Lessico

sf. [sec. XIV; latino historía, dal greco historía, informazione, indagine].

1) Narrazione sistematica dei fatti umani interpretati criticamente e considerati nella loro reciproca connessione e nel loro svolgimento cronologico: falsare, alterare la storia; la storia è maestra di vita; passare alla storia, di cose, persone, fatti, degni di essere ricordati dai posteri; storia sacra, quella contenuta nelle sacre scritture; storia naturale, il complesso delle scienze naturali. In particolare, con varie specificazioni, narrazione dei fatti salienti relativi a una data epoca, a un dato avvenimento o serie di avvenimenti, a una particolare collettività umana: la storia greca; storia antica; storia dell'espansione araba. Anche esposizione critica della nascita, dello sviluppo e dello svolgimento nel tempo di una det. attività umana: storia della scienza, della musica. Per estensione, insegnamento scolastico della storia: professore di storia; anche opera storica: ho letto la storia del Risorgimento.

2) Il susseguirsi degli eventi umani che possono essere oggetto di indagine storiografica: i viaggi spaziali hanno iniziato la storia del futuro.

3) Serie di vicende relative a una persona o a un fatto particolare: mi ha raccontato la storia della sua vita. In particolare, fatto vero, reale, in contrapposizione a invenzione, a fantasia: questa è storia! Per estensione, fatto in genere, faccenda, questione: è una storia che non mi riguarda; è la solita storia, di cosa (in genere spiacevole) che si ripete sempre allo stesso modo.

4) Narrazione di una serie di vicende anche inventate; racconto, favola: una storia d'amore; la storia di Cappuccetto Rosso. Per estensione, racconto del tutto inventato, fandonia: crede a tutte le storie che gli raccontano. In particolare, scusa, pretesto: son tutte storie per non venire con noi. Per lo più al pl., smorfia, tergiversazione per evitare un'incombenza e simili: alzati senza fare storie.

5) Raffigurazione scolpita o dipinta di un fatto: le storie della Via Crucis.

Filosofia: il mondo antico

La consapevolezza della storia comincia ad affacciarsi in Grecia quando il tempo dell'esistenza non è più solo scandito dai cicli naturali e da atti sociali ripetuti e ricorrenti, ma rotto da rapidi mutamenti economici e politici, sinché si accumula il ricordo di trasformazioni recenti di vita e di costume. Nascono i poemi epici e Omero è il grande cantore di una tradizione favolosamente, ma non infedelmente, rievocata e vagheggiata. Il senso del passato, comunque, non è ancora senso della storia: questo è il frutto di una riflessione critica sulla società contemporanea di chi si confronta con il suo passato o cerca in esso il suo destino. Il sec. V a. C. segna l'apogeo e quindi la crisi delle città-stato: sorge la coscienza del contrasto fra le diverse costituzioni, i diversi diritti. Eschilo e Sofocle riflettono nella forma sacrale della tragedia l'urto fra il nuovo diritto umano e l'antico diritto divino; i sofisti lo traducono laicamente nella contraddizione fra la “legge” del diritto positivo e la “natura” o verità politica primigenia e da riconquistare. Manca però la mediazione fra i due livelli: la storia non è fondata sulla giustizia assoluta e niente induce a pensare che possa raggiungerla. Il secolo, con la caduta della grande democrazia ateniese, si chiude nel segno dell'incertezza e del pessimismo. Il diffuso sentimento dell'infelicità umana e dell'ingiustizia veniva così incanalato nel rimpianto di una mitica “età dell'oro”, fatta di arcadica semplicità, in cui la fatica, le guerre e le malattie erano sconosciute. Da questa età dell'oro l'uomo era venuto decadendo e a essa sarebbe tornato solo alla fine di un immenso ciclo, che si sarebbe poi eternamente e immutabilmente ripetuto. Questa era la concezione della storia di Platone e degli stoici. La stabilità è bene, il mutamento decadenza e corruzione: un ordinamento politico deve conservarsi stabile quanto più è possibile. È ben vero che nella mitologia greca non manca la figura esemplare del progresso umano, Prometeo, ma Prometeo è incatenato dal supremo volere degli dei. L'essenza della tragedia classica greca sta nel contrasto fra le aspirazioni degli uomini alla libertà e al progresso, aspirazioni fortemente anche se non nitidamente avvertite, e la chiusura imposta da un fato esterno e vittorioso. A questa dilacerazione frustrante fra storia e aspirazione etica Tucidide aveva opposto una concezione compatta, risolutamente immanentistica e programmaticamente scientifica della storia. Il divenire storico ha le sue radici nella vita e nella lotta politica degli uomini, delle città, degli stati; sue componenti importanti sono i progressi economici e tecnici, che tuttavia non comportano un progresso, un perfezionamento complessivo della qualità della vita, della felicità e della moralità dell'uomo. Secondo Tucidide, infatti, la natura umana non cambia e, anzi, detta agli uomini, “con aspetti diversi, secondo il variare continuo delle circostanze”, uno schema costante di comportamenti, che lo studio attento del passato giova a mettere in luce per “acquistare preveggenza per il futuro”, e che ha una sua legge fondamentale nella necessità di affermare la propria potenza per non essere sopraffatti e nel “dominio del forte sul debole”. Il determinismo politico di Tucidide non lascia posto per un'etica consolatoria extrastorica: la legge del più forte è assoluta, non è contraddetta dagli dei.

