Descrizione generale

sm. [sec. XVIII; dal francese pétrole, che risale al latino medievale petroleum, olio di pietra]. Complessa miscela di idrocarburi naturali solidi, liquidi e gassosi, contenente inoltre in quantità variabili, ma comunque generalmente piccole, composti ossigenati, solforati e azotati, che si presenta a temperatura ambiente come un liquido più o meno denso, oleoso, infiammabile, di colore variabile dal giallastro al nero. Il petrolio può manifestarsi spontaneamente in superficie (sorgenti di petrolio, vulcani di fango), ma essenzialmente viene estratto dal sottosuolo tramite pozzi ottenuti con trivellazioni che si sono spinte fin oltre gli 8000 m di profondità. Il prodotto estratto dai pozzi e non ancora raffinato è indicato come petrolio greggio o semplicemente greggio. Il greggio viene sottoposto a lavorazione nelle raffinerie per ottenere una vasta gamma di prodotti destinati a svariati impieghi. Dalla prima fondamentale separazione dei prodotti petroliferi, effettuata con la distillazione primaria (topping), si ottengono in genere cinque frazioni con punto di ebollizione (p. e.) e densità (d) man mano più elevati: benzina (p. e. inferiore a 150 ºC, d 0,70-0,75), acqua ragia minerale o benzina pesante (p. e. 145-200 ºC, d 0,77-0,78), cherosene (p. e. 175-280 ºC, d 0,79-0,81), detto anche semplicemente petrolio, da cui si ricavano oli per illuminazione (il petrolio illuminante, o petrolio per lampade, di un tempo) e per riscaldamento e combustibili per motori a turbina, a reazione e a razzo, gasolio (p. e. 280-350 ºC, d 0,82-0,84) e residuo di distillazione (distilla solo sotto vuoto; d superiore a 0,84), da cui si ottengono lubrificanti, olio combustibile e bitume .

Chimica: origine del petrolio

Sull'origine del petrolio, o naftogenesi, si è discusso per più di un secolo e ancora vari aspetti risultano oscuri. Secondo la teoria inorganica sostenuta nel secolo XIX da molti scienziati, tra cui M. P. E. Berthelot e D. I. Mendeleev, il petrolio si sarebbe formato per azione dell'acqua su carburi metallici di origine magmatica: in effetti alcuni carburi metallici, come quelli di alluminio, di uranio ecc., vengono decomposti dall'acqua liberando metano, etilene, acetilene, benzene ecc. La teoria dell'origine inorganica fu ben presto abbandonata non solo per l'esistenza di prove concrete a favore dell'origine organica del petrolio, ma soprattutto per l'incongruenza tra le modalità di formazione ipotizzate da tale teoria e le condizioni geologiche generali che si riscontrano per i giacimenti di petrolio. Questi infatti si trovano quasi sempre nell'ambito di rocce sedimentarie di origine marina anziché in rocce di origine magmatica. Le principali considerazioni a sostegno dell'ipotesi organica vertono sull'abbondanza di sostanze organiche contenute nelle rocce sedimentarie e sulla prevalenza tra i componenti di tali sostanze del carbonio e dell'idrogeno, sulla presenza di azoto, componente essenziale delle proteine di tutte le sostanze viventi, e di pigmenti, sia pure in minime quantità, del gruppo delle porfirine in cui rientrano tanto la clorofilla quanto le emine e i citocromi; inoltre molti petroli presentano una debole attività ottica, attribuita alla presenza di prodotti di trasformazione del colesterolo. Pur nell'ambito di una genesi organica, sono state formulate due distinte ipotesi sulla formazione del petrolio. Secondo l'una, dato che minime quantità di idrocarburi e di sostanze analoghe per composizione e struttura molecolare sono presenti nelle cellule di organismi marini viventi, il petrolio rappresenterebbe la frazione di tale contenuto sfuggita all'attacco delle popolazioni batteriche viventi sui fondi marini dopo la morte degli organismi e la caduta sul fondo dei loro resti. Anche ammettendo che tale frazione rappresenti meno dell'1% della quantità totale di idrocarburi presenti in tali organismi, il numero di questi è talmente elevato da giustificare pienamente le stime fatte sulle quantità complessive di petrolio presente nel sottosuolo. Secondo l'altra il petrolio deriverebbe dalla decomposizione in ambiente non ossidante di sostanze organiche, in particolare i grassi, depositatesi in ambiente per lo più marino, decomposizione operata da alcuni tipi di batteri capaci di sottrarre alle sostanze organiche ossigeno, zolfo e azoto sotto forma di acqua, solfuro di idrogeno e ammoniaca: la sostanza residua sarebbe per composizione simile al petrolio. Data l'enorme quantità di materia organica accumulatasi nei sedimenti nel corso dei tempi geologici, la trasformazione anche solo di una sua piccola frazione a opera di batteri giustificherebbe l'esistenza dei giacimenti petroliferi. Il materiale sedimentario ricco di sostanze organiche, tanto di formazione marina quanto convogliato nelle fasce costiere dai corsi d'acqua, in decomposizione in ambiente non ossidante è indicato come sapropel: la trasformazione del sapropel a opera di batteri anaerobi e di catalizzatori sia organici (enzimi) sia inorganici, come vanadio, molibdeno, nichel ecc., porterebbe prima alla formazione di una sostanza, detta protopetrolio, costituita per lo più da grassi, in quanto l'attacco batterico è molto più intenso su carboidrati e proteine, e successivamente, per ulteriore riduzione, ai petroli. I batteri anaerobi svolgono una parte essenziale nel processo di trasformazione delle materie organiche in quanto non solo favoriscono il mantenimento di un ambiente riducente e arricchiscono i sedimenti col materiale organico delle loro spoglie, ma anche producono direttamente idrocarburi, per esempio metano dalla riduzione del biossido di carbonio con idrogeno:

I processi che intervengono in queste trasformazioni sono prevalentemente endotermici e oltre che dall'azione batterica e catalitica sono influenzati da quella combinata del calore e della pressione e, secondo alcuni autori, anche dal bombardamento da parte di radiazioni emesse da elementi radioattivi; con esperienze di laboratorio si è ottenuta per esempio la formazione di idrocarburi paraffinici, bombardando con particelle α acidi grassi saturi, e di idrocarburi ciclici bombardando acidi naftenici. Circa il tempo necessario per la formazione del petrolio si ritiene che non occorrano tempi molto lunghi, intesi in senso geologico: al riguardo un milione di anni è già sufficiente; sono stati però rinvenuti idrocarburi liquidi in sedimenti estratti dai fondali del golfo del Messico, sedimenti cui è stata attribuita un'età non superiore a 15.000 anni. Circa la profondità, molti giacimenti si trovano a profondità limitate a qualche centinaio di metri; si è inoltre accertato che il contenuto in petrolio non aumenta con la profondità. È possibile quindi che una copertura sedimentaria dello spessore di un centinaio di metri sia già sufficiente per avviare i processi di trasformazione. Di conseguenza la temperatura degli ambienti di formazione non deve aver toccato punte elevate: si ammettono valori medi sui 100 ºC, con punte verso i 150 ºC per i bacini molto profondi; la presenza nei petroli delle porfirine, che si decompongono oltre i 170 ºC, depone al riguardo a favore. L'ambiente più propizio per l'accumulo del sapropel è quello di bacini marini a profondità non molto elevata e con circolazione delle acque ristretta, sia per l'abbondanza del materiale organico, sia per il rapido accumulo di sedimenti fini, sia per la scarsa quantità di ossigeno presente nelle acque a contatto coi sedimenti. Oltre a queste considerazioni, di fondamentale importanza per la naftogenesi è che il bacino sia subsidente: ciò consente l'accumulo di una grande quantità di sedimenti e di materia organica. Le rocce derivate dalla litificazione dei sedimenti depostisi in tali ambienti vengono denominate rocce madri del petrolio; per lo più si tratta di rocce pelitiche, come argille nere o marne. Dato però che il petrolio originatosi nel corso della diagenesi dei sedimenti migra verso altre rocce adiacenti favorevoli al suo accumulo, nelle rocce madri non ne rimangono tracce significative e ciò non consente per i singoli giacimenti petroliferi il sicuro riconoscimento delle loro rocce madri. Nelle rocce sedimentarie considerate comunemente come rocce madri degli idrocarburi si incontrano sostanze organiche prevalentemente insolubili in solventi organici. Questo materiale complesso, indicato come pirobitume o cherogene, ha caratteristiche intermedie tra quelle dei carboni e dei petroli. Non contiene petrolio come tale ma lo cede per distillazione e impregna depositi anche enormi di argille nerastre, dette anche argille bituminose o impropriamente piroscisti. La composizione chimica del pirobitume non è costante; vi figura carbonio in percentuale (50-70%) però nettamente inferiore rispetto a quella degli idrocarburi, e lo stesso si può dire per il tenore in idrogeno, mentre elevati sono i tenori in ossigeno e azoto. La struttura delle sostanze che compongono il pirobitume è complessa e ancora non ben conosciuta: le sue proprietà fisiche e la natura dei prodotti di decomposizione sono alquanto variabili. Dalla distillazione per riscaldamento del pirobitume si ottiene petrolio in genere in quantità inferiore a 50 l/t, anche se alcuni giacimenti come le argille nere eoceniche della formazione del Green River (Colorado, Utah, Wyoming) possono fornire da 60 a 120 l di olio combustibile per tonnellata di roccia. Per alcuni studiosi il pirobitume, contenuto per lo più in quantità inferiori all'1% in quasi tutte le rocce sedimentarie, sarebbe da considerare come la sostanza madre degli idrocarburi; dato però che la temperatura necessaria per la sua decomposizione è di 300-400 ºC, valori che si possono incontrare entro la crosta terrestre oltre i 10 km di profondità, e nettamente superiore a quella conciliabile con la presenza di porfirine nei greggi, tale ipotesi non è molto seguita, anche se i sostenitori dell'origine degli idrocarburi per trasformazione termica dal pirobitume affermano che le reazioni possono avvenire a temperature notevolmente inferiori a quelle osservate in laboratorio operando però per tempi assai lunghi. Non esistono prove della trasformazione del pirobitume in petrolio, che viene pertanto dai più considerato come un composto organico inerte alle temperature massime che si raggiungono nelle rocce durante la naftogenesi. La sua presenza in quantità superiori alla media in rocce come le argille bituminose indicherebbe solo una più accentuata ricchezza in sostanza organica di quei sedimenti in origine: nel corso della naftogenesi migrerebbe la parte trasformatasi in gas e petrolio, mentre rimarrebbe un residuo praticamente inalterabile, il pirobitume appunto, decomponibile in natura solo per effetto di elevate temperature legate a metamorfismo.

