Lessico

sf. [sec. XIV; dal latino tardo revolutío-ōnis, rivolgimento, da revolvĕre, rivolgere].

1) Nell'uso scientifico, giro completo, per lo più di un corpo intorno a un altro. In particolare, in astronomia, moto di rivoluzione, il moto orbitale dei corpi celesti attorno al centro di gravitazione del sistema di cui fanno parte .

2) Mutamento radicale delle strutture politico-sociali di uno Stato; profondo rivolgimento: il Comune medievale rappresenta una rivoluzione dello Stato feudale. In particolare, subitanea, violenta distruzione dell'ordinamento politico e sociale esistente: rivoluzione popolare; la Rivoluzione francese; far scoppiare, reprimere la rivoluzione.

3) Fig., profonda e rapida trasformazione di idee, dottrine, concezioni, modi di vivere in genere; cambiamento radicale: la rivoluzione della cultura operata dall'illuminismo; la rivoluzione industriale è alla base del capitalismo moderno; i mezzi di comunicazione di massa hanno provocato una vera rivoluzione del gusto. Per estensione, scompiglio, trambusto, disordine, confusione: il fatto ha portato la rivoluzione in tutta la scuola; nella stanza dei bambini c'è sempre una rivoluzione incredibile. § Per la rivoluzione americana, vedi indipendenza.

Scienze politiche: definizioni

Per gli studiosi di diritto la rivoluzione è “abbattimento di un ordinamento giuridico e instaurazione di uno nuovo, attuati in modo illegale, cioè con un procedimento non previsto dal precedente ordinamento”. Questa concezione tuttavia nel suo formalismo non coglie il contenuto politico-sociale del fatto rivoluzionario, che è invece sottolineato dalle definizioni di parte sociologica, secondo cui una rivoluzione produce una completa ristrutturazione nei rapporti fra le classi e nei valori fondamentali della società che ribalta il sistema economico-sociale precedente fondando un assetto assolutamente nuovo. Da quest'ultima prospettiva sarà agevole distinguere le vere rivoluzioni dalle controrivoluzioni e in generale dai colpi di Stato, nelle svariate forme di “pronunciamenti” militari, putsch di squadre di civili armati, ecc.: il colpo di Stato è l'illegittima conquista del potere politico decisivo da parte di forze già o ancora integrate nella struttura di potere esistente, conquista che comporta la conservazione del sistema economico-sociale vigente e spesso anche dell'ordinamento costituzionale, che viene modificato, quasi mai abolito. Nella prospettiva marxista sono propriamente rivoluzioni quei rivolgimenti attraverso i quali una classe, prima subalterna, assume posizione dominante ovvero la “dittatura” politica, impadronendosi violentemente della macchina dello Stato al fine di istituire o sancire giuridicamente e garantire e difendere con la forza pubblica rapporti di proprietà e di produzione dei cui interessi tale classe è espressione. Secondo il materialismo storico le rivoluzioni sono un prodotto necessario della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che scoppiano quando la classe in ascesa, la classe che detiene la capacità produttiva, trova la sua forza prorompente frenata dai rapporti di produzione e di potere legale esistenti, che la vecchia classe egemone non può abbandonare pacificamente perché essi costituiscono la sua linfa vitale: la base degli interessi, dei valori e del costume per i quali vivono i suoi membri. Così, gli esempi classici di rivoluzione sono la Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione russa del 1917; mentre i rivolgimenti prima citati si lasciano bene interpretare come processi di brusco assestamento o riassestamento degli equilibri sociali e politici nel quadro di un sistema costante di rapporti tipici di produzione e di classe. Secondo un'ottica tradizionale la rivoluzione è un fatto extragiuridico o antigiuridico per eccellenza. Ma in realtà ogni ordinamento giuridico ha la sua fonte in un “fatto normativo”, in una fondazione operata da un potere costituente; e sul piano giuridico la rivoluzione determina un potere costituente del cui ordinamento viene di fatto riconosciuta la validità non appena se ne verifica l'efficacia. Anche nei rapporti internazionali vige normalmente il principio dell'effettività dell'ordinamento, e i governi rivoluzionari vengono spesso riconosciuti non appena se ne constati la stabilità. La concessione del riconoscimento dipende tuttavia frequentemente da motivazioni politiche.

Scienze politiche: la rivoluzione permanente

Teoria enunciata da Trotzkij (trotzkismo) secondo la quale la rivoluzione per avere successo non deve arrestarsi alla realizzazione di un programma minimo di conquiste parziali, ma procedere senza soste verso il compimento del programma massimo, cioè verso la vittoria del socialismo in tutto il mondo. La Rivoluzione russa quindi, per evitare il pericolo di un riflusso controrivoluzionario derivante dai conflitti interni suscitati dai contadini e dalla borghesia, che pure in un primo tempo l'aveva sostenuta contro lo Stato feudale, avrebbe dovuto raccordarsi con un processo rivoluzionario mondiale capace di svilupparsi in maniera autonoma nei diversi Paesi in seguito alle contraddizioni del capitalismo maturo e al diffondersi di una coscienza internazionalista rivoluzionaria nel proletariato di ogni Paese.

Economia politica: la rivoluzione dei prezzi

Eccezionale aumento dei prezzi interni manifestatosi, dalla seconda metà del sec. XVI ai primi decenni del successivo, in Spagna e da qui estesosi negli altri Paesi (Francia, Olanda, Inghilterra, Italia). Generato dal fortissimo incremento delle importazioni di argento dall'America, l'aumento dei prezzi fra il 1568 e il 1615 fu stimato da B. Davanzati (1529-1606) pari al 300%.

Rivoluzione culturale proletaria

Vasto e complesso movimento rivoluzionario che ha sconvolto l'assetto politico, economico, militare e ideologico della Repubblica Popolare Cinese alla fine degli anni Sessanta. A dare l'avvio alla rivoluzione culturale fu un articolo di Yao Wen-yüan (novembre 1965), largamente ispirato da Mao Tse-tung (Mao Zedong). Secondo Mao, la rivoluzione culturale era la terapia d'urto cui bisognava sottoporre la società cinese e lo stesso Partito comunista, per strapparli alle tendenze “revisioniste” e “borghesi reazionarie” consolidatesi in Cina a seguito dell'esaurirsi dell'originaria carica rivoluzionaria marxista segnata dalla collettivizzazione economica. Tali tendenze borghesi e “capitalistiche” venivano da Mao individuate nel triplice livello della struttura economica, della sovrastruttura culturale e dell'ideologia. Nella struttura produttiva, infatti, perdurava all'interno delle fabbriche il sistema gerarchico tipico dell'economia capitalistica, basato sulla netta separazione fra lavoro di routine, proprio delle masse operaie, e mansioni direttive, esercitate dalle piccole élites tecniche o meritocratiche; nella sovrastruttura culturale, il dominio borghese era determinato dal fatto che le attività artistiche, il cinema, il teatro e l'insegnamento erano rimasti nelle mani di intellettuali di origine borghese, talché anche sul piano dell'ideologia rimanevano inalterati il costume, le idee e i sistemi di valore tradizionali “borghesi”. La rivoluzione culturale doveva così assumere il carattere di lotta di classe sia nel momento economico, come pure in quelli politico e ideologico. Si trattava di liberare anzitutto i lavoratori dalla “frusta d'acciaio” dell'oppressione e delle multe e dalla “frusta dorata” dei cottimi e degli incentivi produttivistici aziendali (lotta di classe sul piano economico). Bisognava poi, in ogni regione della Cina, trasferire tutto il potere decisionale ai Comitati Rivoluzionari di Triplice Unione – composti da rappresentanti delle masse, membri dell'esercito e quadri del partito – a discapito degli organi burocratici, amministrativi e di partito preesistenti (lotta di classe sul piano politico). Infine, in campo culturale, bisognava eliminare ogni differenziazione meritocratica e selettiva tra masse e ceti intellettuali in nome di una “vera cultura proletaria di massa”, giungendo perfino a un nuovo sistema scolastico ed educativo nel quale anche il corpo docente veniva reclutato tra i membri delle comuni, delle fabbriche e dell'esercito popolare non per meriti intellettuali, ma socio-politici (lotta di classe a livello ideologico). La rivoluzione scoppiò nel maggio del 1966 nelle università (innanzitutto a Pechino) come moto di studenti e di giovani insegnanti, si estese alla classe operaia ed ebbe poi uno sviluppo complesso e talvolta cruento, per il controllo dei quotidiani e dei centri di potere locali. Ne fu coinvolto anche il Partito comunista, nel quale si vennero configurando tre distinti gruppi, in acerrima lotta, espressivi di tre diverse concezioni della rivoluzione culturale. Il primo di questi, capeggiato da Lin Piao, era fautore di una rivoluzione di stampo moralistico, ponendo grande enfasi sui valori di austerità egualitaria e di disciplina collettiva. Esso venne spazzato via con la misteriosa morte dello stesso Lin Piao (1971) in un incidente aereo mentre (si disse) cercava di riparare in Unione Sovietica. Rimase in tal modo il campo libero allo scontro tra il gruppo estremista dei “radicali” (composto da Chiang Ch'ing, moglie di Mao, Chang Ch'un-ch'iao, Wang Hung-wen e Yao Wen-yüan: la futura “banda dei quattro”) e il gruppo moderato e pragmatico (Teng Hsiao-p'ing, Hua Kuo-feng) fra i quali cercava di trovare una mediazione lo stesso Mao. La nuova Carta costituzionale cinese del 1975 sembrò sancire una definitiva affermazione del gruppo radicale. Ma la morte di Mao – avvenuta nel settembre del 1976, a pochi mesi di distanza da quella dell'altro capo carismatico del comunismo cinese, Chou En-lai – ha segnato la definitiva vittoria dell'ala moderata e pragmatica del partito, che ha inaugurato un “nuovo corso”, culminato con la revisione costituzionale del 1977, ponendo in tal modo fine alla rivoluzione culturale.