Filosofia: il cristianesimo

Con il cristianesimo invece si vede per la prima volta la storia non ripiegata all'indietro o su se stessa, ma proiettata in avanti: è vero che l'uomo è stato cacciato dall'Eden, ma la provvidenza, dopo l'invio del Salvatore, regola il divenire della vita terrena in modo che agli uomini sia possibile guadagnare la vita eterna: la felicità nell'aldilà. La storia conduce al Giudizio Universale e al premio, conduce dunque a una meta futura ben definita e desiderabile. Il fine è però trascendente, il cammino è una "valle di lacrime", un viaggio di prova. Il pessimismo medievale nega significato all'ipotesi di un progresso in questa vita, tuttavia pervade gli uomini di tensione verso il futuro.

Filosofia: il Rinascimento

Il Rinascimento, con il recupero dei valori della classicità greca e romana, introdusse l'idea dell'esemplarità di certi momenti della storia della civiltà e, con le conquiste della filologia criticamente rivolta allo studio dell'antichità e le grandi scoperte geografiche, diffuse nell'umanità una più complessa coscienza di sé: la consapevolezza della varietà delle vicende e delle “avventure” dei popoli sulla Terra.

Filosofia: l’illuminismo

Il sentimento di un saldo ideale di civiltà, non più concepito solo a imitazione dei grandi esempi della tradizione classica, ma come compito nuovo di edificazione di una società felice in armonia con i dettami della ragione e della natura, e il senso dell'avventura storica, del fiorire e declinare dei popoli e delle loro culture, del procedere sempre in bilico fra il consolidamento e il perfezionamento dell'assetto sociale e il precipizio della barbarie e della dissoluzione, si fondono nella grande idea illuministica e specificamente volterriana della storia come progresso difficile e rischioso. Questa categoria di progresso era resa ideologicamente e politicamente operante da due principi: come C. Montesquieu, scopritore della sociologia, aveva indicato, la vita di un popolo, di una società si svolge secondo un esprit général, che è prodotto da vari fattori interconnessi: “il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, gli esempi storici, la morale e il costume”; l'infelicità e la barbarie erano il frutto di irrazionalità, di pregiudizi, superstizioni, istituzioni inique al servizio dell'avida sopraffazione di oziosi parassiti: il clero e l'aristocrazia. Si trattava dunque di intervenire razionalmente sulle istituzioni per modificare l'esprit général della società. Voltaire è il primo “filosofo della storia” in senso compiutamente moderno, perché liberando la storia da ogni ipoteca teologica, ancora influente in G. B. Vico, ne rende trasparente la natura di opera umana, nel mentre conforta la borghesia a prenderla risolutamente nelle sue mani per seguirne e insieme innovarne il corso. Il problema del “senso della storia”, nelle tre accezioni di direzione, valore e significato del suo svolgimento, riceveva una risposta non rigorosamente sistematica ma persuasiva.

