Lessico

agg. e sm. [sec. XIII; da Italia]. Proprio dell'Italia; relativo, appartenente all'Italia o agli Italiani: la storia, la cultura, la letteratura italiana; le regioni italiane; loc: all'italiana, secondo gli usi dell'Italia; abitante o nativo dell'Italia; la lingua parlata in Italia.

Linguistica: generalità

L'italiano ha un sistema vocalico di sette fonemi in sillaba tonica (a, é, è, i, ó, ò, u) e di 5 in sillaba atona (a, é, i, ó, u), in quanto le opposizioni é/è, ó/ò esistono soltanto quando la sillaba è accentata (légge sostantivo, lègge verbo; vólto sostantivo, vòlto participio). Caratteristiche dell'italiano sono la mancanza di vocali turbate (ö, ü ricorrono solo in una parte dei dialetti settentrionali) ed evanescenti (presenti in gran parte dei dialetti meridionali); l'assenza della metafonesi (che si trova invece nei dialetti settentrionali e centro-meridionali, e, se pure in condizioni diverse, in altre lingue neolatine); la conservazione delle vocali finali e la scomparsa delle consonanti finali del latino (questo fatto conferisce all'italiano la caratteristica, quasi unica nelle lingue europee, che tutte le parole terminano in vocale, tranne quelle apocopate e quelle in funzione proclitica); la presenza di consonanti lunghe e geminate in opposizione fonematica a consonanti semplici (cane, canne; caro, carro); l'opposizione ai nessi consonantici che non contengono una liquida, una nasale o una sibilante; la libertà di posizione dell'accento; la ricchezza delle derivazioni suffissali; la notevole libertà della sintassi del periodo. § Per quanto riguarda l'apporto di altre lingue al lessico italiano (per gli elementi lessicali germanici e i loro diversi strati, gotico, longobardo, franco, vedi germanico), l'influsso francese, già abbastanza sensibile insieme con quello provenzale, fin dai primi secoli della storia linguistica italiana, si fece particolarmente intenso nel periodo dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese e continuò a far sentire i suoi effetti per tutto il sec. XIX e il XX: numerose sono le parole italiane di origine francese (aggiornare, arrangiare, azzardare, bordo, civilizzare, complottare, ecc). La dominazione spagnola in Italia nei sec. XVI e XVII ha lasciato traccia in un certo numero di ispanismi ormai ben assimilati dal nostro lessico: brio, casco, casta, complimento, creanza, ecc. e parecchie parole in -iglia come guerriglia, maniglia, mantiglia, pastiglia, vaniglia. Attraverso lo spagnolo sono penetrati in italiano (come nelle altre lingue europee) i nomi di prodotti di origine americana: cacao, cioccolata, patata. Molto più scarso è stato invece l'influsso del portoghese sulla lingua italiana: di origine portoghese è per esempio la parola italiana marmellata. A partire dal sec. XVIII l'inglese, e in seguito anche l'americano, hanno sempre maggiormente influenzato l'italiano: a volte gli anglismi sono stati adattati alla nostra lingua (bistecca, dribblare, tramvia), ma più spesso sono rimasti nella loro forma originaria (baby, bluff, budget, club, escalation, film, jeep, jet, match, partner, plaid, sport, staff, stock, stop, tunnel). § Fuori dai confini politici nazionali l'italiano è parlato nello Stato della Città del Vaticano, nella Repubblica di San Marino, nel Canton Ticino e in quattro valli del cantone dei Grigioni (Calanca, Mesolcina, Bregaglia, Poschiavo), a Malta come lingua di cultura, in Istria e nelle principali città del litorale dalmata, in parte ancora nelle ex colonie africane, e nei maggiori raggruppamenti di emigrati italiani all'estero (soprattutto nell'America Latina), e dialetti italiani di tipo toscano si parlano in Corsica (dove però la lingua ufficiale è il francese).

