forze del regime neocomunista e quelle dell'opposizione islamica. L'atteggiamento assunto dalle repubbliche dell'Europa orientale nei confronti dell'integrazione all'interno della CSI è certamente più definito. La Bielorussia, per esempio, è stata sempre aderente a un modello di rafforzamento dell'integrazione, sviluppatosi all'interno di un rapporto privilegiato con la Russia che ha avuto la sua massima espressione nella firma di un trattato bilaterale che sancisce l'istituzione dell'“Unione delle Repubbliche sovrane” (aprile 1996). Riconoscibili sono i motivi prettamente economici che determinano in larga parte l'orientamento della Bielorussia: oltre a essere il principale fornitore del suo fabbisogno energetico, lo Stato russo rappresenta anche il tradizionale sbocco commerciale per la sua produzione. Specularmente opposto è il punto di vista dell'Ucraina, paragonabile, anche se con le dovute precauzioni, a quello dell'Uzbekistan. Anche a Kijev, infatti, si è espresso un netto rifiuto nei confronti dell'adesione alle clausole militari della CSI e si è adottato uno statuto di neutralità. Il principale ostacolo che si frappone al miglioramento delle relazioni russo-ucraine è rappresentato dalla questione strategico-militare del possesso della flotta del Mar Nero e più in generale della Crimea. Alla tardiva accettazione del Cremlino dell'appartenenza della Crimea all'Ucraina – ratificata dal parlamento filo-russo della regione solo nel maggio 1995 – non è seguita una decisione definitiva a proposito della flotta: la firma dell'ultimo di una serie di accordi, rimasti però inattuati, è stata rinviata sine die. Anche dal punto di vista economico i rapporti non sono migliori. Pur riconoscendo la sua forte dipendenza da Mosca, soprattutto in termini di rifornimenti energetici (gas) e il pericolo che questa comporta, l'Ucraina ha sempre preteso un trattamento paritario dalla Russia e solo a queste condizioni si dimostra disposta a procedere sulla via dell'integrazione economica all'interno della CSI, mostrandosi anche nettamente contraria alla creazione all'interno di tale organizzazione di istituzioni sovranazionali. La posizione di forza dell'Ucraina è però minata dal forte indebitamento che essa ha nei confronti della Russia, a causa del mancato pagamento di una rilevante quota delle importazioni di gas russo. Questo è un problema che investe la CSI nel suo complesso e che la Russia ha tentato di risolvere, in Ucraina e in tutte le altre repubbliche sue debitrici, scambiando i suoi crediti con la partecipazione nelle imprese sottoposte a processo di privatizzazione. Questo meccanismo è l'unico che può consentire il recupero dei debiti, che d'altra parte continuano ad accumularsi stanti le difficoltà delle repubbliche a risarcirli e l'impossibilità per la Russia di sospendere i rifornimenti, il che verrebbe bollato come un ricatto economico e solleverebbe problemi anche nei rapporti con l'Occidente.