Rivoluzione francese: premesse

Col nome di Rivoluzione francese si suole definire la serie di avvenimenti occorsi in Francia alla fine del sec. XVIII e le cui conseguenze oltrepassarono i limiti di quel Paese per estendersi a quasi tutta l'Europa. La filosofia illuministica, diffondendosi dall'Inghilterra e dalla Francia nella metà del predetto secolo, fu accolta dai principi di molti Stati europei (Prussia, Austria, Portogallo, Spagna, Toscana, Parma, Napoli e parzialmente in Russia) e provocò fondamentali riforme sociali, politiche e culturali che eliminarono istituzioni e privilegi risalenti al Medioevo e centralizzarono e laicizzarono lo Stato aumentandone la funzionalità. In Francia, il Paese che più degli altri aveva dato il proprio contributo a tale movimento d'idee, poche o nulle furono le riforme e pertanto si verificò un accrescimento di tensione tra Stato e opinione pubblica fino a scoppiare in rivoluzione quando, dopo il pur vittorioso esito della guerra d'indipendenza americana, lo Stato francese si trovò gravemente indebitato. Il Paese, indottrinato dalle nuove correnti, chiese che fossero modificati gli antiquati sistemi di imposizione fiscale vigenti, risalenti al Medioevo, per i quali due dei tre “stati” in cui era divisa la popolazione (clero e nobiltà) erano esenti. Lo Stato francese era povero mentre il Paese era ricco: tale sperequazione non poteva essere agli occhi del terzo “stato” (e lo era) che il risultato dei privilegi di cui quei due ceti godevano da quando era stata affidata loro una funzione politica ma che erano sopravvissuti alla funzione stessa, praticamente cessata da quando Richelieu aveva creato la burocrazia direttamente dipendente dal sovrano: la nobiltà soprattutto si era trasformata in una classe di cortigiani fannulloni e parassiti. Il terzo stato (la borghesia), che unico sopportava gli oneri fiscali, chiese e ottenne che su tale problema si convocassero gli Stati generali, il che avvenne a Versailles il 5 maggio 1789. I discorsi d'apertura del re Luigi XVI e di Necker cercarono di ridurre l'importanza dell'avvenimento quasi fosse una mera questione di bilancio, mentre il problema era invece essenzialmente politico, il che apparve subito evidente quando, trattandosi di verificare i poteri dei delegati eletti, scoppiò tra il terzo stato e i primi due un violento contrasto sul sistema di votazione che erroneamente non era stato precedentemente discusso e risolto. Una votazione per “stati” avrebbe dato la maggioranza ai ceti privilegiati (due contro uno); per “testa”, alla borghesia, dato che il terzo stato aveva 621 deputati compatti contro 308 del clero e 258 della nobiltà, questi ultimi invece non erano così compatti perché nel clero v'erano ricchi vescovi e ancor più ricchi abati i cui interessi economici non collimavano affatto con quelli dei poveri preti di campagna. Alla riluttanza dei due ordini privilegiati d'unirsi al terzo stato, questo, che rappresentava il 96% della popolazione francese, rispose proclamandosi Assemblea Nazionale (17 giugno 1789) ottenendo anche l'adesione di qualche rappresentante delle prime due classi com'era facile prevedere. La fermezza con cui l'Assemblea Nazionale proclamò di non separarsi senza aver prima dotato la Francia d'una Costituzione (giuramento della pallacorda), e che s'era pertanto proclamata Assemblea Nazionale Costituente (27 giugno) e a cui dovettero aderire i primi due stati, fu decisiva: l'Assemblea divenne la vera sovrana del Paese dato che il re, avendo dimostrato d'esser pronto alle concessioni solo quando esse gli venivano strappate con la forza, perse ogni prestigio.

Rivoluzione francese: la presa della Bastiglia

Dall'assemblea si passò ben presto alla piazza. Il 14 luglio 1789 la folla assaliva e prendeva la Bastiglia; il 4 agosto l'abolizione, dietro riscatto da parte dei contadini, dei diritti feudali scatenò nelle campagne una jacquerie ch'era già parzialmente in atto ancor prima del decreto. L'anarchia travolse il Paese: le province erano in preda al caos; voci allarmistiche e calunnie d'ogni sorta e da ogni parte diffuse generavano il sospetto e l'odio; le uccisioni e talora i massacri aumentavano; mancava il pane. Il richiamo di Necker al governo non acquietò la situazione; anzi la notizia, falsa, che la Corte preparava la controrivoluzione generò la marcia di alcune migliaia di persone su Versailles da dove prima i sovrani (6 ottobre) e poi la Costituente (19 ottobre) furono costretti ad andarsene per stabilirsi a Parigi: avvenimento gravissimo perché da quel momento gli organi dello Stato furono sotto il controllo della folla che violenti demagoghi, talora prezzolati, scatenavano sempre più. Aveva inizio nel contempo l'esodo di alcuni nobili, timorosi del peggio, all'estero, particolarmente a Coblenza e a Torino. Si forniva così allo Stato, affamato di danaro e il cui disavanzo aumentò con l'aumento del disordine, il motivo, attuato poco più tardi, di porre il sequestro sui beni degli emigrati; tali beni furono venduti ai benestanti borghesi, i quali da allora divennero interessati sempre più a sostenere il mantenimento del governo che si ispirava a idee rivoluzionarie. Frutto invece di immediate necessità finanziarie fu la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici: i preti, che dei beni della Chiesa erano non proprietari bensì usufruttuari, sarebbero stati mantenuti dallo Stato. Da qui alla soppressione di vari ordini e alla richiesta del giuramento di fedeltà al clero (che, essendo ora sovvenzionato dallo Stato, poteva essere considerato quasi un suo funzionario) il passo era breve e ciò portò allo scoppio di una vera e propria guerra tra la Chiesa cattolica e il governo francese, tra preti giurati, che avevano prestato il richiesto giuramento, e preti refrattari, che lo avevano rifiutato; tra la Francia e la Santa Sede; tra una parte della Francia e il resto. Si aprì anche un dissidio insanabile tra l'Assemblea e il re che, essendo profondamente religioso, non poteva ammettere atti di confisca dei beni della Chiesa. Si andavano formando frattanto embrionali partiti, gruppi di uomini aderenti alle stesse concezioni politiche, che presero nome dall'edificio ex religioso in cui si radunavano: i foglianti, monarchici costituzionali; i cordiglieri, repubblicani; i giacobini, democratici risoluti. Il re si appoggiò al corrotto Mirabeau, ma, morto costui (1791), tentò la fuga (20-21 giugno). Preso a Varennes e ricondotto a Parigi, dal 14 settembre, col titolo di “re dei Francesi” (anziché quello tradizionale di “re di Francia e di Navarra”) iniziò la sua breve esperienza di sovrano costituzionale. L'Assemblea Costituente, sul modello teorizzato da Montesquieu, aveva dotato la Francia di una monarchia costituzionale, attuando il principio della divisione dei poteri: al re quello esecutivo, esercitato da ministri da lui scelti al di fuori della Camera; a un'Assemblea, chiamata Legislativa, di 740 membri di cui non potevano far parte i membri della precedente Costituente, il potere legislativo; a una magistratura elettiva, quello giudiziario. La Francia veniva divisa in 83 dipartimenti e 42.000 comuni in ognuno dei quali le cariche erano pure elettive, ma mancava qualsiasi organo di controllo o di collegamento per cui di fatto la Francia veniva divisa in una serie di repubblichette. La Corsica, già annessa nel 1789, e il Contado Venassino furono anch'essi costituiti in dipartimenti. Nella nuova Camera spiccava un altro partito, quello girondino (dal nome del dipartimento della Gironda), repubblicano, federalista, relativamente moderato, che assorbì gran parte dei cordiglieri e che si trovò ben presto in urto coi giacobini. Andati al potere dopo la caduta dei foglianti, i girondini, per mettere alla prova la buona fede del re, lo obbligarono a dichiarare la guerra a Francesco II, imperatore d'Austria e zio della regina di Francia Maria Antonietta, da cui questa e il marito invece si aspettavano soccorso per uscire dalla situazione incombente. Le sconfitte inizialmente subite dal disorganizzato esercito francese fecero aumentare i sospetti sul re che il 20 giugno 1972 venne aggredito alle Tuileries e il 10 agosto fu arrestato e condotto al Tempio. Processato (si erano trovate prove, durante il saccheggio della reggia, delle intese tra il re e la corte di Vienna), fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. In molte parti della Francia le condanne senza processo presero il sopravvento dopo l'avanzata austro-prussiana, che era stata preceduta da uno stolto manifesto del duca di Brunswick nel quale si intimava ai Francesi di ritornare all'obbedienza del loro sovrano, e si ebbero così, promotore Danton, le stragi di settembre durante le quali vennero massacrati tutti i sospetti già rinchiusi nelle carceri. I massacri continuarono però anche dopo che a Valmy gli invasori furono respinti (settembre 1792). Dopo la decapitazione del re si formò una vasta coalizione europea contro la Francia (che il 21 settembre 1792 si era proclamata Repubblica a opera della nuova camera, detta Convenzione, composta di 782 deputati), coalizione capeggiata dall'Inghilterra, sino ad allora cauta nel giudizio sugli avvenimenti di Francia, perché il governo di Londra vide nel nuovo governo repubblicano, e nelle idee che esso voleva diffondere in Europa, nient'altro che una nuova strada per dominare il continente. La guerra tornò ad andar male per i Francesi, mentre all'interno la situazione si andava pure radicalizzando: sequestro dei beni del clero e degli emigrati; emissione di assegnati garantiti dai beni nazionali ma che, emessi in eccesso, provocarono una spaventosa inflazione e quindi miseria e fame; istituzione di un tribunale penale straordinario, più tardi chiamato tribunale rivoluzionario, e di un Comitato di Salute Pubblica che mise a tacere la Costituzione elaborata dalla Convenzione (la quale era stata eletta, a differenza della Costituente e della Legislativa fondate sul censo, a suffragio universale, secondo i principi di Rousseau). Insorgeva contro la Repubblica la Vandea e, come capita nei momenti difficili, gli estremisti, cioè i giacobini – il gruppo più acceso della Montagna –, presero il sopravvento sui girondini (abbandonati anche dall'anonima, incerta e timorosa “palude”), divenuti a loro volta sospetti per aver tentato di salvare la vita del re. Un'insurrezione (2 giugno 1793) li tolse di mezzo: tutti quelli caduti nelle mani degli avversari furono incarcerati, gli altri dovettero darsi alla macchia.