Filosofia: Hegel

Tuttavia, nell'indagine volterriana non era ben chiarito il meccanismo causale del farsi storico: il progresso poteva sembrare non necessariamente garantito e il suo fine non sufficientemente determinato, né esente da contraddizioni. Così a G. W. F. Hegel la concezione illuminista della storia apparve imperfetta e confutata dalle realtà sociali uscite dalla Rivoluzione francese: in luogo dell'armoniosa “felicità per il maggior numero” preconizzata, le libertà borghesi avevano accentuato secondo Hegel la gara degli individualismi: le conseguenze erano state un “particolarismo infinito”, una scissione esasperata fra il privato e il pubblico, la produzione esasperata di ricchezza da parte della “bestia selvaggia” dell'economia, ottenuta “sulla miseria di una classe”. Hegel teneva come suo parametro ideologico di valore assoluto la polis greca: “un mondo immacolato non alterato da nessuna scissione”, dove l'opera comune, l'azione di tutti e di ciascuno costituiva la vita felicemente organica della città-stato libera. Questo ideale di armonia e conciliazione gli sembrò lo scopo vero della storia e la naturale soluzione delle contraddizioni interne della società degli egoismi borghesi, che pareva iniziare a realizzarsi nella monarchia prussiana; qui lo stato, con la sua autonoma burocrazia, mediava fra i particolarismi delle classi e impediva la disgregazione della società civile. La meditazione sulla Rivoluzione francese aveva indotto il filosofo tedesco a vedere la storia come un processo di lotte, di contraddizioni, di trasformazioni, di nascite e morti di civiltà. Ogni tappa della storia si identificava con un sistema di cultura, di idee e di valori, di organizzazione etica e politica, irriducibile e irripetibile, che però si disgregava dando luogo a una tappa successiva che dalla precedente traeva fondamento e insieme la negava superandola. Si offriva così agli occhi di Hegel il disegno di uno svolgimento storico progressivo e diretto verso uno scopo. Ma quale doveva essere la causa, il motore di un divenire così manifestamente logico e razionale? Non poteva essere il gioco di brute forze materiali, ma unicamente un progetto supremo, divino. La tesi che la storia fosse causata da Dio, anzi, che fosse la realizzazione, la vita stessa di Dio, rendeva la storia perfettamente trasparente nel suo ritmo triadico: Dio era innanzitutto posizione di sé, immediatezza; una posizione però irrequieta, cioè una esigenza di vita che si realizzava nella negazione dell'immediato, nel distendersi e oggettivarsi nell'attività. Questa oggettivazione (l'avventura storica) era per Dio un estraniarsi da sé, per appagare la propria vitalità attraverso un processo che doveva culminare nella soddisfazione piena o autocoscienza o negazione della negazione, insomma nel ritorno su se stesso arricchito da tutte le conquiste del percorso.