Chimica: caratteristiche fisiche-chimiche e classificazione

Le caratteristiche fisico-chimiche dei greggi variano praticamente da giacimento a giacimento; la loro conoscenza è importante per la lavorazione successiva in quanto è in grado di orientarla nel modo più conveniente e appropriato. Circa la composizione, il petrolio è quasi interamente costituito da composti organici tra i quali quelli di maggior importanza sono idrocarburi: al riguardo il punto di ebollizione di un greggio è molto indicativo, risultando tanto più elevato quanto più basso è il contenuto in idrocarburi. Gli idrocarburi presenti nei petroli possono appartenere alla serie degli alcani (o idrocarburi paraffinici o paraffine), delle cicloparaffine (o cicloalcani o nafteni) e degli idrocarburi aromatici (ad anello semplice: benzene e derivati come toluene, xileni ecc.; ad anelli condensati: naftalene, antracene, fenantrene, crisene, ecc. e loro derivati). Solo eccezionalmente sono presenti idrocarburi della serie degli alcheni e dei cicloalcheni, i quali sono presumibilmente intervenuti come intermediari nella genesi del petrolio ma, a causa della loro più elevata reattività chimica, si sono poi, nel corso del tempo, trasformati in quelli delle altre serie; le olefine possono comunque rappresentare una cospicua frazione nei prodotti di cracking. La frazione organica non idrocarburica è costituita da composti che oltre a carbonio e idrogeno possono contenere azoto, ossigeno, vari metalli e semimetalli, e zolfo. Quest'ultimo è sempre presente in percentuali non trascurabili (1-10) sia come zolfo libero o come solfuro di idrogeno sia soprattutto sotto forma di suoi composti organici quali tioli (mercaptani), tioeteri, solfuri ciclici, derivati del tiofene ecc. Un contenuto elevato in zolfo riduce il valore commerciale dei petroli in quanto influisce negativamente sui requisiti merceologici dei prodotti petroliferi finiti: lo zolfo pertanto deve essere allontanato durante la lavorazione con appositi trattamenti che incidono sui costi. L'azoto, per lo più sotto forma di derivati della piridina e della chinolina, è contenuto in quantità minime, generalmente inferiori allo 0,1%. Vari sono i composti ossigenati, ma normalmente il contenuto in ossigeno nei petroli non è elevato, avvicinandosi raramente al 2%. I composti più noti appartengono agli acidi alifatici e naftenici e ai fenoli. Nella fase non acquosa del petrolio possono rinvenirsi composti metallorganici, in particolare del vanadio, del boro, del magnesio, del ferro, del rame, del nichel, del silicio ecc. I petroli contengono acqua sotto forma di goccioline finemente emulsionate, in quantità che possono raggiungere l'1%; nell'acqua inoltre sono disciolte molte sostanze, soprattutto sali metallici, i più comuni dei quali sono i cloruri di sodio, di calcio e di magnesio. La composizione chimica del petrolio greggio è notevolmente costante se espressa con le percentuali degli elementi che lo costituiscono (composizione elementare) quale che sia la sua origine geografica e geologica: il contenuto medio del carbonio oscilla tra l'83 e l'87%, dell'idrogeno tra l'11 e il 14%, dello zolfo tra lo 0,05 e il 4,3%, dell'ossigeno tra lo 0,05 e il 3,6% e dell'azoto tra lo 0,05 e lo 0,8%. Tale composizione ha però scarso significato pratico in quanto le caratteristiche di un petrolio ai fini della sua lavorazione sono essenzialmente influenzate dalla sua composizione strutturale: una piccola variazione della composizione elementare può infatti corrispondere a una sensibile modificazione di quella strutturale. Circa le caratteristiche fisiche, la viscosità e il colore sono ampiamente variabili: si va da petroli greggi quasi incolori e a viscosità molto bassa, addirittura analoga a quella dell'acqua, a petroli neri, fortemente viscosi al punto da non riuscire a defluire liberamente; la viscosità risulta maggiore nei petroli più densi. La densità dipende dalla composizione e oscilla tra 0,75 e 0,95 g/cm3; solitamente però è espressa in gradi Baumé o in gradi API. Per la classificazione dei greggi sono stati proposti numerosi criteri, nessuno dei quali tuttavia ha trovato universale applicazione; di alcuni tra i più seguiti si fa qui cenno. Il criterio del peso specifico fornisce, limitatamente al confronto tra petroli provenienti da uno stesso campo petrolifero, un'indicazione di massima sulla resa del petrolio in prodotti leggeri e pesanti; affinché tale criterio risulti efficace è necessario quindi disporre di una classificazione chimica del greggio che illustri i rapporti quantitativi tra gli idrocarburi appartenenti alle varie serie, così da valutare il tipo di idrocarburo prevalente (base). Il criterio della base si fonda sull'aspetto e sulla composizione del residuo di un greggio sottoposto a distillazione in quanto i caratteri del residuo risultano molto influenzati dalla natura delle frazioni più leggere. Secondo tale criterio i greggi sono stati distinti inizialmente in: petrolio a base paraffinica (residuo chiaro, formato in prevalenza da paraffine ad alto peso molecolare; frazioni leggere e intermedie costituite essenzialmente da paraffine e nafteni), petrolio a base asfaltica (residuo nerastro, ricco di asfalteni e sostanze analoghe; frazioni leggere e intermedie prevalentemente nafteniche, con presenza subordinata di idrocarburi aromatici), petrolio a base mista, composti prevalentemente da nafteni, ma con considerevoli quantità di idrocarburi di altre serie. Successivamente, per meglio tener conto del contenuto in nafteni, si sono introdotti altri termini come naftenico e aromatico e si è ricorsi a rappresentazioni grafiche con diagrammi triangolari, per esempio considerando i vertici di un triangolo equilatero rispettivamente corrispondenti a greggi potenziali formati solo (100%) da idrocarburi paraffinici, naftenici o aromatici, e suddividendo i lati nei valori percentuali intermedi; in tal modo un greggio viene individuato all'interno del triangolo con un punto le cui coordinate triangolari corrispondono ai valori percentuali dell'analisi della sua composizione, o con diagrammi a croce, in cui la percentuale degli idrocarburi di ognuno dei gruppi considerati (paraffine, nafteni, asfalteni e idrocarburi aromatici) è proporzionale alla lunghezza del braccio rispettivo. Classificazioni del genere sarebbero però efficaci solo se da un greggio all'altro non cambiassero le caratteristiche delle loro diverse frazioni, mentre normalmente è proprio il contrario. È stato così proposto il criterio delle due frazioni chiave, che prende in considerazione come carattere distintivo la densità in gradi API di due frazioni del greggio in esame, una bassobollente (tra 250 e 275 ºC, a pressione normale), detta frazione chiave 1, e l'altra altobollente (tra 275 e 300 ºC a pressione ridotta, di 40 torr, corrispondenti a 390-415 ºC a pressione normale), detta frazione chiave 2. In base ai valori delle densità delle due frazioni il greggio può essere indicato con una base corrispondente a una delle nove previste da tale classificazione. Tutti questi criteri sono però solo orientativi; se si considera poi che il greggio di uno stesso giacimento può presentare caratteristiche diverse secondo l'orizzonte da cui proviene e che il greggio di un certo livello può nel tempo modificare la sua qualità, si capisce perché si siano affinati metodi sempre più efficaci per fornire in modo semplice e rapido un complesso di dati atto a consentire la valutazione tecnologica del greggio in esame ai fini della sua più idonea utilizzazione. L'esame di un greggio viene normalmente condotto considerando i dati relativi alle sue caratteristiche fisiche generali (densità, temperatura di infiammabilità ecc.), alla determinazione della base, alla determinazione delle percentuali in volume relative alle varie frazioni bollenti entro intervalli successivi di 25 ºC, alla determinazione di alcune caratteristiche fondamentali di tali frazioni, alla determinazione della curva di distillazione, alla determinazione delle sostanze non idrocarburiche presenti, ossia dello zolfo, dei sali, dell'acqua e dei sedimenti in sospensione. Le indicazioni più significative per la valutazione tecnologica di un greggio sono fornite dall'esame della sua curva di distillazione, che può essere determinata secondo vari procedimenti normalizzati.