Rivoluzione francese: i giacobini al potere

I giacobini rimasero padroni della Francia con l'aiuto dell'ultrarivoluzionario Comune di Parigi. Le misure draconiane del Comitato di Salute Pubblica, dominato da Robespierre, salvarono la Francia. Fu introdotta la leva di massa e si riorganizzò l'esercito; si imposero requisizioni, il tesseramento, tasse sui ricchi; si soccorsero i poveri con l'abbozzo di un sistema di sicurezza sociale; si introdussero l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, l'abolizione della schiavitù dei neri nelle colonie, ecc. L'azione repressiva fu violenta: ghigliottinati Maria Antonietta e l'infido duca d'Orléans; ghigliottinati i girondini prigionieri (Brissot, Bailly, Vergniaud) e morti suicidi o di stenti quelli fuggiaschi (Roland, Buzot, Condorcet); semidistrutte le città ribelli riconquistate (Lione, Nantes, Tolone) e massacrati i loro abitanti. Il colmo fu raggiunto nella primavera del 1794 quando fu varata la legge dei sospetti per cui bastava appunto un sospetto per esser mandati al patibolo, anche se non esistevano prove contro l'accusato. Tuttavia, la discordia divise il gruppo dei vincitori. Morto Marat, assassinato da una giovane provinciale che voleva vendicare lo sterminio dei girondini (13 luglio 1793), scoppiò una lotta ideologica e di rivalità personali tra i superstiti. Robespierre, che godeva di poteri dittatoriali, dovette affrontare due differenti opposizioni: gli “indulgenti” (Danton, Desmoulins), dietro cui stava il torbido mondo degli affaristi che chiedevano un'attenuazione delle misure di emergenza; gli “arrabbiati” e gli hebertisti, che erano su posizioni estremiste e anarchiche. L'ateo Hébert, che sosteneva il culto della Dea Ragione, fu inviato alla ghigliottina da Robespierre dopo un tentativo insurrezionale fallito di suoi seguaci (4 marzo 1794). Danton, che dopo le nuove vittorie delle truppe francesi entrate in territori stranieri, inclinava alla clemenza, fu inviato alla ghigliottina (5 aprile), con gli amici Desmoulins e Fabre d'Englantine da Robespierre il quale, freddo, logico, teista e incorruttibile, non solo instaurò contro l'ateismo il culto dell'Ente Supremo, ma voleva far piazza pulita di tutti i ladri e profittatori della rivoluzione che infestavano la Convenzione. Un incauto discorso da lui pronunciato che annunciava prossime nuove esecuzioni senza indicare i colpevoli provocò la coalizione di tutti coloro che si sentivano minacciati, capeggiati da Fouché e Tallien; il 9 termidoro (28 luglio 1794) Robespierre fu rovesciato e il giorno dopo fu messo a morte coi suoi più fidi seguaci (Saint-Just, Couthon). La reazione che seguì a tale avvenimento fu imprevista: i nuovi vincitori non erano in realtà i superstiti girondini o foglianti, bensì i giovani che avevano combattuto in guerra (scherniti col nome di muscadins) i quali, volendo la fine del Terrore e delle sue crudeli leggi, deportarono o mandarono a morte chi di quelle leggi era stato fervido esecutore (Collot d'Herbois, Barère, Billaud Varennes, Fouquier Tinville, Carner). Poco dopo, successi internazionali completavano il nuovo corso: Toscana, Spagna e Prussia uscivano dalla coalizione e firmavano la pace con la Francia, che da essa otteneva notevoli vantaggi territoriali. Grave rimaneva invece la situazione interna dal punto di vista finanziario e questo sarebbe bastato a far crollare la Repubblica se il nuovo pretendente Luigi XVIII, succeduto al piccolo Delfino (Luigi XVII) nel giugno del 1795, non fosse stato così stolto da rivolgere un proclama alla nazione in cui programmava il ritorno al giugno 1789, provocando la decisa reazione di tutti coloro che, avendo comprato beni nazionali già del clero o degli emigrati, temevano di perderli. Si affermava in tal modo la volontà della borghesia di stabilizzare le conquiste della rivoluzione mantenendo al vertice un governo moderato repubblicano. Questo crollo dei giacobini illuse però la destra che fosse venuto il momento di tentare un colpo di forza approfittando soprattutto del malcontento suscitato dalla legge con cui la Convenzione, promulgando una nuova Costituzione, stabiliva che i due terzi dei membri delle due nuove camere legislative (Camera degli Anziani di 250 membri e Camera dei Cinquecento) dovevano esser scelti tra i membri della Convenzione stessa.

Rivoluzione francese: Napoleone Bonaparte

Il tentativo dei monarchici fallì per la decisione di un giovane generale corso incaricato di fronteggiarlo, Napoleone Bonaparte, il quale poco dopo ottenne dall'organo esecutivo del nuovo governo, il Direttorio (composto di 5 membri uno dei quali rinnovabile annualmente), il comando dell'Armata d'Italia che aveva il compito di distrarre forze nemiche dal fronte del Reno dove due potenti eserciti dovevano lungo il Danubio puntare su Vienna. Mentre i due poderosi eserciti venivano sconfitti, fu quella piccola armata a ottenere vittorie strepitose che permisero alla Francia di impadronirsi praticamente dell'Italia centro-settentrionale e di imporre, alla fine, la pace all'Austria (Campoformio, 1797). Tali vittorie permisero al Direttorio di superare, almeno momentaneamente, le croniche difficoltà finanziarie grazie ai gravi tributi che Bonaparte impose a Piemonte, Lombardia, Venezia, Parma, Modena, Romagna, Toscana; ma questo rese il generale sempre più indipendente dal governo di Parigi che dovette a Bonaparte anche di essere salvato da un nuovo tentativo della destra, effettuato dopo la scoperta e la condanna di membri della sinistra coinvolti nella Congiura degli Eguali capeggiata da Babeuf, che fu ghigliottinato. Infatti Bonaparte inviando truppe dall'Italia a Parigi permise al Direttorio di epurare i membri della Camera dei Cinquecento sospetti di tale tendenza, e di deporre anche due dei direttori sospettati di essere filomonarchici. Nonostante la satellizzazione della Svizzera e dell'Olanda, il Direttorio era sempre meno popolare e sempre più popolare diventava invece il giovane generale vittorioso, per cui il Direttorio trovò opportuno assecondare il suo fantastico piano d'una spedizione in Egitto che avrebbe dovuto piegare l'Inghilterra, tuttora in armi. Mentre Bonaparte era in Africa e in Siria, il Direttorio fece occupare lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli, provocando una seconda coalizione contro la Francia, che ben presto annullò non solo le occupazioni ultime, ma distrusse anche i risultati delle vittorie del 1796-97. La Francia stessa, direttamente minacciata, venne salvata dalla vittoria di Massena a Zurigo sui Russi e dal contrasto scoppiato tra le corti di Vienna e di Pietroburgo che indusse lo zar Paolo I a ritirarsi dalla lega. Le sconfitte militari e la venalità dei suoi membri screditarono completamente il Direttorio per cui era diffusa opinione che solo un colpo di Stato dell'esercito avrebbe potuto salvare la situazione. Morti Hoche e Joubert, titubante Moreau, il colpo fu attuato da Bonaparte tornato improvvisamente dall'Egitto. Corrotti alcuni direttori, messi nell'impossibilità d'agire altri, il 18 e il 19 brumaio 1799 (9 e 10 novembre), con la docile sottomissione della Camera degli Anziani, subendo l'uso della forza la Camera dei Cinquecento, il Direttorio fu sciolto e fu nominata una magistratura composta da tre consoli, con a capo Bonaparte, col compito di dare alla Francia un'ennesima Costituzione. Si era arrivati al cesarismo, che troverà la sua piena espressione cinque anni più tardi con la proclamazione dell'Impero. Tanto il Consolato quanto l'Impero ebbero la funzione di riconoscere l'avvento al potere effettivo della borghesia contro ogni tendenza di restaurazione monarchica o di riscossa del quarto stato (i ceti popolari), e tale rivoluzione sociale si effettuò e rimase non solo in Francia ma anche nei Paesi che a opera di questa erano stati occupati durante il periodo repubblicano o furono occupati durante l'impero di Napoleone. I Paesi maggiormente influenzati furono l'Italia, la Svizzera, la Germania occidentale, il Belgio e l'Olanda, in parte la Spagna e la Prussia. I principi della Rivoluzione francese (liberté, egalité, fraternité), benché portati sulla punta delle baionette e spesso non rispettati dagli invasori, lasciarono un marchio indelebile negli strati della società di quei Paesi e la storia degli anni successivi al Congresso di Vienna sarà il tentativo di attuarli più o meno fedelmente.