Filosofia: Marx e il materialismo storico

Il giovane K. Marx aveva sperimentato nel suo lavoro di giornalista alla Gazzetta renana che la società tedesca era dominata dai più aspri contrasti di interesse e che la condizione del popolo era di totale sfruttamento; eppure Hegel aveva sostenuto che le scissioni erano superate nello stato etico conciliatore. Se le contraddizioni di fatto permanevano, come era stato possibile per Hegel farle sparire o almeno mascherarne il senso? Perché le aveva presentate come mera apparenza cui corrispondeva una sintesi costitutiva, un'armonia più reale. “L'errore principale di Hegel consiste in ciò: ch'egli assume la contraddizione del fenomeno come unità nell'essenza, nell'idea, laddove essa contraddizione ha la sua ragione in qualcosa di più profondo, cioè in una contraddizione sostanziale” (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico). L'idealismo era dunque lo strumento fondamentale con cui Hegel poteva imporre alla realtà delle contraddizioni la maschera di una superiore conciliazione immanente. Per capire la società e la storia bisognava innanzitutto chiarire che il soggetto di essa non è l'idea, ma gli uomini. Ciò è sufficiente per vedere la storia come lotta di classe e per vagheggiare una società libera dallo sfruttamento, una società comunista. Per quale motivo essa doveva ritenersi necessaria per il prossimo sviluppo storico? Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 tenta di fondare questa necessità ancora sullo schema triadico hegeliano della negazione della negazione: prima abbiamo la posizione (la libera essenza o natura dell'uomo), poi abbiamo la sua negazione (l'asservimento e la miseria degli uomini, l'alienazione degli operai sfruttati), infine la negazione di questa negazione (la rivoluzione e il comunismo). Ma con la caduta del supporto teologico e idealista questo schema di sviluppo perdeva ogni cogenza e si affidava per la sua risoluzione a una pura tensione volontaristica. Il socialismo poteva essere “scientificamente” riconosciuto nella sua necessità solo ricercando il motore della storia in una dialettica non più basata sul principio idealista della teleologica negazione della negazione, ma sul principio materialista della contraddizione causale, determinante. Marx compiva questo passo decisivo nella sua opera L'ideologia tedesca, individuando nella contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione la legge fondamentale del progresso su cui costruire tutta l'articolata teoria del materialismo storico. In tal modo, la vittoria del proletariato era necessaria perché esso deteneva la capacità di allargare la produzione e liberare se stesso e tutto il popolo dalla “compressione” capitalista.

Filosofia: lo storicismo relativista

Un aspro attacco ai tre assunti del materialismo storico è mosso dallo storicismo relativista. La storia come processo unitario (determinismo storico), il mutamento nella base economica visto come elemento decisivo per la determinazione del divenire storico (determinismo economico) e la dipendenza funzionale di tutta la sovrastruttura statuale, politica, ideologica e spirituale dalla struttura economica (determinismo sociologico) vengono tacciate dagli storicisti relativisti di dogmatismo antiscientifico. L'esito ideologicamente più rilevante di questa corrente di pensiero, che ha il suo fondatore in W. Dilthey e i suoi rappresentanti più influenti in M. Weber e O. Spengler, è il rifiuto della categoria di progresso, accusata di sfuggire a ogni possibilità di controllo e di esprimere quindi un'interpretazione metafisica della storia. Secondo la critica marxista il rifiuto del progresso, capovolgimento completo della tesi illuminista avanzata dalla borghesia nella sua fase rivoluzionaria, costituiva un tentativo di giustificazione “oggettiva” o di apologetica “indiretta” del sistema capitalista contemporaneo ormai incapace di progresso effettivo. Weber muove invece dal riconoscimento di una pluralità di atteggiamenti valutativi da cui è possibile guardare la realtà storica, e su di essi elabora una complessa metodologia per la ricerca storica e sociologica. Il lavoro dello scienziato sociale parte quindi da una scelta di valore, sempre soggettiva e mai garantita da un criterio assoluto di validità; è questa scelta a stabilire il campo di ricerca e il privilegiamento di un certo tipo di connessione fra gli avvenimenti. La spiegazione consiste nel processo di “imputazione” di un avvenimento a certe condizioni prescelte, che si precisa attraverso una serie di confronti tra il modello ipotetico e gli esiti documentati. La visione della storia di Spengler rappresenta l'espressione più estrema dello storicismo relativista, considerando ogni civiltà come priva di qualsiasi rapporto di influenze o di connessioni causali con ogni altra, come un ciclo in sé conchiuso, dai valori e dalle stesse nozioni scientifiche peculiari e assolutamente inconfrontabili.

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