Linguistica: le origini

La data di nascita della lingua italiana si dovrebbe far coincidere con la fine del sec. VIII o l'inizio del seguente, se il controverso indovinello scritto a Verona fosse da tutti gli studiosi accettato come primo documento di questa nuova lingua. Ma si è più propensi a considerare primo vero documento della lingua italiana i cosiddetti Placiti cassinesi, formule contenute in quattro documenti scritti nel territorio del Principato di Capua-Benevento fra il 960 e il 963, e riguardanti i beni del monastero di Montecassino: “Sao ke kelle terre, per kelli fini que li contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”. Le formule corrispondono ad altre che venivano pronunciate in latino (si tratta infatti più propriamente di testimonianze rese davanti al giudice), ma la necessità di un linguaggio accessibile a tutti coloro che ascoltavano queste formule testimoniali indusse i giudici a far pronunziare le frasi in volgare. Anche se poi non si hanno più documenti in volgare per un lungo lasso di tempo, la lingua andava compiendo la sua evoluzione e si diffondeva non più solamente nelle aule dei tribunali (il cosiddetto filone notarile), ma anche nella comunità ecclesiale (filone religioso), nelle piazze (filone giullaresco), nella pratica commerciale dei liberi Comuni e nella partecipazione sempre più attiva di gran parte del patriziato cittadino, particolarmente desideroso di istruzione. Questa istruzione veniva impartita da letterati che avevano alle spalle le tradizioni artistiche maturate nelle grandi letterature d'oltralpe e vagheggiavano già quelle forme d'arte pura, i cui principali artefici, cultori e imitatori della poesia occitanica, sono i veri iniziatori della tradizione letteraria e linguistica italiana. Sono, in particolare, i poeti della Scuola siciliana che, raccolti attorno alla corte di Federico II di Svevia, instaurano una lingua un po' onnicomprensiva delle varianti dialettali delle regioni da cui provenivano, e il risultato fu quello di una lingua “illustre”, cioè nobilitata dal continuo raffronto delle due lingue allora assai importanti, il latino e il provenzale, arricchita anche dall'innesto della rigogliosa cultura cancelleresca. Il problema del volgare come lingua letteraria fu affrontato da Guittone d'Arezzo (1235-1294) e risolto con la teorizzazione di uno stile che avvicinava la poesia alla prosa, con un vocabolario ricco di barocchismi anticipati, giochi di parole, ecc. A lui fu attribuito il soprannome di “capostipite degli scrittori in volgare”, anche perché il rinnovamento dello stile s'accompagnò a un rinnovamento di temi con la canzone “Ahi lasso, or è stagion da doler tanto”, che segnò il primo esempio di canzone politica, che ebbe larga fortuna in seguito. Questo rinnovamento di gusti fece sì che si giungesse in breve a una nuova vita di interessi culturali che con Guido Guinizelli e il suo “manifesto” del “dolce stil novo” iniziò una nuova tradizione di lingua poetica. Questa teneva conto sia della tradizione trobadorica, sia della filosofia scolastica, sia del misticismo religioso che, con il Cantico delle creature e la letteratura religiosa umbra (francescana soprattutto), crearono una lingua che, con la forte inclinazione per la metafora, la consacrazione dell'uso popolare del discorso diretto, l'aggettivazione particolare, rispondeva maggiormente alle esigenze espressive del tempo. È da sottolineare l'apporto determinante dell'uso della prosa filosofica, che induce a portare nello stile la stringatezza dell'andamento sillogistico. Spetta a Dante però il merito di aver fatto assurgere l'italiano a livello di una grande lingua capace di alta poesia e speculazioni filosofiche: le opinioni di Dante sul volgare si possono trovare in brevi cenni nella Vita nuova, più ampiamente espresse nel De vulgari eloquentia e nel Convivio; non mancano accenni, quasi incidentali, anche nella Divina Commedia. Nel Convivio parla del volgare italiano in generale, nel De vulgari eloquentia tratta degli idiomi d'Europa e particolarmente d'Italia. Fu solamente Petrarca, poco dopo, che, sottolineando la differenza tra il periodare di un classico e di un autore medievale, sia dal punto di vista lessicale sia formale, diede un'impostazione nuova all'uso del volgare, e preparò allo stesso tempo il metro di giudizio degli umanisti nel valutare uno scritto in latino.