Rivoluzione francese: la stampa della Rivoluzione francese

Prima della Rivoluzione la Francia, contrariamente all'Inghilterra e alla Germania, non possedeva una stampa di qualche rilievo. Il giornale non poteva attecchire in una nazione in cui imperavano una censura oscurantista e un rigido dispotismo mentre non riusciva a trovare appoggio e comprensione dagli stessi intellettuali che lo consideravano inutile, se non dannoso. Soltanto nel 1777 apparve infatti il primo quotidiano, il Journal de Paris, che ebbe vita stentata (e fu sospeso d'autorità durante la Rivoluzione). Rarissimi anche i periodici (letterari e scientifici), uno solo dei quali, il Mercure de France, nato nel 1724 (e diretto dal 1788 dal Mallet du Pan) giunse sino alla Rivoluzione. Ma il maggio-giugno 1789 vide un'autentica fioritura di giornali: si calcola che nell'estate di quell'anno raggiunsero il numero di 250, molti dei quali tuttavia cessarono le pubblicazioni entro dicembre. Formalmente illegali fino ad agosto (quando fu votato l'art. II della Dichiarazione dei diritti che proclamava “La libera circolazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo...”), acquistarono ben presto un'autorità e un peso notevolissimi nelle vicende politiche della Francia del tempo. La necessità di riferire giorno per giorno i dibattiti dell'Assemblea trasformò i fogli in quotidiani (donde “giornale”) e i redattori, impegnati quotidianamente, in giornalisti professionisti. Tra i primi giornali apparsi si citano: l'Observateur di Gabriel Feyder; il Courrier de Provence di Mirabeau; il Courrier de Versailles (poi Courrier des 83 départements, detto semplicemente Courrier de Gorsas) diretto dal girondino Antoine-Joseph Gorsas; il Patriote français di Brissot; Point-de-vue di Barère. Nel luglio 1789 iniziò le pubblicazioni Les Révolutions de Paris che, diretto dal giovanissimo avvocato Elisé Loustalot ed edito da Proudhomme, divenne subito popolarissimo. Diffuso in tutta la Francia raggiunse spesso le 200.000 copie, una cifra enorme per l'epoca: si pensi che l'Ami du Peuple di Marat, al quale si dovette, fra l'altro, l'insurrezione del 10 agosto, non tirava più di 10.000 copie. Nell'autunno del 1789 videro la luce anche gli Annales patriotiques di Mercier e Carra (due ottimi giornalisti) che ebbero grande successo nel periodo girondino (1792-93); il Courrier de Brabant di Camille Desmoulins e l'hebertista Orateur du Peuple di Stanislas Fréron, uno dei quotidiani più intransigenti e radicali della capitale. Sempre nel 1789 sorsero numerosissimi anche i fogli monarchici, tutti risolutamente controrivoluzionari. Sovvenzionati dalla lista civile della corona (venticinque milioni di franchi) si imposero, fra gli altri, l'Ami du Roi dell'abate Royou, gli Actes des Apôtres di Poltier e il Courrier français fondato dall'abate Poncelin de la Roche-Tilhac. A C. J. Panckoucke si deve il Moniteur (che ebbe poi vita lunghissima), specializzato in resoconti "obiettivi" delle sedute parlamentari. In realtà fu sempre dalla parte del partito vincente: fu di volta in volta partigiano dei girondini, dei giacobini, del Direttorio, ecc. I suoi resoconti furono quindi spesso autocensurati e peccano di inesattezza. Vita lunghissima (sino alla II guerra mondiale) ebbe anche il Journal des débats di Gaultier de Bianzat, più imparziale e attendibile del precedente. I giornali della Rivoluzione erano essenzialmente opere personali del direttore che, quasi sempre, ne era anche l'unico estensore e il proprietario. Non erano rare però le collaborazioni: Marat, per esempio, scrisse più di un articolo per l'Orateur du Peuple. Si scoprì ben presto che il giornale poteva costituire, finanziariamente, un buon affare. Loustalot, Proudhomme, Panckoucke e altri si fecero una fortuna; in ogni caso se il direttore era un uomo politico in vista, il successo finanziario era assicurato. Tra il 1790 e il 1791 il panorama della stampa rivoluzionaria si arricchì di alcune testate popolarissime: la Bouche-de-Fer, di cui era proprietaria e direttrice la signorina Louise Kéralio che sposò poi Robert, legandosi al club dei cordiglieri. La Bouche-de-Fer fu il primo giornale a dichiararsi repubblicano subito dopo la fuga di Luigi XVI a Varennes. Nel 1791 apparvero anche L'Ami des citoyens di Jean-Lambert Tallien; le Républicain di Condorcet; ma soprattutto “esplose” il Père Duchesne di Jacques René Hébert, foglio rivoluzionario estremista, dissacrante e impietoso fino alla crudeltà, che ebbe subito grandissimo seguito. Sembra abbia raggiunto, in alcuni casi, le 600.000 copie. Nell'ambito dei giornali satirici va anche segnalato il monarchico Petit Gautier fondato da Gautier de Syonnet. A sé stante, per la sua impostazione “a doppio fondo” fu il Courrier Universel (nato nel 1792) diretto da un giornalista di grande talento, Nicolas de Ladevère, il quale riuscì a camuffare per rivoluzionario un foglio nettamente reazionario. Al centro di aspre polemiche fu il Thermomètre du Jour del convenzionale Delaure (fondato nel 1791) quando si scoprì che era regolarmente sovvenzionato dai girondini. Non del tutto limpida fu anche la posizione politica de Le Cosmopolite uscito nel 1790 a opera di Pierre-Jean Proly (che col giornale riuscì a rifarsi una fortuna dopo aver sperperato le sostanze paterne) quando si scoprì che questi era figlio naturale del principe von Kaunitz, insigne esponente della corte austriaca e già ministro di Maria Teresa. Al centro di un clamoroso caso giudiziario fu l'Ombre de Marat uscito nel 1793 dopo la morte del grande rivoluzionario, a opera dei cordiglieri Roux, Leclerc e Vallet: vi fu chi sospettò, nell'ordine di soppressione, le pressioni di Hébert che ne temeva la concorrenza. Ancora nel 1793 vide la luce il montagnardo estremista Rougyff, una curiosa testata che nascondeva in un anagramma il nome del direttore, l'avvocato Armand-Benoit Guffroy. Nell'ambito dei giornali nati durante la Rivoluzione non va dimenticata la patriottica iniziativa di Filippo Buonarroti che nel 1790 diede vita, in Corsica, a L'ami de la liberté italienne.

Rivoluzione francese del 1830

Detta anche Rivoluzione di luglio e, in Francia, Les trois Glorieuses (le tre gloriose, con riferimento alle tre giornate del 27, 28, 29 luglio), è la rivolta che cacciò dalla Francia Carlo X. Ebbe i suoi presupposti nell'insofferenza della borghesia, repubblicana o monarchica, per la politica gretta e culturalmente povera espressa dalla restaurata monarchia borbonica. Il regno di Carlo X era stato in fondo un braccio di ferro tra le concezioni assolutiste e bigotte del re e della corte e la spinta libertaria che saliva dal popolo; spinta che invano si cercò di neutralizzare con la “patriottica” spedizione di Algeria. Nell'estate del 1830 il re, sfidando l'opinione pubblica, emise le “Quattro ordinanze di Saint-Cloud” (25 luglio) che sospendevano la libertà di stampa e riducevano il numero degli elettori. I giornalisti, riuniti d'urgenza sotto la presidenza di Thiers (26 luglio), dichiararono illegali le ordinanze e si proclamarono “dispensati dall'obbedire”, mentre i repubblicani Cavaignac, Raspail, Trélat, chiamarono il popolo alla lotta; si chiusero le fabbriche e gli operai scesero nelle vie innalzando barricate (27 luglio). La rivolta sorprese il re e il governo che, a Rambouillet, si trovarono del tutto impreparati. La guarnigione di Parigi, comandata dall'impopolare maresciallo Marmont, non aveva forze sufficienti e mancava di ordini. Il 28 luglio gli insorti si impadronirono dell'Hôtel de Ville e di Notre-Dame. Respinto il contrattacco di Marmont che il 29 ripiegò su Saint-Cloud, Parigi restò completamente in mano agli insorti. Carlo X cercò di parlamentare, promise la revoca delle ordinanze, ma invano. Nella notte del 29 venne approvato dal popolo l'appello a Luigi Filippo d'Orléans che il 31 assunse formalmente le funzioni di luogotenente generale del regno. Il 2 agosto Carlo X abdicò, lasciando il posto a quella che venne chiamata la “monarchia di luglio”.

