Tra XX e XXI secolo

USA, dall'egemonia al predominio

 Rimasti l'unica superpotenza dopo il crollo dell'URSS, gli Stati Uniti si sono trovati ad affrontare l'impegnativo compito di ri­definire il proprio ruolo in un contesto internazionale forte­mente instabile e in rapido cambiamento. Se si esclude un bre­ve periodo sul finire della presidenza del repubblicano George Bush, la sfida interessò l'intera amministrazione del democra tico Bill Clinton, che, nel corso del suo duplice mandato (1992-2000), venne elaborando una strategia egemo­nica a più livelli. Infatti, mentre da un lato questa si tradusse nell'asserzione della supremazia degli Stati Uniti in campo militare, attestata da un forte interventismo in politica estera (ex-Iugoslavia, Somalia, Haiti), da un altro lato tale posizione egemonica fu temperata dalla ricerca sistematica di una concer­tazione con le altre potenze e organizzazioni internazioni relativamente ai problemi di portata generale in campo sociosanitario, ambientale o economico. Soprattutto in quest'ultimo ambito, l'amministrazione Clinton conseguì risultati importan­ti sia a livello regionale, rinsaldando i vincoli con Canada e Messico mediante il NAFTA (Accordo di libero scambio dell'Ameri­ca del Nord, 1994) sia a livello internazionale, incentivando, gra­zie a una lunga fase d'espansione economica del Paese, il rapi­do diffondersi su scala planetaria dell'economia di mercato, fe­nomeno divenuto noto col nome di globalizzazione. Non man­carono, tuttavia, aspetti contraddittori nella politica clintoniana, come per esempio l'adesione, nel 1997, ai principi ispirato­ri del protocollo di Kyoto circa la riduzione di emissione di gas serra nell'atmosfera, e il rifiuto, invece, l'anno seguente, di sottoscrivere lo statuto di Roma istitutivo di una Corte penale in­ternazionale incaricata di perseguire i crimini di guerra e con­tro l'umanità.

I prodromi di una crisi del modello di egemonia americana ma­turato negli anni '90 si manifestarono dapprima marginalmen­te, con la sua contestazione nel 1999 da parte del nascente movimento no global in occasione del vertice di Seattle dell'Or­ganizzazione mondiale del commercio (WTO), poi in modo dirompente con il crollo della borsa di Wall Street del 10 marzo 2000, preludio della recessione economica d'inizio secolo. Nel gennaio 2001, dopo una battaglia elettorale vinta di misu­ra, si insedia alla presidenza il repubblicano George Walker Bush, figlio del predecessore di Clinton. Questi fin dai primi mesi di mandato intraprende una radicale revisione della poli­tica clintoniana in senso unilateralista, ridimensionando gli im­pegni derivanti dal protocollo di Kyoto, quindi congelando l'at­tuazione degli accordi internazionali di messa al bando delle ar­mi chimiche e batteriologiche, infine riprendendo e rilancian­do il progetto reaganiano di guerre stellari. In questo contesto irrompe l'attentato terroristico dell'11 settembre, che, portando per la pri­ma volta la guerra nel cuore della metropoli americana, sospinge l'amministrazione Bush su posizioni oltranziste. In ot­tobre gli Stati Uniti, fiancheggiati da numerosi Paesi, attaccano i santuari del terrorismo islamico in Afghanistan (operazione Enduring Freedom), abbattendo il mese successivo il regime integralista dei Talebani. Nel gennaio 2002, mentre a Washington scoppia lo scandalo Enron, il colosso energetico nella cui bancarotta sono coinvolti elementi vicini allo staff presidenzia­le, Bush indica nei "Paesi canaglia", facenti parte del cosiddet­to "asse del male" - Iraq, Iran e Corea del Nord -, i possibili obiettivi prossimi venturi dell'offensiva antiterroristica americana. Alle parole seguono i fatti e nel marzo 2003, aggirando il preannunciato veto da parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU, gli Stati Uniti insieme con la Gran Bretagna e altri Stati aprono le ostilità contro l'Iraq (operazione Iraq Freedom).