Linguistica: l'affermazione del volgare

Con il Decameron di Boccaccio, il volgare si affermò definitivamente nella tradizione linguistica e la sua importanza aumentò rispetto al latino, nel Trecento, sia negli usi pratici sia in quelli letterari. Durante il Quattrocento, il volgare visse vicende alterne, depresso e sminuito nell'opinione generale rispetto al latino esaltato dal trionfante Umanesimo, ma sempre più importante e vigoroso per tutti gli usi pratici: anche qui, come accadde per il suo sorgere ed è accaduto per il suo definitivo espandersi, ebbero un'importanza determinante le condizioni storiche d'Italia che aveva allora in Firenze il fulcro della vita politica, commerciale e quindi letteraria: i nuovi principi avevano bisogno del favore del popolo, e, non solo per farsi capire, favorivano un più ampio uso del volgare. L'Umanesimo, dopo aver depresso il volgare esaltando l'uso del latino, finì per riabilitarlo per via indiretta non potendo certo soddisfare con il suo “astoricismo”, come lo chiama Devoto, le esigenze pratiche della lingua. Negli ultimi decenni del Quattrocento, infatti, il volgare acquistò una forma nuova, favorita dalla conoscenza dei classici e si può addirittura parlare di un umanesimo volgare che ha avuto in L. Alberti il suo teorizzatore e in Lorenzo de' Medici, Poliziano, Boiardo e Sannazaro i suoi diffusori. Quando poi si iniziò a discutere quale doveva essere il canone della lingua, come avvenne agli inizi del Cinquecento, già si sottintendeva che si doveva usare una lingua unica come espressione di un'unica cultura nazionale, anche se i veri protagonisti di questa storia appartenevano alle classi più elevate e del parlare plebeo non si avesse notizia che solo attraverso le opere dei “dotti” (vedi per esempio Ruzzante). Sebbene non si potesse ancora parlare di insegnamento della lingua italiana, erano tuttavia istituite delle cattedre per “lettori di toscana favella”. A Siena nel 1589 e in altre università gli studenti stranieri prendevano lezioni di lingua. L'Accademia divenne il centro della diffusione del volgare, mentre l'Università e la Chiesa rimanevano le roccaforti dell'uso del latino. Tra le principali accademie si ricordano quella senese, quella fiorentina ma soprattutto l'Accademia della Crusca che assunse poi l'incombenza principale della compilazione di un grande vocabolario della lingua. La storia della lingua nel sec. XVI è rimasta comunque storia spiccatamente letteraria in cui il “bello stile” diventava predominante al punto tale che si può parlare di “manierismo” come accadde per gli storici d'arte.