Rivoluzione inglese del 1642-49

Grandioso movimento, avvenuto in Inghilterra tra il 1642 e il 1649, le cui origini risalgono al tentativo eseguito nel corso dei secoli da parte del potere regio di ridurre o soffocare le libertà accordate agli Inglesi con la Magna Charta (1215) e con provvedimenti successivi. Tali tentativi, spesso riusciti coi sovrani della casa dei Tudor (Enrico VIII, Maria la Cattolica ed Elisabetta), furono ulteriormente effettuati e addirittura teorizzati, sostenendo la validità della monarchia di diritto divino, da Giacomo I Stuart, il quale però se cercava di annientare i poteri del Parlamento nulla faceva sul terreno pratico per render effettivo tale scopo e soprattutto non comprendeva che a tale fine occorreva organizzare un esercito stanziale come l'esperienza degli Stati continentali dimostrava. Il conflitto con la Camera dei Comuni, rappresentante d'una borghesia mercantile sempre più prospera dopo le gravi sconfitte navali subite dalla Spagna, scoppiò apertamente con Carlo I, successore di Giacomo I, il quale si vide negati dai tre Parlamenti convocati tra il 1625 e il 1629 i mezzi per condurre la guerra contro la Spagna e al contrario fu posto di fronte a una Petition of Right (1628) che richiamava in vigore numerose limitazioni del potere regio sulle imposizioni di tasse, sull'impossibilità di imprigionare chicchessia o spogliarlo dei propri beni o esiliarlo se non in forza di una sentenza, sul divieto di tribunali speciali. Dinanzi a questa serie di limitazioni del potere del re, Carlo I, dopo averle accettate, chiuse il Parlamento e per 11 anni governò con l'ausilio di un organismo di fatto, la Camera Stellata, e di ministri da lui scelti (Strafford, Laud, Weston) violando tutte le concessioni fatte al popolo, riscuotendo imposte e imponendone di nuove arbitrariamente. Il conflitto religioso che oppose Carlo I e la Chiesa presbiteriana scozzese, alla quale il re tentava di imporre la struttura assai più vincolante esistente nella Chiesa anglicana, provocò un aperto conflitto con la Scozia che rinnovò (1633) la professione di fede nazionale già fatta contro il cattolicesimo (Covenant). Il sinodo generale di Glasgow, poi, abolì (1638) tutte le innovazioni introdotte da Carlo I e da suo padre Giacomo I. Dopo un vano tentativo di accomodamento, scoppiò un aperto conflitto: battuto a Newburn-upon-Tyne (1640) e privo di fondi, il re fu costretto a convocare nuovamente il Parlamento inglese e dopo la breve sessione del quarto (il Corto Parlamento) del suo regno, fu eletto lo stesso anno il quinto (detto poi il Lungo Parlamento). La Camera dei Comuni era ormai decisa a limitare il potere regio ed elevò un Bill of Attainder (procedimento di dubbia legalità poiché l'accusatore, a differenza di quanto avviene con l'impeachment, è al tempo stesso giudice) prima contro il conte di Strafford che, processato e abbandonato dal re, fu decapitato (1641), poi contro tutti coloro che avevano eseguito gli illegali ordini del re e dei suoi ministri (esattori di imposte, doganieri, giudici, ministri e persino i vescovi che avevano votato precedentemente in favore del re). Lo stesso arcivescovo di Canterbury, arrestato nel 1640, fu decapitato nel 1645. Contribuivano molto a eccitare l'opinione pubblica contro il sovrano non solo alcuni abili ed eloquenti deputati (Pym, Hampden, St. John, Holles, Vane) ma persino alcuni moderati (Hyde, Falkland, Digby, Capel) e in generale tutti i puritani i quali mirando ad abbattere il potere regio, attaccavano la Chiesa anglicana che di quel potere era uno dei pilastri. Reso impossibile lo scioglimento del Parlamento senza il suo consenso, aboliti la Camera Stellata e gli altri organismi che avevano reso possibile al sovrano di governare dal 1629 al 1640, accusato Carlo I di aver fomentato una sanguinosa rivolta dei cattolici irlandesi, di aver prelevato danari per armare un proprio esercito, al momento opportuno il Parlamento per giustificare la propria condotta rivolse un appello al popolo (Remonstrance) pieno di falsità mescolate con evidenti verità che rendevano plausibili anche le prime. Il tentativo fallito di Carlo I di arrestare cinque deputati entrati in trattative coi ribelli scozzesi (gennaio 1642) fu all'origine della guerra civile. Carlo I riparò a York e di fronte alle esorbitanti richieste avanzate dal Parlamento (2 giugno) alzò il vessillo di guerra a Nottingham (22 agosto). Dapprima vittoriose, le truppe reali furono battute a Edgehill (1642), a Marston Moor, nuovamente a Newbury (1644), poi, ancor più gravemente, a Naseby (1645). Carlo I, che aveva sperato nell'appoggio degli Scozzesi inimicatisi con gli Inglesi, fu, a causa di sue manovre sleali, venduto dai primi ai secondi per 400.000 sterline. Catturato a Wight fu processato e decapitato (30 gennaio 1649), per volontà del generale Cromwell, che era andato distinguendosi durante la guerra e aveva da ultimo soppiantato il generale Fairfax: la guerra civile aveva messo in secondo piano i parlamentari e portato alla ribalta i militari. Abolita la monarchia e la Camera dei Lord, Cromwell batté gli Irlandesi e gli Scozzesi insorti obbligando alla fuga il figlio di Carlo I, il futuro Carlo II, e governò dittatorialmente con l'assistenza di quel che rimaneva del Lungo Parlamento, finché non lo sciolse violentemente nel 1653. Ricostituì subito dopo un Piccolo Parlamento di 156 membri che riformò l'ordinamento giudiziario, introdusse l'elezione del pastore da parte dei fedeli delle singole parrocchie e rese obbligatorio il matrimonio civile; ma timoroso del malcontento pubblico, Cromwell, epurato anche il Piccolo Parlamento, si fece proclamare Lord Protettore (1653). Si instaurò allora, di fatto, una monarchia militare puritana assai lontana dalla democrazia desiderata dai puritani, tanto lontana che il deputato Vane fu incarcerato per averne domandato l'instaurazione (1656). Morto Cromwell nel 1658, il suo sistema di governo perì con lui e due anni più tardi fu restaurata la monarchia nella persona di Carlo II. Se dal punto di vista internazionale Cromwell contribuì assai ad aumentare la potenza inglese a scapito dell'Olanda e della Spagna, all'interno lasciò di sé un ricordo talmente cattivo che gli Inglesi da allora preferirono a ogni tentativo rivoluzionario la strada delle riforme. Comunque la rivoluzione servì ad aprire la porta del potere alla borghesia e rese definitivo il distacco dell'Inghilterra dalla Chiesa di Roma.

Rivoluzione inglese del 1688

Detta anche Glorious revolution perché avvenne pressoché senza spargimento di sangue, scoppiò in Inghilterra nel novembre 1688 e durò pochi giorni. Fu causata dalla pretesa del cattolico re Giacomo II Stuart, succeduto al fratello Carlo II nel 1685, di attuare, d'accordo col re di Francia Luigi XIV, un tentativo di riscossa cattolica in Europa e di ripristinare il potere assoluto del re in Inghilterra sul modello di quanto avveniva negli Stati del continente europeo, non accorgendosi delle differenze sostanziali esistenti tra questo e il regno isolano. La revoca dell'Editto di Nantes e la pressione francese sull'Olanda da un lato, il bagno di sangue dopo le insurrezioni calvinista e presbiteriana di Montmouth e di Argyle (1685) e la richiesta del re inglese di tenere ai suoi ordini un esercito stanziale furono le prove esteriori del piano sopra accennato. Avendo il Parlamento, benché in maggioranza tory e pertanto favorevole al re, respinto l'abrogazione dell'Atto di Prova (Test Act) emanato nel 1673 a scapito dei cattolici, Giacomo II, che mirava ad affidare loro la massima parte e i più importanti posti di comando dello Stato, giocò la carta di unire cattolici e puritani contro la Chiesa anglicana e le università, e con la Declaration of Indulgence (1687) sospese in blocco le leggi loro contrarie. Mentre però tale piano falliva per la riluttanza dei puritani a unirsi ai gesuiti e per l'atteggiamento decisamente anticattolico, sul piano politico, del calvinista Guglielmo III d'Orange, genero del re e statolder d'Olanda, nel giugno 1688 la cattolica moglie di Giacomo II, Maria di Modena, generava un erede al trono che evidentemente sarebbe stato allevato nel credo di Roma. La prospettiva che per il periodo a venire il re d'Inghilterra fosse sempre un cattolico provocò una congiura per deporre Giacomo II e sostituirgli la figlia primogenita, nata da precedente matrimonio, Maria, che era di fede protestante e moglie di Guglielmo III d'Orange. Questi sbarcò a Torbay il 5 novembre 1688 e marciò su Londra senza difficoltà perché Giacomo II, abbandonato da tutti, riparò ben presto in Francia. Maria e Guglielmo III furono eletti insieme sovrani d'Inghilterra (13 febbraio 1689) mentre Giacomo II, il neonato principe e gli eventuali futuri eredi di quest'ultimo venivano esclusi dalla successione al trono. Le prerogative regie furono ridotte e il Parlamento acquistò da quel momento un potere politico che il corso degli avvenimenti successivi non fece che aumentare sino ai nostri giorni.

Rivoluzione russa del 1905

Con questa espressione ci si riferisce alla fiammata rivoluzionaria che investì la Russia zarista negli anni a cavallo del secolo e che registrò, appunto nel 1905, i più clamorosi episodi. Occorre considerare che nel sec. XIX, dopo (e anche in conseguenza) le guerre napoleoniche, la società russa era entrata in crisi. Le classi medie e l'intelligencija per prime si erano poste su un piano di netta contestazione dell'autocrazia facendo propri ideali spesso romantici, quasi sempre utopistici, nell'intento di avviare la nazione verso livelli umani più accettabili. Sul finire del secolo l'impatto con le teorie marxiste coincise con il decollo dell'industrializzazione e mentre si avviava un processo di urbanizzazione senza precedenti si apriva anche un dibattito, negli ambienti progressisti, destinato a chiarire e razionalizzare i termini della lotta al potere assoluto. I movimenti di emancipazione si trasformarono rapidamente in partiti politici, i cospiratori in quadri efficienti. Opuscoli e giornali clandestini cominciarono a circolare nella massa sempre meno grigia e abulica del nuovo proletariato urbano alle prese con il nuovo capitalismo sfruttatore e miope almeno quanto era incapace e chiuso il governo dello zar. Così per il popolo russo zar e padrone finirono per essere identificati nel nemico da piegare. Ma su questi motivi di fondo concordavano, in parte, anche la borghesia e l'aristocrazia meno retriva le quali, aspirando a una modernizzazione (in senso occidentale) delle strutture dello Stato, intravedevano la possibilità di un'ascesa politica e quindi un consolidamento dei propri interessi. All'inizio del nuovo secolo questo processo di politicizzazione della società era in pieno svolgimento quando si abbatterono sulla Russia due eventi: una profonda recessione economica (1902-03) e la guerra in Estremo Oriente. Questi fatti, mettendo drammaticamente in luce la cronica inefficienza dell'apparato governativo, fecero precipitare la situazione. Contadini e operai, un po' ovunque, nell'immenso impero scesero nelle piazze. Liberali, social-rivoluzionari e social-democratici si trovarono coinvolti nella lotta. Questi ultimi, diffidando della borghesia, non s'impegnarono direttamente nell'azione, anche se Lenin, il loro esponente più qualificato, seguiva con attenzione gli eventi. Momento iniziale della rivoluzione si può definire la strage del 22 gennaio 1905, quando un corteo di lavoratori (guidato dal pope Gabon) diretto al palazzo d'Inverno per presentare una petizione allo zar fu disperso a fucilate, con centinaia di morti e di feriti: fu la cosiddetta “Domenica di sangue” . Seguirono grandi scioperi a Pietroburgo e altrove: vi parteciparono 400.000 operai. Seguì il 17 gennaio l'uccisione del granduca Sergio, a Mosca. Nei mesi successivi intervennero altre forze politiche, come il movimento degli zemstvo e più ancora le associazioni professionali, che in un congresso a Mosca propugnarono la creazione di un'Assemblea Costituente. Sempre a Mosca si riunirono (maggio) i delegati dei contadini che diedero vita a una “lega panrussa”, fortemente influenzata dai social-rivoluzionari. Ma forse nessuna delle forze rivoluzionarie poteva confrontarsi con quella operaia, che istituiva, tra l'ottobre e il dicembre, un Soviet che a Pietroburgo fungeva da Parlamento operaio e, sotto la guida di Trotzkij e d'altri socialdemocratici, esercitava un vasto potere, subendo anche l'influenza dell'esule Lenin. Il 14 giugno si era ammutinato a Odessa l'equipaggio dell'incrociatore Potëmkin; più tardi si ebbero altri ammutinamenti nei porti di Kronštadt e Sebastopoli. Ma anche l'esercito si mostrava inquieto e malcontento. Nel disorientamento generale, il governo imperiale rimase praticamente inerte: ci si attendeva una reazione energica, si assisté invece a una politica confusa e indecisa. Solo nell'ottobre Nicola II, preoccupato per le agitazioni polacche, lituane, ucraine, belorusse e baltiche, accettava l'idea di un Parlamento (Duma). Trionfava in tal modo la borghesia con le correnti liberali; le speranze delle masse lavoratrici si spegnevano. In ogni caso, l'autocrazia zarista aveva rivelato la sua assoluta incapacità di risolvere i problemi della Russia.

