Definizione

sm. [sec. XX; da razza, sul modello del francese racisme]. Ogni concezione teorica, orientamento psicologico o atteggiamento pratico che, postulando la superiorità di una determinata razza su altre, attribuisca alla prima il diritto di ridurre le seconde in uno stato di soggezione e di discriminazione, se non addirittura di provocarne il genocidio.

Storia: dall'antica Grecia al XVI secolo

La prima teorizzazione sistematica del razzismo può considerarsi quella formulata dall'Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-55) del diplomatico francese A. J. de Gobineau, che imputa la decadenza delle civiltà alla “degenerazione” derivata dalla mescolanza tra popolazioni bianche e gruppi etnici di colore. Ma pregiudizi analoghi, pur senza tradursi in vere e proprie ideologie o sedicenti verità scientifiche, sono riscontrabili anche in epoche di gran lunga precedenti. Sostanzialmente immune ne risulta il mondo antico, a parte alcune eccezioni prive di rilevanza pratica e politica in sede letteraria. Il disprezzo dei Greci nei riguardi dei barbari non era caratterizzato da connotazioni razziali. L'Impero romano lasciò spazi piuttosto ampi di autonomia alle popolazioni delle terre conquistate, non esclusa, inizialmente, quella ebraica, che fu oggetto di repressione all'inizio dell'era cristiana a causa della sua resistenza intransigente contro l'invasore e non già sulla base di valutazioni di carattere razzista. Neppure l'affermarsi dell'egemonia del cristianesimo, il cui messaggio universalista era agli antipodi di ogni forma di razzismo, e che del resto fu considerato a lungo come una fra le numerose sette ebraiche, coincise con l'avvento di pratiche discriminatorie all'insegna della razza. L'assurgere dello stesso cristianesimo, dopo la conversione di Costantino, a religione ufficiale dell'impero, non modificò la situazione nella quale il giudaismo da tempo si trovava, quale minoranza religiosa non solo tollerata ma dotata di notevole prestigio. Circa un secolo dopo l'inizio dell'età costantiniana prese avvio un processo di discriminazione nei riguardi degli Ebrei, soggetti a misure giuridiche restrittive dal Codice di Teodoro II nel 438 e da quello di Giustiniano nel 553. Nel corso dell'alto Medioevo essi beneficiarono di un'ampia tolleranza, a cui si sostituì più tardi – soprattutto a partire dalla II Crociata – una politica repressiva destinata a culminare con l'espulsione delle comunità ebraiche dall'Inghilterra, dalla Francia e dalla Spagna. Né durante l'età medievale né successivamente le forme di antisemitismo da parte cattolica furono peraltro espressione di razzismo in senso stretto, in quanto da questa parte venne costantemente propugnata la tesi secondo cui chiunque avesse accettato di venire battezzato, quale che ne fosse l'origine razziale, avrebbe dovuto essere considerato un cristiano al pari di qualsiasi altro. I protestanti si mostrarono più tolleranti dei cattolici nei riguardi delle minoranze ebraiche soltanto durante gli esordi dell'età della Riforma, ma ben presto, una volta preso atto della difficoltà di convertire tali minoranze alle proprie dottrine, fecero proprio un antiebraismo non meno radicale. La segregazione in ghetti dei membri del gruppo etnico in questione, sperimentata per la prima volta a Francoforte nel 1349, venne istituzionalizzata nei Paesi dell'Europa occidentale durante il sec. XVI.