Geofisica: accumulo del petrolio

Il costipamento dei sedimenti sapropelitici prodotto dal carico dei sedimenti soprastanti provoca l'espulsione dei fluidi contenuti in questi in quantità rilevanti: i fanghi argillosi appena deposti possono infatti contenere anche oltre l'80% di acqua, porosità che si riduce notevolmente con l'aumentare della pressione di carico (intorno al 10% a qualche chilometro di profondità), a differenza di quello che succede per le sabbie, la cui porosità (20-30%) non subisce che diminuzioni molto contenute. L'acqua tende a sfuggire, nelle fasi iniziali, verso l'alto e, attraversando il sedimento, trascina con sé i prodotti della trasformazione delle sostanze organiche: gli idrocarburi liquidi allo stato di dispersione colloidale e quelli gassosi e altri gas (azoto, idrogeno, ossido e biossido di carbonio, solfuro di idrogeno, argo, elio ecc.) in soluzione. Durante il costipamento e la concomitante fuoruscita di acqua dai sedimenti, gli idrocarburi presenti sono estratti solo se capaci di sciogliersi nelle soluzioni acquose interstiziali: dato che al crescere del peso molecolare degli idrocarburi ne diminuisce la solubilità e che questa è invece favorita dall'aumento della concentrazione salina, ne consegue che le acque marine, e quindi salate, circolanti nel sedimento sono particolarmente efficaci nel recupero del protopetrolio. Successivamente, con il progredire della diagenesi, la disposizione lamellare dei minerali delle argille riduce progressivamente la permeabilità verticale del sedimento, favorendo quindi la migrazione laterale dei fluidi, parallelamente alla stratificazione, verso rocce a minor pressione idrostatica. Questo trasferimento di fluidi per spremitura dalla roccia madre a formazioni adiacenti più permeabili, indicate come rocce serbatoio o rocce magazzino, è definita migrazione primaria. Quando la dispersione colloidale penetra nella roccia serbatoio, il cambiamento di ambiente (concentrazione salina, pH, temperatura, pressione) provoca la liberazione del petrolio, sotto forma di goccioline, e dei gas disciolti. I fluidi passati nella roccia serbatoio continuano a spostarsi, per effetto di cause diverse, a mano a mano verso l'alto fino a giungere in superficie se la roccia serbatoio non è coperta da una formazione impermeabile, la cosiddetta roccia di copertura. Dove esiste tale copertura l'accumulo del petrolio in zone della roccia serbatoio dove ne sia impossibile un ulteriore spostamento è favorito da particolari situazioni stratigrafiche o tettoniche definite come trappole petrolifere o semplicemente trappole. La mancanza di un'efficace roccia di copertura comporta invece la dispersione in superficie del petrolio: il fenomeno è noto come dismigrazione, mentre con migrazione secondaria si indica lo spostamento dei fluidi all'interno della roccia serbatoio fino all'accumulo nelle trappole. Gli spostamenti nell'ambito della roccia serbatoio sono legati soprattutto alla sensibile differenza di tensione superficiale tra acqua e petrolio e alla differenza di densità degli stessi fluidi. A causa della tensione superficiale inferiore a quella dell'acqua, il petrolio tende a occupare nella roccia serbatoio i pori più grandi che l'acqua lascia liberi per infiltrarsi in quelli più piccoli; in tal modo il petrolio può più facilmente raggiungere dei livelli più permeabili in cui, ai fini della mobilità, risulta più efficace la differenza di densità: il petrolio, meno denso, tende infatti a spostarsi verso l'alto e quindi a galleggiare sull'acqua. La velocità di tali spostamenti è comunque molto ridotta, dell'ordine di centimetri all'anno. Rocce serbatoio per eccellenza (oltre il 60%) sono le arenarie e le sabbie, particolarmente se costituite in prevalenza da granuli equidimensionali alquanto angolosi; depositi del genere si formano tipicamente lungo le coste o comunque nell'ambito della piattaforma continentale. Da rocce serbatoio possono anche fungere i calcari oolitici e i bioermi, formazioni dotate di notevole porosità primaria. Inoltre bisogna considerare anche le rocce dotate di porosità secondaria come calcari e dolomie e le rocce comunque fratturate. Nel complesso si stima che le rocce serbatoio di tipo calcareo costituiscano poco più del 30%. Come copertura delle rocce serbatoio si incontrano solitamente argille o anche evaporiti, più raramente un tappo di asfalto formatosi per ossidazione di idrocarburi giunti quasi in superficie. Un giacimento di petrolio corrisponde al volume di roccia serbatoio impregnato da petrolio e anche da gas naturale combustibile, purché entrambi questi fluidi siano in continuità fisica e sottoposti allo stesso regime di pressione. Come già accennato, le rocce circostanti, e in particolare quelle soprastanti la roccia serbatoio, per poter impedire o comunque fortemente rallentare il movimento degli idrocarburi verso la superficie, devono presentare delle condizioni particolari di permeabilità e di assetto degli strati, ossia devono risultare delle trappole. Quando si parla di campo petrolifero si intende pertanto tutta l'area geografica nel cui sottosuolo si trovano uno o più giacimenti aventi in comune una stessa origine geologica; se più campi petroliferi presentano nell'ambito di una stessa regione caratteristiche simili perché formatisi in uno stesso ambiente o in seguito a uno stesso evento geologico, si parla di provincia petrolifera o anche di bacino petrolifero. Un giacimento è costituito, invece, da uno o più accumuli di petrolio, anche sovrapposti, nell'ambito di una stessa trappola. A mano a mano che i fluidi petroliferi si accumulano nella roccia serbatoio, essi tendono a disporsi secondo la loro densità e secondo la temperatura e la pressione dell'ambiente. Normalmente si ha dall'alto in basso la successione: idrocarburi gassosi, idrocarburi liquidi e acqua. La separazione non è netta e quindi la frazione liquida contiene di norma una certa quantità di gas disciolti, che può essere indicata in base al contenuto in m3 di gas per metro cubo di petrolio, indice noto come Gas Oil Ratio (GOR): inoltre nel petrolio sono sempre contenuti prodotti solidi come resine, cere e asfalti. In un giacimento possono dunque essere presenti accumuli formati solo da gas naturali, da gas associati a idrocarburi liquidi (giacimenti soprasaturi) e da idrocarburi liquidi con o senza gas disciolti (giacimenti sottosaturi). Nella stragrande maggioranza dei casi gli idrocarburi sono in contatto con acqua: le acque che nella roccia serbatoio sono al di sotto dello strato impregnato da idrocarburi liquidi sono dette acque di fondo, mentre l'acqua pellicolare che aderisce ai granuli nei livelli impregnati dagli idrocarburi liquidi e gassosi è denominata acqua connata o acqua di strato. Per lo più si tratta di acque salate con una concentrazione in sali variabile dallo 0,1 al 40% con punte anche oltre il 60%; di solito però la concentrazione è di poco superiore a quella dell'acqua marina (3,5%) ma con una composizione sensibilmente diversa risultando tali acque più ricche in solfuri e cloruri e decisamente povere di solfati e di silice, a testimonianza delle condizioni riducenti dell'ambiente di formazione del petrolio.