Rivoluzione russa del 1917: cause

La grande rivoluzione che abbatté lo zar e portò al governo della nazione russa i comunisti (bolscevichi) si articolò in due momenti storici detti, rispettivamente, Rivoluzione di febbraio e Rivoluzione d'ottobre. In realtà gli eventi si svolsero in marzo e in novembre, essendo a quel tempo in vigore in Russia il calendario giuliano (“vecchio stile”) in ritardo di tredici giorni rispetto al calendario gregoriano. La rivoluzione del 1917 ebbe le sue cause remote in quegli stessi motivi che provocarono lo scoppio della rivoluzione del 1905 cui peraltro si aggiunsero ulteriori gravi errori del governo zarista e poi del governo borghese, frutto di analisi assolutamente insufficienti e di scelte reazionarie, o quanto meno “moderate”, nei confronti della crisi in cui si dibatteva il proletariato e, più in generale, l'intera società russa. Gli anni successivi al 1905, fino allo scoppio della guerra mondiale, furono caratterizzati da una timida apertura ai ceti conservatori e da un'accentuazione del rigore poliziesco nei confronti dei “rivoluzionari”. Il regime parlamentare, introdotto a seguito della rivoluzione del 1905, era stato ben presto ampiamente ridimensionato, la Duma più volte sciolta, le sue attribuzioni drasticamente ridotte: ciò che finì per indisporre la borghesia che ne era stata la maggiore beneficiaria. La riforma agraria del 1907 (che, nelle promesse, avrebbe dovuto dare un certo sollievo alle inumane condizioni di vita dei mugichi) si rivelò in pratica un'autentica beffa, aprendo così ampi spazi alla propaganda dei socialisti-rivoluzionari nelle campagne. D'altra parte, la forte crescita industriale favorì l'esodo dei contadini ma aumentò a dismisura il numero dei proletari, pagati con salari da fame, concentrati in poche città e quindi facilmente organizzati dai partiti marxisti. Di fronte a una siffatta situazione, obiettivamente esplosiva, il governo zarista intensificò l'apparato poliziesco e anziché tentare di risolvere almeno i più macroscopici problemi sociali moltiplicò gli arresti e le deportazioni, censurò, sequestrò, represse. Tutto ciò scardinò, in qualche momento, gli apparati dei partiti rivoluzionari ma non ne impedì lo sviluppo. Il governo affidò la propria credibilità, puntando su di una strategia a largo raggio, alla politica estera, all'alta finanza, alla difesa: avviò l'alleanza con la Francia e la Gran Bretagna, favorì l'afflusso del capitale straniero, potenziò l'esercito. Tutto ciò non arrestò lo stillicidio degli scioperi, delle manifestazioni e delle proteste, ma le puntigliose statistiche del Ministero degli Interni, rivelando una certa stazionarietà di questi fenomeni, sembravano accreditare il cauto ottimismo governativo nella convinzione che i guai sociali, se non miglioravano, evidentemente non peggioravano. L'equivoco si accentuò con lo scoppio della guerra quando masse ingenti di contadini e di operai furono inquadrate, in rigida disciplina, nell'esercito e sui “civili” piovvero minacce e ricatti: la curva degli scioperi diminuì. Il 1914 e il 1915 furono anni “tranquilli”: apparentemente il popolo russo accettò il drastico abbassamento del tenore di vita, assistette con indifferenza a scandali vistosi (Rasputin), all'accentuarsi della corruzione, mentre erano sotto gli occhi di tutti il disordine degli approvvigionamenti, l'inefficienza dei trasporti, le incertezze nella condotta della guerra: gli stessi mali – ma questa volta dilatati a dismisura – che erano già apparsi nel conflitto con il Giappone. La guerra era un massacro: le perdite nel 1914 e 1915 erano state enormi. I Russi mancavano di armi, di munizioni; il vitto era molto scadente. Nel 1916 il numero dei disertori raggiunse il milione. La Russia era una polveriera, ma lo zar e il governo non riuscivano a capirlo.