Storia: dal 1500 alla seconda guerra mondiale

Nel corso del sec. XVI l'inizio del colonialismo europeo in Africa e nell'Estremo Oriente aprì la strada a manifestazioni di razzismo da parte delle popolazioni colonizzatrici nei riguardi di quelle indigene di colore. Tale atteggiamento non fu peraltro assunto con la medesima intensità da parte di tutte le potenze coloniali. Il Portogallo, che, al pari della Francia, perseguì nelle proprie colonie africane una politica di assimilazione, tendente a rendere i nativi cittadini della madrepatria, si astenne nel Brasile da ogni discriminazione nei riguardi dei neri e degli Indios, pur perpetuando l'istituto della schiavitù fino al 1888. La Gran Bretagna, che si astenne da analoghi tentativi di assimilazione, riconobbe ai nativi delle proprie colonie dell'Africa e dell'India il diritto di godere di proprie istituzioni autonome, attribuendo peraltro a un tempo una posizione di supremazia ai suoi cittadini; e nei territori conquistati in America sancì la superiorità sociale dei coloni nei riguardi dei neri e degli indiani, vietando i matrimoni misti. Dopo la nascita degli Stati Uniti d'America, la popolazione di colore, che era stata deportata dall'Africa nel nuovo continente, fu soggetta negli Stati meridionali a processi di discriminazione e di segregazione, senza che l'abolizione della schiavitù nel 1865 ponesse le basi di un'effettiva inversione di tendenza. Nello stesso 1865 iniziò la propria attività, tuttora in corso, il Ku Klux Klan, un'associazione mirante a perpetuare, attraverso la violenza e il terrorismo, le posizioni di dominio dei bianchi sui neri. Al di là di tali forme di estremismo, la legislazione degli Stati meridionali degli USA sanzionò una serie di norme anticostituzionali ai danni dei cittadini di colore, imperniate fra l'altro sull'esclusione di questi ultimi dalle elezioni primarie e sul divieto di matrimoni misti. Le stesse città settentrionali degli Stati Uniti, dove nel corso della I guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi affluì un'immigrazione considerevole di neri del Sud, confinarono in una sorta di ghetti tali gruppi etnici e li sottoposero a prassi socialmente discriminatorie. La forma di razzismo incomparabilmente più acuta che si sia mai manifestata nel corso della storia fu quella che caratterizzò in Germania la persecuzione antiebraica da parte del regime nazista. Fin dai suoi inizi l'ideologia nazista proclamò l'inferiorità della razza giudaica rispetto a quella ariana. Gradualmente tale dottrina, che in un primo tempo aveva dato origine a pratiche discriminatorie nei riguardi degli Ebrei e ne aveva promosso, con ogni sorta di pressioni, l'emigrazione al di fuori dei confini del Reich, giunse fino ad affermare la necessità della “soluzione finale”, quella del genocidio: una decisione posta in atto durante la II guerra mondiale, verso l'inizio del 1942, con il conseguente sterminio di sei milioni di israeliti (due quinti della loro consistenza complessiva in tutto il mondo). Alla deportazione delle minoranze ebraiche verso i campi della morte contribuirono attivamente i governi alleati dei nazisti, fra cui, in particolare, quello collaborazionista della Francia di Vichy. In Italia, con la cosiddetta “Carta della razza” (1938) e con deliberazioni successive, il governo fascista prese posizione sulla questione ebraica introducendo una serie di misure di persecuzione nei confronti degli israeliti quali limitazioni in materia di cittadinanza italiana, divieto di matrimoni misti, esclusione da impieghi militari e pubblici, riduzioni patrimoniali, ecc. È tristemente noto inoltre il campo di sterminio della risiera di San Sabba presso Trieste.

Storia: il dopoguerra

La vastità e la ferocia della persecuzione antiebraica favorivano, nel secondo dopoguerra, la diffusione di una certa coscienza antirazzista. Ciò non impediva, tuttavia, che si facessero strada sistemi di governo basati proprio sulla discriminazione razziale: l' in Sudafrica sancita alla fine degli anni Quaranta e che solo nei primi anni Novanta si è avviata a una reale conclusione. Negli Stati Uniti, la battaglia per la piena parificazione razziale trovava forti resistenze e, pur vincente sul piano legislativo, non riusciva a eliminare completamente il problema, come dimostrano le esplosioni di violenza, al limite della rivolta, che si sono determinate periodicamente nei ghetti neri di varie città statunitensi: emblematica quella di Los Angeles (aprile 1992) verificatasi in seguito all'assoluzione dei poliziotti accusati di aver pestato a sangue un automobilista di colore. Va detto, comunque, che negli Stati Uniti il sentimento razzistico è oggi sostenuto più da considerazioni di ordine economico e sociale che da motivazioni ideologiche pur non del tutto assenti. Rigurgiti di razzismo antisemitico nel mondo sono stati anche alimentati dalla mancata soluzione del problema palestinese e dalla politica vessatoria dei governi di destra israeliani nei confronti delle popolazioni dei territori occupati. Nuovi preoccupanti fenomeni di intolleranza razziale si verificavano in Europa alla fine degli anni Ottanta in seguito al crollo dei regimi comunisti. Da una parte il riemergere di un nazionalismo esasperato determinava sanguinosi scontri interetnici all'interno delle Repubbliche sovietiche e, soprattutto, tra le popolazioni dell'ex Iugoslavia. Qui il coacervo di contraddizioni, a lungo sopite all'interno della federazione, esplodevano determinando una guerra di vaste proporzioni i cui aspetti più feroci erano proprio rappresentati dal contrasto etnico tra Croati, Serbi e Musulmani. Nella Germania riunificata, invece, si assisteva a gravi episodi di razzismo con il diffondersi di gruppi oltranzisti che si riappropiavano della tragica ideologia nazista. I naziskin, bande di giovani spesso minorenni (diffuse sia pur in misura ridotta in altri Paesi europei e in Italia), devastavano cimiteri ebraici e si scatenavano nella caccia agli immigrati. Proprio alla fine del secondo millennio, dunque, e nonostante da più parti si prefiguri la costruzione di una società multirazziale, si debbono registrare nuovi inquietanti segnali di ripresa del fenomeno razzista. L'assenza di una coerente politica degli Stati “ricchi” verso le vaste aree di sottosviluppo presenti nel mondo rende la situazione ancora più allarmante perché avrebbe come conseguenza l'inevitabile spostamento di masse di disperati in cerca di soccorso con il rischio di fornire nuovo alimento ai tragici comportamenti xenofobi che hanno avuto significativa crescita in tutta l’UE a seguito della crisi economica del 2008. Secondo la relazione finale della Commissione parlamentare "Jo Cox" del 2017 l’Italia risulta il Paese con il più alto tasso del mondo di ignoranza sull’immigrazion, il secondo Paese europeo più islamofobo. I rom/sinti, sebbene spesso di nazionalità italiana da molte generazioni, sono percepiti come i più stranieri/estranei di tutti (e ciò può essere legato allo status economico ed il loro vivere entro limiti di agiatezza più marcati). Il 65% degli italiani (contro il 21% dei tedeschi) pensa che i rifugiati siano un peso perché godono dei benefits sociali e del lavoro degli abitanti, mentre il 59% in Germania pensa che rendano il Paese più forte con il lavoro e i loro talenti (solo il 31% in Italia). Si segnala nel 2013 la nascita negli USA di Black Lives Matter movimento attivista internazionale, originato all'interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo, perpetuato a livello socio-politico, verso le persone nere. Black Lives Matter organizza regolarmente delle manifestazioni di protesta contro violenze e omicidi della polizia a danno degli afroamericani. Il movimento è tornato alla ribalta nel 2020 per le proteste contro l’omicidio di George Floyd.