Geofisica: distribuzione dei giacimenti di petrolio

Un quadro esatto e definitivo della distribuzione del petrolio nel mondo non è possibile in quanto la ricerca petrolifera, condotta a ritmo intenso, porta di frequente alla scoperta di nuovi giacimenti; l'orientamento attualmente prevalente è la ricerca di petrolio nell'ambito della piattaforma continentale, anche se già ci si prepara ad affrontare la coltivazione di giacimenti ubicati sotto fondali marini a profondità ben maggiori. I giacimenti utili di idrocarburi si trovano a profondità variabili da poche decine di metri a diversi chilometri, anche 7-8; quelli più profondi costituiscono una frazione molto ridotta del totale anche perché solo con i moderni metodi di perforazione è stato possibile raggiungere considerevoli profondità: ca. l'80% dei giacimenti conosciuti ha una profondità inferiore ai 3000 m. Il petrolio è stato rinvenuto in formazioni rocciose di età e tipologia diverse ma sempre facenti parte di bacini sedimentari; di solito i giacimenti sono ubicati in margine ai bacini, per le più favorevoli possibilità dell'instaurarsi dei processi naftogenetici e, in seguito, anche della formazione di efficaci trappole per l'accumulo del petrolio. Circa la metà dei giacimenti petroliferi ha avuto origine in ambienti connessi con la piattaforma continentale e con la scarpata continentale, ca. il 25% è invece ricollegabile all'ambiente di miogeosinclinale: dei rimanenti, di tipo vario, particolarmente interessanti sono quelli connessi coi bacini di sprofondamento intracratonici. Per quanto concerne l'età, a titolo indicativo si può dire che le rocce serbatoio dei giacimenti petroliferi appartengono per oltre il 40% al Cenozoico (in piccola parte al Neozoico), per ca. il 27% al Mesozoico e per il resto al Paleozoico (in piccola parte anche al Precambriano). La distribuzione geografica dei giacimenti di petrolio è in relazione con quella dei grandi bacini sedimentari, di cui però, come si è già accennato, tende a occupare solamente determinate aree: l'80% delle aree petrolifere è infatti concentrato in appena il 20% della superficie relativa ai bacini sedimentari.

Tecnologia: ricerca petrolifera

Data la rilevante importanza economica del petrolio, la ricerca di nuovi giacimenti si è andata progressivamente perfezionando e affinando, avvalendosi di metodi di indagine che richiedono l'intervento di specialisti dei vari settori che studiano la crosta terrestre come stratigrafia, giacimentologia, geofisica, petrografia, paleontologia, paleogeografia, idrologia sotterranea, ecc. Inizialmente i pozzi petroliferi vennero scavati nelle zone in cui si avevano consistenti manifestazioni petrolifere superficiali come il petrolio nerastro misto ad acqua salata e a idrocarburi gassosi delle “salse” dell'Appennino emiliano o delle “maccalube” della Sicilia, o come quelle, dovute alla risalita di idrocarburi gassosi, caratterizzate dalla formazione dei cosiddetti vulcani di fango. Successivamente, in seguito all'affermarsi della teoria delle anticlinali, si sviluppò il rilevamento geologico di superficie, ancora importante per un'indagine preliminare, ma non in grado di fornire indicazioni sulle strutture profonde. La necessità di dover disporre di informazioni il più possibile attendibili sull'andamento strutturale in profondità, per non dover procedere completamente all'oscuro alla costosa perforazione dei pozzi di sondaggio, ha portato alla messa a punto di numerosi metodi geofisici di rilevamento profondo (per quanto concerne le caratteristiche di tali metodi vedi prospezione). Una volta compiuta la fase di prospezione si decide di effettuare delle perforazioni di prova nei punti più favorevoli in base all'interpretazione delle caratteristiche strutturali e stratigrafiche del sottosuolo precedentemente desunte. È così possibile ricostruire la colonna stratigrafica corredata con l'indicazione dell'età geologica degli strati, ricavata in base allo studio micropaleontologico delle carote e dei detriti di perforazione, con l'indicazione della porosità, della resistività, del potenziale spontaneo, dei dati relativi alla circolazione delle acque sotterranee. Sulla base di tali dati si effettua la ricostruzione tettonica della regione con particolare attenzione alla localizzazione delle possibili trappole petrolifere. Nella ricerca delle trappole è di grande aiuto la compilazione di diverse rappresentazioni cartografiche della stratigrafia e litologia del sottosuolo, come carte delle isopache, carte di litofacies, carte paleotettoniche, carte palinspastiche. Dallo studio dei caratteri litologici e paleontologici è possibile infine ricostruire le condizioni dell'ambiente di sedimentazione. Per quanto concerne la fase conclusiva della ricerca petrolifera, ossia l'esecuzione dei pozzi, sia per accertare la validità o meno delle previsioni sia per l'eventuale coltivazione del giacimento, vedi perforazione e pozzo.

Tecnologia: coltivazione

L'estrazione del petrolio dal giacimento deve essere effettuata nel modo più razionale ed economico possibile. Decisa l'ubicazione dei pozzi ritenuti necessari per la coltivazione dei giacimenti di un campo petrolifero, in base alle conclusioni della fase di ricerca, si procede alla perforazione e al completamento dei pozzi stessi. Questi vengono isolati dalla roccia in cui sono perforati rivestendoli con una colonna di tubi di acciaio e iniettando cemento tra la parete del foro e la colonna stessa: solo in corrispondenza dei livelli produttivi, petroliferi o gassiferi, individuati durante la fase di prospezione e carotaggio, si interrompe con apposite tecniche la continuità del rivestimento per consentire la penetrazione degli idrocarburi. I fluidi che si riversano nel pozzo possono risalire spontaneamente fino all'imboccatura se la pressione è sufficiente a far migrare gli idrocarburi dalla roccia nel tubo e se il petrolio non è troppo viscoso, altrimenti bisogna ricorrere a sistemi di sollevamento. Essenziale per la valutazione della quantità di petrolio direttamente recuperabile da un giacimento è l'esatta previsione del comportamento della pressione durante l'estrazione. I fluidi contenuti in una roccia serbatoio sono sottoposti, infatti, a una pressione detta pressione di strato o pressione di giacimento, che risulta essenzialmente dal concorso di tre fattori, la pressione idrostatica, dovuta al peso della colonna d'acqua che impregna la roccia serbatoio, la quantità di gas in soluzione nel petrolio e la presenza di una cappa gassifera (gas-cap), ossia di un accumulo di gas libero nella parte sommitale del giacimento. Quando con una perforazione si interrompe la continuità della roccia di copertura, la pressione trova sfogo e i fluidi sono così sollecitati a fuoruscire. Il ruolo di questi fattori è variabile; si possono tuttavia riconoscere due situazioni limite, tra le quali esistono infiniti casi intermedi: la pressione durante la coltivazione diminuisce progressivamente tanto che a un certo punto si arresta l'afflusso di idrocarburi dal pozzo, oppure la pressione si mantiene all'incirca costante durante tutta la produzione, nel corso della quale però la quantità di petrolio estratta man mano diminuisce mentre aumenta quella di acqua, fino a che il pozzo produce solo acqua. Se nel giacimento il petrolio è sottosaturo, la caduta di pressione che si verifica con l'apertura del pozzo provoca l'espansione dei gas presenti in soluzione: i gas muovendosi verso l'imbocco del pozzo trascinano anche il petrolio. In questo caso, però, una volta sfuggiti i gas, il flusso di petrolio si arresta e quindi è possibile recuperare direttamente solo ca. il 20% del petrolio esistente nel sottosuolo per cui si deve ricorrere a particolari tecniche di recupero. Nel caso invece di un giacimento soprassaturo, cioè con gas-cap, se si ha cura di aprire il pozzo in prossimità della base del livello petrolifero e non alla sommità dove invece si raccoglie il gas, l'espansione del gas libero soprastante sospinge il petrolio nel pozzo; inoltre la parte dei gas disciolti che si smescola migra prevalentemente verso la volta del giacimento accrescendo il volume della cappa gassifera che quindi, estendendosi verso il basso, scaccia il petrolio dai pori della roccia serbatoio, facilitandone il deflusso nel pozzo. Giacimenti del genere possono fornire anche oltre il 50% del petrolio contenuto prima che si renda necessario il ricorso a sistemi di recupero secondario. Quando la roccia serbatoio si estende al di là dell'area interessata dagli accumuli idrocarburici in modo da giungere fino in superficie, si realizza una situazione analoga a quella delle falde acquifere artesiane: l'apertura di un pozzo provoca la fuoruscita di petrolio sotto la spinta dovuta, oltre che all'espansione dei gas in soluzione ed, eventualmente, di quelli della cappa gassifera, in prevalenza alla spinta idrostatica. In casi del genere, durante la coltivazione, l'acqua che affluisce lateralmente sostituisce gradatamente gli idrocarburi fuorusciti e pertanto la pressione si mantiene praticamente costante. Giacimenti di questo tipo consentono l'estrazione diretta anche dell'80% del petrolio contenuto. Se un pozzo dovesse raggiungere un giacimento di tipo soprassaturo senza che ciò sia stato previsto, la violenta espansione dei gas può provocare l'eruzione incontrollata del pozzo, dannosa perché impedisce una coltivazione più razionale e anche pericolosa per la possibilità di esplosioni e di incendi. Per evitare inconvenienti del genere di regola si colloca in superficie all'imbocco del pozzo un complesso apparato detto croce di eruzione o albero di Natale. Se l'energia del giacimento non è sufficiente ad assicurare l'erogazione spontanea, il petrolio viene sollevato in superficie ricorrendo all'impiego di pompe di vario tipo o al metodo del gas-lift. Si è fatto ricorso a metodi di recupero secondario per consentire l'ulteriore estrazione di petrolio da quei giacimenti in cui, in seguito a eccessiva perdita di pressione spesso dovuta a irrazionale sfruttamento, è ancora contenuta una grande quantità di petrolio bloccata nella roccia serbatoio. I metodi di recupero secondario si basano sull'aumento della pressione del giacimento iniettando gas naturali (gas-drive), aria o acqua nel giacimento tramite appositi pozzi dislocati in modo da favorire lo spostamento del petrolio verso i pozzi di estrazione. Si ricorre inoltre a processi termici per ridurre la viscosità dei prodotti rimasti nella roccia; in particolare risulta efficace innescare la combustione in profondità di una parte del petrolio per provocare la vaporizzazione di altro petrolio e facilitare così il movimento del petrolio residuo verso i pozzi. In alcuni giacimenti posti a profondità modesta e non più convenientemente coltivabili con la tipica tecnica petrolifera si è ricorsi a un vecchio sistema consistente nel raggiungere mediante pozzi e gallerie minerarie la roccia serbatoio, nella quale si esegue una serie di piccoli fori di sonda dai quali il petrolio gocciola e può essere raccolto in appositi canaletti e portato in superficie. Il petrolio estratto dai pozzi è misto a fango e ad altre impurezze ed emulsionato con acqua salata; viene inviato all'impianto di degasolinaggio per il recupero o la eliminazione delle frazioni troppo leggere e volatili che costituirebbero un notevole pericolo durante il trasporto: i gas possono venire in parte utilizzati, direttamente per il gas-lift o come combustibili, e la parte restante, dopo trattamento per eliminare solfuro di idrogeno, anidride solforosa e vapore acqueo eventualmente presenti, viene immessa nei gasdotti. Il greggio, prima del trasporto alle raffinerie, viene raccolto in grandi vasche dove per decantazione avviene una prima separazione dell'acqua e dei sedimenti argillosi. Il trasporto del greggio alle raffinerie si compie in vario modo: per via di terra mediante oleodotti, autocisterne e cisterne ferroviarie, e per via d'acqua con navi cisterna.