Rivoluzione russa del 1917: la Rivoluzione di febbraio

La rivoluzione scoppiò in modo strano: anonima, spontanea, senza capi, senza un programma coerente. A Pietrogrado fra il 27 febbraio e il 12 marzo 1917 (14-28 febbraio del vecchio calendario) avvenne, tra la sorpresa di molti, l'incontro di due forze ritenute sino allora incompatibili: gli operai in sciopero e i soldati ammutinatisi quasi concordemente. Nei primi giorni, scioperi continui (90.000 scioperanti), proteste per il razionamento del pane, cortei che attraversavano la città eccitando la popolazione; poi la situazione precipitò sino allo sciopero generale (9 marzo), all'ammutinamento dei primi reparti di truppa (11 marzo), a quello di altri reggimenti, ritenuti fedelissimi (12 marzo). Ormai la polizia non era in grado di controllare il moto popolare; l'ultimo governo zarista (Golicyn e Protopopov) si dimise. Non ci fu né un uomo né un partito che osasse assumere la direzione del movimento rivoluzionario. In quello stesso 12 marzo operai di ogni corrente, guidati dai menscevichi, formarono un Comitato provvisorio del Soviet degli operai (e dei soldati, come fu aggiunto poche ore dopo); anche la Duma elesse un suo Comitato provvisorio. Rispettoso della Duma, il Soviet non osò venire in conflitto coi legislatori e si mise a rimorchio di quei liberali progressisti. L'accordo tra i due comitati si concluse con la formazione di un nuovo governo (15 marzo), presieduto dal principe G. E. Lvov, con Kerenskij, unico rappresentante del Soviet, come vicepresidente. Questo governo dovette preparare un'Assemblea Costituente e chiedere l'abdicazione dello zar. Era un governo quasi legale, che avrebbe voluto deporre Nicola II, ma non abolire la monarchia; la rivoluzione non era ancora in atto nonostante la presenza di un Soviet, che intendeva pesare sulla scelta delle soluzioni ma non assumerne da solo la responsabilità. Nicola II, colto di sorpresa mentre si trovava al fronte, tentò di rientrare, ma su un treno, bloccato dai rivoltosi alla stazione di Pskov, si svolse l'ultimo atto della dinastia: lo zar fu costretto a piegarsi a una pressione che egli giudicò “un infame tradimento”; abdicò a favore del fratello Michele, che non accettò la pesante eredità. Divenuta di fatto una repubblica (lo diventerà di diritto sei mesi dopo), la Russia cercò una guida. Ma l'uomo destinato a governarla era ancora lontano dalla patria. I “cadetti”, giunti al potere, smantellarono rapidamente l'antico regime, così che la Russia rimase senza precisi ordinamenti giuridici e senza un'amministrazione responsabile; ma non riuscirono a costruire un nuovo Stato, timorosi come erano di una rivoluzione dal basso. Frattanto si accentuò l'impressione che la Russia fosse governata da due poteri distinti, che avevano deciso di collaborare nonostante le mire contrastanti: il governo provvisorio emanato dalla Duma, dalla borghesia e dall'ideologia liberale e il Soviet di Pietrogrado, che si aggregò le forze popolari dell'intera Russia, costituendo un Comitato Esecutivo Centrale, diretto dai social-rivoluzionari e dai menscevichi. La possibilità d'accordo tra i due poteri derivava dalla convinzione dei menscevichi che una rivoluzione borghese fosse l'indispensabile ponte tra l'assolutismo e la rivoluzione proletaria, e che questa fase intermedia, perdurando lo stato di guerra, non fosse eliminabile. Il Soviet panrusso non era dunque contrario al proseguimento della guerra né intendeva conquistare il potere; era però in grado di far sentire la sua voce nelle caserme, nelle officine, al fronte, nelle campagne, dove non giungeva la voce del governo provvisorio. L'equilibrio dei due poteri venne rotto dall'arrivo di Lenin (16 aprile), che dal suo esilio svizzero, grazie all'interessata connivenza del governo germanico, era catapultato nella capitale rivoluzionaria proprio quando si faceva più evidente l'inerzia del Soviet. Lenin aveva seguito con grande interesse la Rivoluzione di febbraio, ma, guardando lucidamente alla realtà, si era accorto che il governo non aveva seguito e che la rivoluzione borghese non aveva avvenire, mentre i socialisti del Soviet stavano logorando, con una tattica d'attesa, la loro carica rivoluzionaria. Sapeva che i bolscevichi erano in netta minoranza nel Soviet, ma sapeva anche che essi solo avevano idee chiare sul modo di gestire l'avanzata di un popolo in rivolta; iniziò quindi un lavoro febbrile di propaganda per le sue idee, aiutato validamente da Trotzkij, rientrato anch'egli in Russia (17 maggio). Ma intanto menscevichi e social-rivoluzionari, persistendo nelle loro valutazioni errate, accettarono di entrare nel primo “governo di coalizione”, presieduto ancora dal principe Lvov, con sei ministri del Soviet (18 maggio). Questo secondo governo provvisorio decise di tentare un'offensiva sul fronte austriaco per ottenere una pace favorevole (luglio): l'occasione era propizia per i bolscevichi che, facendosi paladini di una pace immediata e chiedendo tutto il potere per i Soviet, guadagnarono rapidamente terreno fra gli operai e i soldati di Pietrogrado; e intanto i “socialisti”, ancora sensibili a un patriottismo di stampo borghese e timidi dinanzi alle pressioni dei rappresentanti dell'Intesa, cercarono di resistere all'incalzare della folla della capitale, il cui spirito rivoluzionario era più acceso che nel resto del Paese. Alla metà di luglio una nuova sommossa popolare che i bolscevichi non avevano promosso ma cui, non senza esitazione, finirono per associarsi, rivelò il mutato orientamento del proletariato della città; ma questa volta i menscevichi osarono più dei bolscevichi e, con l'aiuto di reggimenti fedeli, repressero duramente il moto. Vari capi bolscevichi, tra cui Trotzki, vennero arrestati; Lenin fu costretto a riparare in Finlandia (21 luglio). Intanto Lvov, sentendosi prigioniero dei menscevichi vincitori, preferì dimettersi. Dopo lunghe trattative, Kerenskij formò il terzo governo provvisorio; ma, in pieno contrasto coi bolscevichi, dovette necessariamente appoggiarsi ancora ai “cadetti” per non trovarsi isolato. Il tentativo kerenskiano di governare con energia, reprimendo il malcontento delle campagne insorte, fu fatale al nuovo governo: i rivoluzionari più risoluti (compresi i contadini ribelli) passarono tutti nel campo bolscevico. Intanto il rublo precipitava, gli industriali rifiutarono al governo ogni collaborazione, il lavoro si arrestò quasi dappertutto. Nelle campagne i contadini occuparono le terre dei latifondisti; ma il governo lanciò contro di loro i cosacchi. Tutto congiurava a favore dei bolscevichi: anche questa agitazione delle campagne che i social-rivoluzionari del governo non intendevano avallare, con grave danno per il loro prestigio. Nella seconda metà di agosto Kerenskij riunì a Mosca in una Conferenza di Stato i rappresentanti di tutte le forze politiche ed economiche nella speranza di dare un nuovo crisma di legittimità al suo governo; ma i bolscevichi abbandonarono l'assemblea, che si perse in discussioni vane. In quel mentre le forze antisocialiste (liberali, ufficiali, industriali) si organizzarono per un colpo di Stato, il cui esecutore avrebbe dovuto essere il generale cosacco Kornilov, che Kerenskij aveva da poco nominato “generalissimo”. Kerenskij chiese aiuto allo stesso Kornilov per difendere il governo; poi, accortosi delle sue vere intenzioni, lo destituì; i cosacchi giunsero a poche verste da Pietrogrado, poi abbandonarono il loro capo. La vittoria di Kerenskij fu effimera; i bolscevichi approfittarono dell'episodio per intensificare la propaganda contro il debole governo di coalizione. Questo cercò ancora di difendersi tra il settembre e l'ottobre eleggendo un Preparlamento che non ebbe seguito e che rivelò ancor meglio l'impotenza di una corrente politica che, con tutta evidenza, aveva esaurito le sue risorse.

Rivoluzione russa del 1917: la Rivoluzione di ottobre

Lenin intanto proclamava dalla Finlandia la necessità dell'insurrezione immediata con un programma integralmente rivoluzionario. Tornato in Russia (15 ottobre), convinse non senza fatica il Comitato Centrale del suo partito che l'ora era venuta; il 22 ottobre venne creato a Pietrogrado un Comitato militare rivoluzionario che si assicurò l'appoggio della guarnigione e armò formazioni operaie. Il governo valutò finalmente il pericolo e cercò di raccogliere le truppe fedeli (6 novembre), ma era troppo tardi. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre (24-25 ottobre per il vecchio calendario) le forze bolsceviche, inferiori ai 10.000 uomini, occuparono poste, telefoni, stazioni, ponti, arsenali, centrali elettriche, la Banca di Stato. Da ultimo (notte fra il 7 e l'8), cadde anche il Palazzo d'Inverno, dove il governo si era asserragliato sotto la protezione di 1500 fra soldati e allievi ufficiali. Anche la cosiddetta Rivoluzione d'ottobre si era svolta in modo quasi incruento, a dimostrare che i bolscevichi erano l'unica, tra le forze politiche e militari esistenti in Russia, a essere in grado, per saldezza d'organizzazione e chiarezza di programmi, di succedere al regime zarista. Ma se l'insurrezione era stata facile, la rivoluzione avrebbe presentato problemi di enorme difficoltà. Si trattava, innanzi tutto, di mettere fuori combattimento gli avversari. Kerenskij, fuggito rocambolescamente dal Palazzo d'Inverno, non si rassegnò alla sconfitta. Trovò qualche generale consenziente e lanciò un corpo di cavalleria contro la capitale. Ma le truppe improvvisate del bolscevismo (in gran parte operai e contadini) lo respinsero a Pulkovo (12-13 novembre). Pietrogrado era in mano agli uomini di Trotzkij; Mosca batté le forze controrivoluzionarie due giorni dopo (15 novembre); a Kerenskij non rimase che la fuga all'estero. In pochi giorni aderirono al nuovo regime molte città (Smolensk, Nižnij Novgorod, Kazan, Saratov, Samara, Ufa, Rostov, ecc.); anche i combattenti del fronte occidentale aderirono al governo bolscevico. Era il momento di organizzare il nuovo Stato sulla base di una precisa dottrina rivoluzionaria. Già durante l'insurrezione erano incominciati i lavori del Congresso dei Soviet a Pietrogrado (7-9 novembre): i bolscevichi si erano impadroniti del Comitato Centrale e avevano controllato il Congresso, abbandonato da social-rivoluzionari e menscevichi. Una serie di decreti aveva annunciato l'avvento di una pace senza annessioni né indennità, l'abolizione della proprietà fondiaria, l'istituzione di un governo di “commissari del popolo” rappresentanti i Soviet degli operai, dei contadini e dei soldati. Chiuso il Congresso, sconfitto Kerenskij, proseguì l'attività legislativa del nuovo governo: un decreto sospese la libertà di stampa, un altro creò la milizia operaia del regime (poi Armata Rossa), un terzo proclamò l'eguaglianza e la sovranità dei popoli dell'ex Impero russo, riuniti volontariamente in un'Unione Sovietica (15 novembre), altri nazionalizzarono le banche e le industrie, soppressero il commercio privato. Sussistettero tuttavia grosse difficoltà: il proletariato delle campagne seguiva ancora le orme dei social-rivoluzionari e guardava con sospetto al movimento bolscevico, di carattere cittadino e operaio. E tutte le forze rivoluzionarie non bolsceviche esigevano dai vincitori l'adempimento di una promessa tante volte ripetuta: la convocazione di una Costituente. Alla fine di novembre si riunì un Congresso contadino che accettò, non senza resistenze, le tesi bolsceviche: momento importantissimo, in cui si evitò una scissione tra operai e contadini forse irreparabile. Il governo bolscevico, benché ostile a una Costituente che avrebbe sminuito l'autorità esclusiva e la funzione direttiva del partito, non poté opporsi alla riunione di quell'Assemblea (18 gennaio 1918). Guidata dai social-rivoluzionari, essa assunse sin dalle prime ore un atteggiamento di netta opposizione ai recenti decreti governativi. Abbandonata l'assemblea, i bolscevichi la dispersero con un intervento di forza: cadde così l'ultimo tentativo (tra l'indifferenza generale, del resto) di una democrazia parlamentare. Un compito ancor più duro attendeva ora i bolscevichi: la pace con gli Imperi Centrali. Qui s'impose la ferrea volontà di Lenin che, in contrasto con altri colleghi del governo, accettò dai Tedeschi condizioni durissime, come la rinuncia a quasi un quarto della popolazione russa, ceduto alla Polonia, all'Ucraina, alla Lituania, ai Paesi baltici, ecc. Era la Pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), che consentiva alla rivoluzione di consolidarsi nelle regioni già bolscevizzate; la storia successiva finì per convalidare quella che era stata la tesi di Lenin. Posta ormai sotto la minaccia diretta di forze nemiche, la città di Pietrogrado decadde, dopo oltre due secoli, dal suo rango di splendida capitale a vantaggio di Mosca (14 marzo 1918).