Linguistica: la questione della lingua

Il problema più sentito e dibattuto fu quello riguardante la “questione della lingua” in cui le opinioni dei più famosi studiosi del tempo servirono da base per i futuri orientamenti linguistici: le Prose della volgar lingua di Bembo sono il testo ufficiale della questione e su tale trattato si impostarono, sia pure retoricamente, le basi per la ricerca di una lingua elegante attraverso l'imitazione dei trecentisti toscani. Accanto a Bembo si ricorda l'apporto dato da uomini come Castiglione e Trissino. Il nodo della questione era se si dovesse considerare il fiorentino (o il toscano) la lingua vera d'Italia, o se invece si potesse accettare una lingua che, ecletticamente, tenesse conto di tutte le varianti lessicali, morfologiche, sintattiche, negando qualsiasi primato al fiorentino (tesi di Muzio). Nel sec. XVII la questione della lingua seguì la sorte di tutte le altre manifestazioni culturali: al sereno equilibrio del Rinascimento seguì un'età di ristagno, in cui si visse delle rendite accumulate negli anni precedenti: nel campo scientifico però la tradizione fu totalmente rinnovata con una lingua pienamente matura a opera di Galilei. Fondendo insieme narrativo ed episodico, il “parlato” dei suoi dialoghi è stato disciplinato per formulare un precetto scientifico, anche se l'esempio di Galilei non ha avuto molto seguito (l'Accademia del Cimento durò infatti troppo poco), questa sua innovazione rimane l'unica vera conquista nel campo della linguistica del sec. XVII. L'aspetto letterario dell'esigenza linguistica era ormai soddisfatto, ma l'aspetto familiare, popolare era assai costretto e tentò di svilupparsi in forme nuove (per esempio con Basile). Anche nel sec. XVIII il divario tra lingua scritta e lingua parlata si mantenne, anzi si accentuò la differenza tra scritto in prosa o in versi, con peculiarità grammaticali, stilistiche e lessicali. Di dominio dell'Arcadia furono i primi decenni del secolo, reazione programmatica al barocco ma non ancora preparazione costruttiva dell'Illuminismo: accanto alla novità dei contenuti (sempre maggiore importanza acquistavano le opere storiche, politiche, economiche), c'è la novità della tradizione linguistica di L. A. Muratori che pose, come padre della storiografia filologica, il problema di una terminologia adeguata a ogni genere letterario e sottolineò, nel trattato Della perfetta poesia italiana, i pregi del modello cinquecentesco, italiano, non fiorentino. Chiuso da poco il dialogo con il latino, a mano a mano che ci si inoltrava nel secolo, si faceva sentire l'influenza francese, che introdusse nella storia linguistica italiana quel dinamismo evidenziato nella prosa degli economisti (Genovesi, Galiani) e degli scrittori scientifici (Algarotti, Redi, Megalotti). L'atteggiamento della scuola milanese (con P. Verri e Beccaria) fu di estrema apertura verso un rinnovamento del vocabolario della lingua, in netto contrasto con la Crusca che, con la IV edizione, riaffermava la piena continuità della toscanità arcaica, agendo da forza conservatrice nel rinnovamento della lingua; né valse, dal punto di vista strettamente linguistico, lo sforzo generoso di Parini che tentò di modellare una lingua equilibratrice delle varie tendenze (arcadiche, gallicizzanti, classiche). Un contributo notevole, anche se sostanzialmente diverso, è stato dato all'evoluzione della lingua da due autori della fine del secolo: Baretti, che vide nel rispetto della “costruzione” un richiamo all'osservazione dell'ordine naturale, in luogo dell'imitazione, e Alfieri, che riassunse tutti i filoni della storia linguistica e culturale del secolo. Certamente più importante, proprio all'inizio del sec. XIX, è stata l'opera di CesarottiSaggio sulla lingua italiana che, affrontando per primo il problema storico-linguistico, ha considerato le lingue come uno strumento suscettibile di perfezionamento destinato a fini determinanti. Monti prese parte a queste “questioni” di lingua, accettando la discriminazione tra lingua letteraria e lingua parlata e riconoscendo alla prima la necessità di uno schema preciso da seguire. Foscolo, impegnandosi in traduzioni rigorosamente fedeli all'originale, poteva definire correttamente sia il valore di una lingua sia i rapporti fondamentali di lingua e letteratura. La dottrina linguistica di Leopardi si fonda sul continuo evolversi non solo della lingua letteraria, ma anche, e soprattutto, della lingua parlata, e di tale vitalità linguistica fanno fede la sua distinzione tra parole “evocatrici” e parole “rappresentatrici” da lui sapientemente usate nelle sue opere, tanto da farlo apparire ormai alle soglie di quella piena maturità linguistica al cui vertice si trova A. Manzoni. La sua esperienza umana si contrappose a un problema di storia linguistica, e ai periodi lombardo, francese, toscano della sua vita corrisposero altrettanti momenti linguistici poi fusi assieme e padroneggiati compiutamente e con naturalezza. Nel sec. XIX la storia della lingua si è arricchita degli studi di Ascoli, notissimo anche fuori d'Italia, e di De Sanctis. Questi, passato da uno schema di legami formali, secondo il purismo del suo maestro Puoti, alla libertà dagli stessi propugnata dalla scuola romantica, ha introdotto una parentesi nella storia della lingua, e con la svalutazione dei problemi formali e la negazione di una tradizione linguistica separata dagli autori si può già considerare un precursore del Novecento. In questo secolo i problemi della lingua sono di una grandissima importanza perché sempre minore diventa il divario tra lingua parlata e lingua scritta, tra lingua del popolo e lingua del letterato; si pone addirittura il problema opposto, che sia la lingua del popolo il mezzo di divulgazione letteraria: basti pensare a tanta letteratura contemporanea, da Pasolini a Gadda. La corrente verista ha avuto una sopravvivenza nel filone del neorealismo, indizio di un orientamento storico-culturale. Ai nostri giorni, accanto a una lingua comune, si sono sviluppati diversi tipi di linguaggio, ognuno con caratteristiche che lo adattano all'uso specifico che di esso viene fatto in un particolare settore (per esempio nella pubblicità, nei giornali, alla radio, alla televisione, nel cinema, ecc.).

Bibliografia (per la linguistica)

T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Bari, 1963; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze, 1971; A. L. e G. Lepschy, La lingua italiana. Storia, varietà dell'uso, grammatica, Milano, 1981; I. Baldelli (a cura di), La lingua italiana nel mondo, Roma, 1987; P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 5 voll., Bologna, 1979-88.

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