Tecnologia: uso del petrolio

Inizialmente il petrolio, attraverso i diversi prodotti ottenuti dalla sua elaborazione, costituiva esclusivamente una fonte di energia utilizzata per motori (e per l'illuminazione). Con il progresso della chimica il petrolio è diventato la materia prima fondamentale di un'imponente attività: l'industria petrolchimica; il petrolio non ha però perso la sua specifica caratteristica di fonte primaria di energia, anzi, con i progressi tecnici della petrolchimica, che hanno permesso di ottenere carburanti sempre più sofisticati, esso si è sostituito al carbone rispetto al quale, inoltre, è più facilmente estraibile e trasportabile. Sono inoltre assai avanzate le ricerche per la produzione di proteine dal petrolio, utilizzabili quale materiale nutritizio per particolari microrganismi, le cui cellule, ricche in proteine, si sviluppano a spese degli idrocarburi del petrolio, e vengono poi raccolte e impiegate in mangimi per il bestiame. Tutte le operazioni tecnologiche che permettono di ottenere dal petrolio quella vasta gamma di prodotti su cui si basa la petrolchimica si svolgono in complessi centri di lavorazione del greggio, le raffinerie. Questi complessi industriali sono convenientemente ubicati rispetto alle aree di mercato e alle possibilità di ricevere con facilità il greggio da lavorare; possono essere classificati o in base alla quantità di greggio che possono trattare per ottenere prodotti con determinate caratteristiche (potenzialità) o in base allo schema di lavorazione che sono in grado di attuare. Al riguardo si distinguono tre tipi principali di raffinerie: le raffinerie dette a combustibili sono destinate particolarmente alla produzione di distillati leggeri (gas liquefatti e benzine) e medi (cherosene e gasolio); le raffinerie dette a lubrificanti tendono invece a trasformare gran parte del greggio in oli lubrificanti; complete si dicono infine le raffinerie dotate di impianti in grado di far fronte alle più varie richieste del mercato e quindi in grado di lavorare greggi di vario tipo. Le raffinerie complete possono quindi sulla base della natura del greggio disponibile e delle caratteristiche dei prodotti richiesti attuare schemi di lavorazione diversi. Le operazioni fondamentali che si succedono nel corso della lavorazione di un greggio sono la separazione per distillazione, la conversione e il trattamento. Preliminarmente però si procede alla desalinizzazione e deacquificazione del greggio in quanto contiene, emulsionata, ancora una certa quantità di acque salmastre che potrebbero dar luogo a fenomeni di corrosione negli impianti di raffinazione. L'allontanamento di tali acque si può ottenere lavando il greggio con acqua calda, meglio se addizionata con sostanze che facilitino la rottura dell'emulsione, come sapone o carbonato di sodio, per centrifugazione o per separazione elettrostatica, applicando a un sistema di elettrodi immersi in un apposito decantatore una differenza di potenziale di 10-20.000 V. La separazione per distillazione primaria, o topping, è l'operazione essenziale per ottenere dal greggio le varie frazioni: viene condotta in grandi colonne di distillazione (o colonne di frazionamento) a funzionamento continuo, in cui si immette il greggio ridotto in gran parte allo stato di vapore previo riscaldamento non oltre i 400 ºC in forni a serpentino (pipe still). Le frazioni allo stato di vapore migrano rapidamente verso l'alto della colonna, seguite da tutte le frazioni più leggere dei residui liquidi, trascinate da una corrente ascensionale di vapor acqueo. Così nella parte alta della colonna si raccolgono le frazioni più leggere, le benzine leggere, medie e pesanti, da punti intermedi si raccolgono le frazioni medie, cherosene (detto anche petrolio) e gasolio; dai punti più bassi, le frazioni pesanti: oli lubrificanti e oli combustibili; dal fondo della colonna si recuperano i residui solidi: paraffina, vaselina, bitumi, pece, ecc. Dalla testa della colonna di distillazione si liberano invece gli idrocarburi gassosi disciolti nel greggio, costituiti da una miscela di metano, etano, propano, butano e isobutano (gas di raffineria). Le frazioni corrispondenti alle benzine pesanti, al cherosene e al gasolio sono in genere sottoposte a ulteriore frazionamento in colonne più piccole, dette colonne di stripping. Il residuo della colonna di topping viene invece ridistillato a pressione ridotta, previo riscaldamento in un forno a serpentino, in un impianto detto colonna vacuum, corredato anch'esso di colonne secondarie di stripping. Si ottengono oli medi e pesanti dalla parte alta della colonna, oli lubrificanti da quella inferiore e un residuo ricco di impurezze, utilizzato come combustibile di scarso pregio. Le frazioni pesanti e i residui possono anche essere immessi direttamente sul mercato, mentre le altre frazioni sono sottoposte a ulteriori procedimenti per renderle più idonee alle varie applicazioni. La quantità delle singole frazioni ottenute dalla distillazione primaria differisce in modo sensibile secondo la natura del greggio utilizzato, ma in genere il rapporto quantitativo tra esse non corrisponde alle richieste del consumo. Quasi tutti i greggi sono infatti relativamente poveri nei prodotti più leggeri, più pregiati e richiesti: a riequilibrare tale rapporto si provvede con i trattamenti di conversione. La conversione consiste infatti in operazioni che mirano a modificare le qualità delle frazioni liquide o gassose: così gli oli pesanti, di scarso valore commerciale e di difficile utilizzazione, vengono trasformati in prodotti più leggeri e pregiati, per lo più benzine a elevato numero di ottano (cracking e idrocracking), le benzine leggere e pesanti subiscono una parziale trasformazione delle molecole lineari in isomeri ramificati, trattamento che eleva notevolmente il numero di ottano (processo di reforming, che presenta numerose varianti secondo i catalizzatori impiegati e le modalità operative: hydroforming, platforming ecc.). I processi precedenti comportano la liberazione di gas in quantità variabili secondo la natura del greggio e la metodologia adottata: i gas possono essere impiegati come combustibili (gas di petrolio liquefatto o GPL: vedi gas) oppure convertiti per polimerizzazione catalitica in frazioni liquide utilizzate come componenti di benzine ad alto numero di ottano (benzina). Il trattamento consiste essenzialmente nel rimuovere dai prodotti ottenuti tutte le impurità e le sostanze indesiderabili presenti; vi rientrano anche gli interventi destinati a conferire al prodotto particolari caratteristiche merceologiche, secondo le esigenze del mercato. Operazioni di trattamento sono per esempio quelle relative alla purificazione delle benzine o l'aggiunta di additivi. Particolare importanza hanno i trattamenti di desolforazione che si effettuano con metodi diversi, secondo le caratteristiche del prodotto trattato, sulle benzine, sul cherosene e sul gasolio. Per i principali prodotti derivati dal petrolio si veda anche petrolchimica.