Rivoluzioni del 1848

Nome col quale comunemente si definisce l'insieme dei movimenti rivoluzionari che in quell'anno e nell'anno seguente sconvolsero gran parte dell'Europa. Pur avendo acquistato in ognuno dei Paesi nei quali si verificarono aspetti peculiari, essi ebbero un comune sottofondo, e cioè da un lato la lotta del proletariato per affermare i propri diritti (Francia, Inghilterra), dall'altro la lotta della borghesia per la conquista del potere politico (Austria, Prussia, Stati italiani) cui si mescolò, in quei Paesi che non avevano raggiunto l'unificazione su base nazionale, la lotta per raggiungere tale unificazione (Germania) o per liberarsi da una dominazione straniera (Lombardo-Veneto, Ungheria, Polonia, Ducati danesi). La spinta rivoluzionaria trasse alimento, dopo il fallimento delle varie congiure carbonare avvenute tra il 1815 e il 1831, da tre movimenti sovrannazionali: la corrente liberal-cattolica che cercava di conciliare cattolicesimo e liberalismo e che, partita dalla Francia con Lamennais e Montalambert, si diffuse soprattutto in Italia con Gioberti, Balbo, Tommaseo, Ricasoli, Mamiani, Lambruschini, Pellegrino Rossi, Rosmini, Padre Ventura; la corrente democratica, che si riallacciava all'illuminismo francese ed era pertanto anticattolica e repubblicana (Mazzini, Michelet, Lamartine, Mickiewicz, Kossuth); infine la corrente democratico-socialista che ai problemi della nazionalità o delle istituzioni politiche, cari ai primi due movimenti, anteponeva la soluzione del problema sociale (Blanc, Blanqui, Proudhon, Marx, Engels). Quest'ultima corrente si riallacciava a sua volta, almeno in parte, ad alcuni filoni della Rivoluzione francese o a scrittori utopistici del periodo immediatamente successivo (Owen, Saint-Simon, Fourier). Spinta all'azione fu da un lato l'avvento al soglio pontificio di Pio IX (1846) i cui primi provvedimenti (amnistia, guardia civica, Consulta) incoraggiarono i liberal-cattolici a chiedere di più e, in Italia, ad assumere un violento atteggiamento antiaustriaco in occasione dell'occupazione austriaca di Ferrara e modenese di Fivizzano (1847) benché in entrambe gli Austriaci fossero dalla parte del diritto. Dall'altro lato fu la crisi agricola del 1845-47 che in Irlanda provocò morti tra la popolazione dell'isola e una forte corrente emigratoria verso l'America, e sul continente spinse all'azione più i cittadini che non i contadini per la maggior preparazione politica che quelli avevano rispetto a questi. I primi incidenti in Italia ebbero luogo a Milano l'8 settembre 1947 al grido di “Viva Pio IX” e furono seguiti da altri, quali lo sciopero del lotto e del fumo, ancora a Milano, il 1º gennaio 1848, preparati da società segrete. A essi si unirono movimenti separatisti in urto con le tendenze accentratrici del tempo (insurrezione di Messina del 1º settembre 1847 e rivolta di Palermo del 12 gennaio 1848, presto diffusasi in modo irresistibile in tutta la Sicilia). Quest'ultimo movimento, pur essendo parzialmente fuori dal filone ideologico del momento, cagionò una serie di reazioni a catena per tutta l'Italia sì che ai primi di marzo del 1848 i quattro maggiori Stati italiani (Due Sicilie, Sardegna, Toscana, Stato Pontificio) avevano ottenuto una Costituzione liberale modellata, più o meno, su quella belga del 1830. Su questo movimento della corrente liberal-cattolica si innestarono improvvisamente, prendendo lo spunto dalla necessità d'una riforma elettorale in Francia, quelli democratico e socialista, i quali, provocando la caduta della monarchia borghese di Luigi Filippo (23 febbraio 1848), portarono alla proclamazione di una repubblica che all'inizio ebbe, sotto la spinta dell'ondata rivoluzionaria, un carattere sociale abbastanza spiccato. L'ondata rivoluzionaria proveniente da Parigi ben presto investì Berlino (5 marzo) e Vienna (13 marzo) provocando in Prussia l'acquiescenza del re alle richieste degli insorti e in Austria la caduta di Metternich, considerato l'emblema della restaurazione e della conservazione. Da Vienna l'insurrezione si diffuse immediatamente in Italia e nel resto dei territori asburgici dove accanto ai problemi sociali e costituzionali affiorarono, sino ad assurgere per importanza al primo posto, quelli della nazionalità. In Italia gli elementi cattolico-liberali, da pochi giorni al potere, dovettero mettersi alla testa del movimento antiaustriaco per non venir scavalcati dalla corrente democratica: e fu la I guerra d'indipendenza. A nord, dove sotto la spinta liberale il re di Danimarca dovette concedere egli pure una Carta costituzionale creando, sul modello francese, un'amministrazione accentratrice, per gli stessi motivi di nazionalità si ebbe l'insurrezione dello Holstein, di stirpe tedesca, che si rifiutò di entrare nello Stato danese, il che provocò l'entrata in una guerra non dichiarata della Prussia che cercava, attraverso questa azione nazionalistica, di evitare le conseguenze della rivoluzione liberale (aprile). Inoltre in tutta la Germania borghese prese slancio un sentimento già da tempo diffuso: che la Confederazione germanica creata dal Congresso di Vienna, la quale non aveva alcuna influenza negli affari europei, si tramutasse in uno Stato federale e che la Dieta venisse sostituita da un Parlamento avente la funzione di creare tale Stato (maggio). Nell'Impero austriaco la promessa di una Costituzione fatta nel marzo provocò, oltre che le insurrezioni italiane, le richieste del riconoscimento della loro individualità nazionale da parte degli Ungheresi, dei Boemi, degli Slavi del Sud, dei Polacchi. I primi ottennero (2 luglio) la creazione d'un governo centralizzato avente con l'Austria un tenue legame per gli affari comuni; gli Slavi del Sud insorsero contro questo loro assorbimento nello Stato magiaro che, appena libero, opprimeva le altre nazionalità peggio di quanto non avesse fatto sinora l'Austria e si annetteva, inimicandoseli, i Romeni di Transilvania; le rivolte di Boemia e dei Polacchi vennero duramente represse dal governo di Vienna. La salvezza dell'Austria venne infatti dalla fedeltà delle forze armate costituite in gran parte dagli elementi di nazionalità tedesca e slava del sud. I generali Windischgraetz, Radetzky e Jellačič salvarono la monarchia che pure due volte aveva dovuto abbandonare Vienna di fronte all'insurrezione degli elementi democratici tedeschi e polacchi e riparare una volta a Innsbruck (maggio), la seconda a Kremsier (ottobre). Si intrecciarono in tal modo, e confusamente, guerre internazionali e guerre civili per cui nel linguaggio corrente italiano “quarantotto” divenne sinonimo di “gran confusione”. Appena battuto il Piemonte (agosto 1848) gli elementi conservatori austriaci tentarono di rimangiarsi le concessioni fatte all'Ungheria provocando una violenta insurrezione che portò al potere Kossuth e i democratici i quali proclamarono la repubblica e il totale distacco dall'Impero austriaco e inflissero tali sconfitte alle truppe imperiali da rendere necessario l'intervento delle truppe russe, fedeli custodi della reazione europea, le quali schiacciarono l'indomito avversario. La reazione trionfava ovunque: il Piemonte veniva battuto una seconda volta nel marzo 1849 (Novara); la Danimarca salvava i Ducati grazie all'azione della sua flotta che rendeva meno gravi le sconfitte subite per terra e grazie alla mediazione dell'Austria, gelosa della Prussia, e della Francia, che dal giugno 1848 col ritorno totale al potere della borghesia s'era riavvicinata all'Austria e aveva confermato tale sua tendenza eleggendo (dicembre) alla presidenza della Repubblica il principe Luigi Napoleone Bonaparte. Tale riavvicinamento culminò con lo schiacciamento della Repubblica Romana di Mazzini del 1849, effettuato da entrambe col pretesto che tale repubblica fosse rossa mentre era vero il contrario. Tali vittorie dei conservatori furono dovute, assai più che alla loro intrinseca forza, alle discordie che divisero i rivoluzionari: i democratici, inesperti e parolai, con le loro vuote minacce finirono col riavvicinare liberali e conservatori, a partire dalla giornata del 15 maggio 1848 a Napoli per arrivare alla rivolta di Parigi del giugno 1849. In Germania poi le rivalità tra protestanti e cattolici, tra Hohenzollern e Asburgo, tra monarchici e repubblicani, tra Grandi Tedeschi e Piccoli Tedeschi, tra il desiderio di annettere i territori tedeschi posseduti da altri Stati (Holstein, Alsazia) e di non perdere quelli non tedeschi (Posnania, Trentino, Trieste) posseduti da Stati tedeschi fecero diminuire l'autorità del Parlamento di Francoforte che tra l'altro vide perire a opera della folla due suoi rappresentanti il 18 settembre 1848 (Lichnowsky e Auerswald) e, più tardi, il 9 novembre dello stesso anno, non poté impedire che un suo inviato a Vienna, il deputato Blum, fosse fatto fucilare senza processo da Windischgraetz. Il risultato fu che l'Austria paralizzò l'attività del Parlamento e che il re di Prussia rifiutò quella corona imperiale cui ambiva perché la voleva offerta dai principi e non da borghesi (aprile 1849). Così l'unità tedesca fu sabotata e impedita. La classe operaia, infine, ancora disorganizzata persino in Inghilterra, dove la grande riunione cartista del 10 aprile 1848 anziché con uno scoppio rivoluzionario terminò senza incidenti, sul continente non riuscì a esprimere la propria personalità in modo efficiente: il timore del radicalismo permise di neutralizzare i desideri di rinnovamento. I problemi rimasero aperti; però l'immediato avvenire fu di quelle forze che riuscirono in alcuni Stati a tenere in vita le riforme costituzionali (Francia, Sardegna, Prussia, Svizzera) mentre coloro che credettero, sopprimendo le Costituzioni, di poter ritornare al passato (Austria, Toscana, Due Sicilie, Papato) andando contro il corso della storia finirono col soccombere come soccombettero le tendenze autonomistiche di Milano, Venezia, Genova e della Sicilia che erano esse pure contro la spinta accentratrice del secolo.

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