Sociologia

Il razzismo presuppone una giustificazione che si ritiene scientifica: l'esistenza di razze umane diverse e collocabili in un ordine gerarchico in cui appaia “naturale” la supremazia di una razza sulle altre. In realtà, gli sviluppi della ricerca genetica hanno privato questo argomento di ogni valore scientifico. I più consolidati stereotipi etnici – fondati sul colore dei capelli, degli occhi e della pelle e su alcuni più appariscenti dati somatici – risultano infatti quasi completamente insignificanti a fronte dei tratti genetici profondi, che indicano invece una grande omogeneità della condizione antropica. L'enfatizzazione delle differenze esterne è però funzionale alla creazione di stereotipi, e quindi alla classificazione dei soggetti in razze. In altre parole, la distinzione cruciale che legittima il razzismo è un prodotto sociale, difficile da sradicare perché scarsamente sensibile agli argomenti della confutazione scientifica. Si tratta anzi di un fenomeno antico, che conosce alla fine del sec. XX una preoccupante ripresa. Il nuovo razzismo esplode, per esempio, nelle aree geografiche dell'Europa occidentale interessate dalle migrazioni dall'Est e dal Sud del mondo, ma anche in combinazione con forme di rinascente nazionalismo dove la disgregazione dei precedenti assetti politici produce conflitto interetnico. Ovunque, insomma, il razzismo è il sismografo di un malessere sociale che si esprime in manifestazioni che ricalcano vecchie esperienze o le rielaborano in forme originali. Alcuni studiosi propongono di differenziare concettualmente – graduando i fenomeni in ordine di gravità crescente – l'etnocentrismo (rivendicazione gelosa della identità di una comunità, con tendenziale atteggiamento di chiusura nei confronti degli altri ed esasperazione delle specificità) dalla xenofobia (letteralmente “paura dello straniero”, con sottolineatura della minaccia che deriverebbe all'ordine interno della comunità dall'invadenza di presenze estranee e conseguente sviluppo di pregiudizi e di stereotipi negativi nei confronti degli estranei stessi) e dal razzismo vero e proprio. Quest'ultimo si configurerebbe come un atteggiamento assai più aggressivo e politicamente attivo, accompagnandosi a campagne di intimidazione e violenza, sino alla pratica dello sterminio e del genocidio, sperimentate in forma massiccia e sistematica dal Terzo Reich nazista. Il razzismo accomuna oggi, paradossalmente, aree arretrate economicamente e aree forti dello sviluppo, presentandosi come un fenomeno sociale totale. Tale, cioè, da investire l'insieme di una società e del suo sistema di rappresentazioni simboliche. Il razzismo si inscrive in pratiche di discriminazione, segregazione, sfruttamento e rinvia a una sorta di ideologia, basata sul rifiuto della promiscuità e di quel meticciato culturale che appare distruttivo dell'identità e del patrimonio etico di una comunità. Questa aprioristica negazione della società multiculturale e multietnica ignora, in realtà, il grande potenziale creativo venuto sempre allo sviluppo delle maggiori civiltà da un'intensa comunicazione fra culture e popoli diversi e dal loro incontro. Si tratta, cioè, di un atteggiamente fobico di massa, che non casualmente trova alimento in una fase di crisi dei tradizionali Stati-nazione e del processo di mondializzazione dell'economia di mercato. Il nuovo razzismo, del resto, non sempre e non necessariamente si affida all'affermazione della superiorità di una razza sulle altre per cause biologiche – come era invece nella dottrina ottocentesca, elaborata da A. J. de Gobineau, relativa all'ineguaglianza delle razze umane – ma, spesso, su un'esasperazione del principio di differenza. Teoria in cui trova accoglienza un ricco filone di pregiudizio e di separatismo etnico-culturale che ha dato vita, fra gli altri, al modello sociale dell'apartheid sudafricano (vedi anche segregazionismo). Il razzismo viene così a configurarsi negli ultimi decenni, almeno secondo alcuni approcci sociologici e politologici, come il prodotto della «crisi della modernità», della progressiva destrutturazione dei movimenti sociali e del parallelo rafforzamento dell’azione comunitaria.

Bibliografia

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