Ecologia: inquinamento da petrolio

L'inquinamento da petrolio è una generica contaminazione dell'ambiente (del suolo, dell'aria e, soprattutto, dell'acqua) causata da idrocarburi liquidi (petrolio greggio o i suoi derivati). Esso può essere accidentale o sistematico. Il primo è causato, in genere, da petroliere le quali, essendo coinvolte in incidenti di navigazione (collisioni, incagliamenti, incendi, esplosioni, naufragi), riversano in mare grandi quantità di petrolio causando ingenti danni agli ecosistemi marini e litorali. Solo il 10% degli idrocarburi che contaminano i mari proviene, tuttavia, da riversamenti accidentali. Il resto giunge da cause “croniche” presenti perennemente nell'ambiente marino (ricaduta di particelle inquinanti dall'atmosfera, infiltrazioni naturali, dilavamento degli oli minerali dispersi nell'ambiente, perdite di raffinerie o di impianti di trivellazione su piattaforme in mare aperto e, soprattutto, lo scarico a mare di acque di zavorra da parte di navi cisterna e petroliere). La causa principale di inquinamento da idrocarburi dei mari rimane tuttavia quella derivante dalle operazioni di lavaggio delle cisterne; in tali operazioni infatti le acque reflue di lavaggio vengono scaricate direttamente in mare aperto. L'inquinamento di questo genere è definito cronico perché le petroliere, una volta consegnato il proprio carico alle raffinerie, pompano nelle cisterne acqua che serve da zavorra per il viaggio di ritorno e che viene riversata in mare prima di giungere ai terminali di carico. Questi interventi essendo continuativi, hanno un impatto ben più grave sull'ambiente marino di quanto ne producano quelli accidentali; infatti le tracce di catrame sui litorali derivano essenzialmente dai residui presenti nelle acque di zavorra scaricate in mare. L'impiego di questa tecnica di lavaggio è stato limitato, a partire dagli anni Settanta, da una serie di convenzioni internazionali, che hanno imposto la realizzazione di petroliere progettate in modo tale da rendere minima la fuoriuscita di greggio in caso di incidente: l'installazione a bordo di sistemi per la separazione dei residui di petrolio dalle acque di zavorra e di lavaggio pompate in mare, l'uso di strumenti a bordo per il controllo del livello di inquinamento delle acque di zavorra e l'installazione di impianti per la raccolta e il trattamento delle acque contaminate presso i terminali di carico del greggio e i porti di scalo. Anche i giacimenti di petrolio su terraferma possono provocare gravi danni all'ambiente. In questo caso, le fuoriuscite nocive sono dovute, nella maggior parte dei casi, alla cattiva progettazione, gestione e manutenzione degli impianti. In alcune zone della terra, per esempio, l'inquinamento del suolo e delle falde acquifere è stato causato da eruzioni di petrolio dai pozzi durante le fasi di trivellazione, dalla dispersione nell'ambiente del tutto fraudolenta, di petrolio meno pregiato e dal cattivo funzionamento dei sistemi per la separazione delle acque dal petrolio e per la depurazione delle acque stesse. Di norma il petrolio se scaricato in mare, in quantità non eccessive, viene spesso degradato naturalmente dall'ambiente attraverso processi fisici, chimici e biologici. Infatti il greggio, essendo più leggero dell'acqua, galleggia e crea grandi chiazze che tendono ad allargarsi disponendosi in strati di vario spessore; i venti e le correnti marine disperdono le chiazze formando dei veri e propri banchi di greggio. Gli strati superiori dei banchi, essendo più volatili, evaporano naturalmente in breve tempo facendo perdergli gran parte della massa. Purtroppo alcuni componenti penetrano invece nell'acqua producendo effetti nocivi sugli organismi marini e ossidate biochimicamente a opera di batteri, funghi e alghe. Le frazioni più pesanti vagano, invece, sulla superficie del mare, fino a formare grumi difficilmente degradabili che affondano lentamente fino a raggiungere il fondo marino. Il petrolio così disperso in mare e non “biodegradato” può causare gravi danni alle specie marine di uccelli, di mammiferi e rettili. Infatti il piumaggio degli uccelli marini è spesso irrimediabilmente rovinato a causa dell'imbrattamento da petrolio; inoltre le notevoli quantità di petrolio ingerito dagli uccelli stessi provocano intossicazioni talvolta letali. Il petrolio che si perde in mare arriva sulle coste e può distruggere interi ecosistemi (barriere coralline, paludi salmastre ecc.) oltre a compromettere svariate attività commerciali legate al mare, quali la pesca, l'acquacoltura o il turismo. Una soluzione maggiormente diffusa in passato per bonificare l'ambiente marino dall'inquinamento accidentale da petrolio, consisteva nell'irrorare le pellicole oleose con sostanze emulsionanti. Le emulsioni, tuttavia, sono risultate essere più dannose del petrolio stesso e per tale motivo questa tecnica è stata abbandonata. Attualmente il petrolio viene contenuto e/o raccolto da barriere galleggianti o da speciali imbarcazioni che effettuano una sorta di raschiatura sulla superficie del mare. Il petrolio viene ulteriormente trattato con agenti emulsionanti solo nel caso in cui anche la costa ne è minacciata. Il petrolio che si riversa sulle spiagge non viene sottoposto ad alcun trattamento: in genere si preferisce aspettare che la degradazione avvenga naturalmente, con tempi e modalità “biologici” cioè attraverso i normali meccanismi di decomposizione. Nel caso in cui siano colpiti luoghi turistici frequentati e soggetti ad attività commerciali importanti, per motivi di tempo e di immagine del luogo, si preferisce rimuovere gli strati superficiali di sabbia contaminati e trattarli ex-situ, piuttosto che ricorrere a metodi ugualmente rapidi (con solventi ed emulsionanti) i quali farebbero però penetrare il petrolio più in profondità. I solventi vengono utilizzati solo per ripulire impianti e attrezzature.

Economia: le origini dell'industria petrolifera

Se il petrolio ha avuto una crescente e imponente valorizzazione nel corso del sec. XX ciò non vuol dire che anche precedentemente non fosse conosciuto e utilizzato. Fin da tempi assai remoti l'uomo deve aver notato le manifestazioni superficiali della presenza di idrocarburi e ben presto deve aver imparato a utilizzare petrolio e asfalto raccolti da giacimenti superficiali. Numerosissime sono le testimonianze in merito, in gran parte relative ad antiche civiltà medio-orientali. Così, l'asfalto ricavato da giacimenti superficiali frequenti sulle rive del Mar Morto, del Mar Caspio e del Golfo Persico era commerciato già 5000 anni fa per calafatare imbarcazioni, per cementare i blocchi di pietra degli edifici, per impermeabilizzare le condotte d'acqua. La Bibbia cita l'uso di bitume per impermeabilizzare l'arca di Noè e anche la cesta di papiro in cui la madre affidò alle acque del Nilo Mosè bambino, e come legante nella costruzione della torre di Babele. Presso Assiri, Babilonesi ed Egizi il petrolio serviva anche per i riti sacri del culto del fuoco: i Parsi, adoratori del fuoco, costruivano addirittura i loro templi in vicinanza di fughe di gas naturale incendiatosi per cause spontanee, i cosiddetti “fuochi eterni”. Il petrolio e l'asfalto venivano utilizzati anche per illuminazione e a fini medicinali; in tempi più recenti fu usato per scopi guerreschi nella preparazione del “fuoco greco”. Tale utilizzazione degli idrocarburi naturali aveva però carattere prevalentemente locale, concentrata intorno alle loro manifestazioni superficiali. Solo nel sec. XIX si cominciò a ricercare e a commerciare il petrolio distillandolo essenzialmente per usi di illuminazione e riscaldamento in sostituzione degli oli vegetali e animali fino allora usati, il cui costo subiva un continuo incremento. Negli Stati Uniti, intorno al 1850, per ottenere petrolio illuminante si intrapresero prima la distillazione del carbon fossile e poco dopo quella dell'asfalto. Dato l'esito favorevole dell'esperimento e l'aumento della richiesta si pensò di migliorare la produzione utilizzando gli idrocarburi liquidi delle sorgenti naturali note: queste però furono in brevissimo tempo incapaci di fornire tutto il petrolio richiesto dal mercato e quindi si passò alla ricerca nel sottosuolo di giacimenti più cospicui, tentando scavi nei pressi delle manifestazioni superficiali. È invalso l'uso di fissare il sorgere della moderna industria petrolifera al 27 agosto 1859, quando da un pozzo profondo solo ca. 21 m, perforato da Edwin L. Drake a Watson Flat, accanto a Oil Creek, presso Titusville (Pennsylvania), sgorgò il petrolio con una produzione iniziale di ca. 30 barili al giorno. Fu quello il primo pozzo petrolifero perforato con attrezzatura a percussione e bilanciere azionato a vapore. Dopo due anni dalla prima perforazione già si contavano nella regione alcune centinaia di pozzi produttivi; la ricerca petrolifera si estese poi dalla Pennsylvania anche alla California e al Texas e successivamente a numerosissime altre aree. Fino ai primi decenni del sec. XX però le ricerche furono condotte quasi a caso senza ricorrere a concetti geologici se non a quello basato sulla teoria delle anticlinali. La prima raffineria fu installata nel 1860 nei pressi del famoso pozzo Drake e, sempre vicino a Titusville, fu costruito il primo oleodotto (1865), della lunghezza di ca. 8 km. Se il 1859 segna convenzionalmente l'inizio dell'industria petrolifera, è stato però solo nel sec. XX che il petrolio ha avuto un'utilizzazione su vasta scala, quale base dello sviluppo del motore a combustione interna e, insieme al carbone, della crescente produzione di energia elettrica. Già nel 1920 il petrolio forniva il 12% dell'energia utilizzata nel mondo per passare al 26% negli anni Cinquanta, al 46% negli anni Settanta e al 43% alla fine degli anni Ottanta. Il carbone è quindi passato in secondo piano, soppiantato dal petrolio e dal gas naturale. Le difficoltà insite nella ricerca e nello sfruttamento dei giacimenti spiegano in buona parte il perché della tardiva comparsa del petrolio tra le fonti energetiche fondamentali: i costi della prospezione e dello sfruttamento sono molto elevati; la ricerca, con attrezzature tecniche continuamente perfezionate, ormai sfruttati i giacimenti più accessibili, riguarda territori e regioni inospitali, spesso lontani dalle zone abitate, e i fondali sottomarini.

Economia: la produzione e le riserve

Dall'inizio del sec. XX la produzione annua di petrolio è cresciuta ad un tasso quasi costante (7% ca.) raddoppiando quasi ogni dieci anni. Da ca. 50 milioni di t prodotti nel 1913, è passata a 200 nel 1930, a 540 nel 1950. Gli anni Sessanta segnano ancora una sensibile crescita della produzione, che prosegue, fatta eccezione per una flessione nel 1975, nella seconda metà e soprattutto negli ultimi anni Settanta, allorché giunge a superare i 3 miliardi di t. Nella prima metà degli anni Ottanta si registra una nuova sensibile flessione, seguita da un nuovo recupero negli anni più recenti. Nel corso del tempo si è avuta una sempre più ampia distribuzione geografica della produzione e i "paesaggi" petroliferi contraddistinguono ormai numerose regioni della Terra. All'inizio degli anni Trenta gli Stati Uniti producevano oltre i 2/3 del totale mondiale; successivamente si andavano affiancando molti altri Stati, tra i quali in particolare prevalevano l'Unione Sovietica e i Paesi arabi del Medio Oriente e del Nordafrica: questi ultimi in breve acquistavano un ruolo determinante nel mercato internazionale degli idrocarburi. Tra i principali produttori mondiali di petrolio, al primo e al secondo posto si collocano l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti (rispettivamente con il 13% e l'11,1% del totale mondiale nel 1997) seguiti dalla Russia. Nell'ambito del bacino mesopotamico si situano vari altri Paesi, la cui produzione è però diminuita a partire dagli anni Ottanta per motivi politici o bellici, come l'Iran e l'Iraq, o per politiche di conservazione delle risorse, come il Kuwait. Grandi produttori sono diventati la Cina e il Messico, il Venezuela, con i bacini di Maracaibo, Falcón, Maturín. Tra i maggiori produttori figurano inoltre gli Emirati Arabi Uniti (3,5%), il Canada e la Nigeria (3%). Infine produttori di minore importanza si trovano nell'America Latina (Brasile, zona pedemontana delle Ande Orientali, dalla Colombia all'Argentina), nell'Africa (Algeria, Egitto, Gabon, Repubblica Popolare del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Angola) e in Australia. L'Europa occidentale, i cui fabbisogni ammontano a circa un quinto della produzione totale, importa un quantitativo di petrolio pari a circa i tre quarti dei suoi consumi, in quanto non può contare su consistenti risorse interne, fatta eccezione per i giacimenti del Mare del Nord. Questi sono sfruttati dalla Gran Bretagna e dalla Norvegia, che quindi figurano tra i Paesi esportatori di petrolio. In Italia il contributo del petrolio al soddisfacimento energetico nazionale si aggira sul 55%, con un certo ridimensionamento rispetto agli anni passati dovuto al maggior impiego di gas naturale (il cui apporto al bilancio energetico si aggira intorno al 30%). Nel 1991 le riserve petrolifere nazionali ammontavano a 85 miliardi di t (di cui 52 accertate), ma i potenziali nell'off-shore ionico e del Canale di Sicilia non sono stati ancora definiti. La produzione, nel 1996, ha raggiunto i 5,5 milioni di t e nello stesso anno le importazioni di greggio sono state 74,9 milioni di t. Le riserve mondiali stimate sono cresciute continuamente, grazie non solo a nuove scoperte, ma anche alla rivalutazione – per mezzo di tecniche più avanzate – del potenziale produttivo di giacimenti noti: esse sono passate dai 4,5 miliardi di t nel 1938 a 10,8 nel 1950, ai ca. 138 miliardi di t del 1995. Dal punto di vista geografico le maggiori riserve sono concentrate nei Paesi dell'OPEC (77%). La posizione dominante dei Paesi del Vicino e del Medio Oriente è rafforzata dal fatto che il petrolio da essi proveniente ha minori costi di produzione, inferiore ai costi di produzione dei giacimenti terrestri degli Stati Uniti e dei giacimenti off-shore del Mare del Nord. Nella graduatoria dei Paesi detentori di riserve mondiali di greggio, al primo posto si trova l'Arabia Saudita, che da sola dispone di oltre un quarto del totale mondiale e di circa un terzo di quelle dell'OPEC; seguono quattro Paesi medio-orientali, Iraq (13,4 milioni di t), Kuwait (13,3), Emirati Arabi Uniti (12,7) e Iran (12). Per quanto riguarda i Paesi non appartenenti all'OPEC, le cui riserve di greggio rappresentano circa il 22,4 del totale mondiale, è da ritenere che essi posseggano un ingente potenziale di riserve ancora da accertare, specie in aree marginali. È questo il caso dei Paesi ex sovietici, le cui riserve accertate di petrolio (7,8 miliardi di t, poste per il 90% nella Federazione Russa) rappresentano il 6% del totale mondiale. Particolare interesse, oltre alla regione siberiana di Tjumen, destano i bacini della Jacuzia e del Kazahstan. Le riserve petrolifere degli Stati Uniti ammontano a 3,7 miliardi di t, quelle del Canada a 765 milioni. Ai ritmi di produzione attuali, le riserve del Nordamerica sarebbero sufficienti per appena 8,6 anni. Tale rapporto riserve/produzione, così basso, potrebbe far pensare a un imminente esaurimento delle riserve; in realtà tale situazione è presente già da alcuni anni, ma il rimpiazzo delle riserve attuali è avvenuto finora in maniera costante. L'America Latina detiene il 12% delle riserve accertate, per lo più concentrate in Venezuela e Messico. In Europa le principali riserve sono quelle norvegesi del Mare del Nord (1,1 miliardi di t), seguite da quelle britanniche (547 milioni di t). Le riserve in Africa ammontano a 9,8 miliardi di t, prevalentemente localizzate in Libia, Nigeria e Algeria. Infine, nell'Estremo Oriente, il Paese più ricco sotto questo profilo è la Repubblica Popolare Cinese (3,3 miliardi di t), peraltro con vastissimi territori ancora inesplorati. Nel 2003, secondo una stima dell'OPEC, le riserve mondiali di petrolio assommano a 1137 miliardi di barili, con un consumo globale in netta ascesa. Molto spesso i giacimenti di idrocarburi sono localizzati al di fuori delle aree di consumo, motivo per cui l'organizzazione del trasporto è alla base delle attività petrolifere. Dati i progressi compiuti dalla tecnica è ormai ovunque possibile la posa di oleodotti che rappresentano il mezzo tradizionale di trasporto via terra, affiancato talora dalla ferrovia e dalla navigazione interna. Nell'insieme, però, la via marittima ha importanza preponderante, trasportando ca. la metà del greggio. La necessità di contenere i costi ha dato impulso alla costruzione di navi cisterna di grandi dimensioni (oltre 250.000 t di stazza), ma il loro impiego pone crescenti problemi sia per l'attracco ai porti sia per la sicurezza di molte rotte. Altro importante anello della catena per l'utilizzazione del petrolio è la raffinazione: gli impianti sono in gran parte ubicati presso le aree di maggior consumo (oppure presso i grandi porti, dove giungono gli idrocarburi d'importazione), nelle quali si tende a procurarsi una capacità di raffinazione sufficiente ai bisogni.

Economia: il mercato petrolifero

Il mercato del petrolio è caratterizzato da aspetti tecnici e politico-economici di carattere internazionale molto complessi, in quanto nella moderna civiltà dal petrolio dipende lo stesso meccanismo di sviluppo. Tipica, per esempio, è la concentrazione della catena produttiva e delle forze operanti sul mercato. Dal 1920 al 1950 il mercato fu dominato da sette grandi compagnie (le “sette sorelle”), alcune delle quali nate dallo scioglimento del primo trust del settore, la Standard Oil di J. D. Rockefeller, smembrato nel 1911. Esse sono la Standard Oil of New Jersey (Exxon), la Standard Oil of California, la Mobil Oil, la Shell (nata dalla fusione della Royal Dutch con l'inglese Shell Transport & Trading Co.), la British Petroleum (BP, ex Anglo-Iranian Petroleum Co.) creata per scopi strategici, la Gulf Oil e la Texas Oil Co. (Texaco), basate sui giacimenti del Texas e della Louisiana. Questa composizione del mercato, tipicamente oligopolistica, favoriva le intese come il Cartello Internazionale del Petrolio, stipulato nel 1928 fra le “sette sorelle” e formalmente sciolto nel 1943. Nonostante l'evoluzione avvenuta negli ultimi anni, il mercato del petrolio è largamente controllato da interessi statunitensi e anglo-olandesi. Contro l'azione delle grandi compagnie multinazionali, specie negli ultimi decenni, è andata crescendo l'opposizione degli Stati consumatori e soprattutto degli Stati produttori-esportatori, mentre invece Stati Uniti, Gran Bretagna, Paesi Bassi ne appoggiano la politica e, pur regolamentando la loro attività sul territorio nazionale, offrono copertura politica alle operazioni effettuate all'estero o sui mercati internazionali. Altri Paesi industriali, come la Germania, la Francia, il Giappone, l'Italia, hanno dovuto conciliare le necessità di un regolare approvvigionamento con la politica energetica nazionale, mediante un sistema di licenze e concessioni e col potenziamento di aziende petrolifere statali (ENI in Italia, El-ERAP in Francia ecc.). I Paesi produttori, escluse le grandi potenze, appartengono quasi totalmente al Terzo Mondo, al quale in passato fu applicata una politica coloniale; in seguito si diffuse il sistema della divisione a metà dei benefici della produzione (fifty-fifty). La nazionalizzazione, nel 1951, dell'Anglo-Iranian Oil Co. da parte del governo Moṣaddeq, le vicende ad essa collegate, il positivo andamento dei consumi e il progredire della decolonizzazione fecero evolvere la situazione a favore dei Paesi esportatori. Il vecchio sistema fifty-fifty venne affinato e complicato a seconda delle diverse situazioni verificatesi fra i contraenti e le reciproche posizioni di forza. Una svolta si ebbe nel 1960 con la costituzione a Baghdad dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) comprendente vari Paesi esportatori del Golfo Persico (Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar), dell'Africa (Algeria, Libia, Nigeria, Gabon), dell'Asia (Indonesia), dell'America Latina (Venezuela, Ecuador). A cominciare dalla guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973 l'OPEC attuava una politica aggressiva, utilizzando il proprio potere per decidere unilateralmente il livello del prezzo del petrolio e, successivamente, l'ammontare del prodotto. Ma il cambiamento decisivo avvenne sul piano dei rapporti con le compagnie multinazionali: i governi dei Paesi esportatori, grazie alla progressiva assunzione di partecipazioni maggioritarie e alle numerose nazionalizzazioni, giunsero a controllare direttamente, nel 1980, oltre l'87% della produzione di petrolio dell'area OPEC, contro appena il 2% di dieci anni prima. A loro volta le compagnie multinazionali si andavano sempre più specializzando nelle fasi del trasporto, della raffinazione e della commercializzazione, diversificando inoltre le proprie attività, grazie all'ancora rilevante potere finanziario, in altri settori energetici e non. Tuttavia una serie di avvenimenti internazionali (guerra dei sei giorni, aumento unilaterale dei prezzi) spinse i Paesi più industrializzati a cercare altre fonti di energia e a ridurre i consumi petroliferi; si innescò in tal modo, a partire dagli anni Ottanta, un processo di indebolimento del potere dell'OPEC, favorito anche dallo sviluppo della produzione in aree diverse da quelle dei Paesi OPEC (Messico, Mare del Nord, Alaska, ecc.). La risposta dei Paesi consumatori si tradusse anche in mutamenti strutturali dei loro modelli di sviluppo (crescita del terziario), mentre le produzioni ad alto contenuto energetico (metallurgia e soprattutto petrolchimica) sono andate sempre più spostando la loro localizzazione in aree dove il costo dell'energia è più basso. I processi di contenimento dei consumi energetici per unità di prodotto, di diminuzione della dipendenza energetica dall'estero e di sostituzione del petrolio, soprattutto se importato, grazie a un rilancio dell'uso del carbone e accelerando la costruzione di centrali elettronucleari si sono svolti con modalità e livelli di successo diversi tra i vari Paesi (espansione del carbone e dell'energia nucleare in Francia, negli Stati Uniti e in Giappone, del gas e dell'energia nucleare in Germania, del petrolio del Mare del Nord in Gran Bretagna), ma hanno rivelato una tendenza comune a un radicale risparmio energetico, limitando il consumo del petrolio ai soli usi “obbligati” all'attuale stato delle tecniche (trasporti e impieghi per la petrolchimica). Comunque alla metà degli anni Ottanta la situazione era quella di un mercato dominato nettamente dai Paesi industrializzati importatori; tale rovesciamento dei rapporti di forza tra produttori e consumatori e la ormai insanabile divisione in sede OPEC portavano a un vero e proprio crollo del prezzo del petrolio, sceso nel 1986 a 15-16 dollari al barile, un valore inimmaginabile solo l'anno precedente (26 dollari al barile). Nel 1987 il prezzo del petrolio segna un leggerissimo recupero (17,9 dollari al barile), seguito da una nuova flessione nel 1988 (14,9 dollari al barile) e da un nuovo recupero l'anno successivo (17,5 dollari al barile), in relazione alla ripresa della domanda ed agli sforzi dei Paesi OPEC di controllare la produzione mediante un sistema di quote precise in occasione degli incontri periodici dei Paesi membri. Dopo aver subito nuovi aumenti (fino a oltre 30 dollari al barile) a causa della crisi del Golfo (1990-91), negli anni successivi il prezzo del greggio è sceso ai minimi storici (addirittura al di sotto dei 10 dollari al barile), per poi risalire ai 25 dollari a barile alla fine del 1999. Inseguito alla crisi del 2001 e alla guerra in Afghanistan (2001-02) e in Iraq (2003), il prezzo al barile è iniziato a crescere fino a superare i 50 dollari. Dal punto di vista quantitativo i consumi mondiali di petrolio, dopo aver raggiunto una punta massima nel 1973 con 2800 milioni di t, subivano una progressiva flessione fino a 2724 milioni di t nel 1975, a causa degli aumenti dei prezzi del greggio e della recessione economica. Successivamente si aveva una lenta ma costante fase di recupero, interrotta sul finire del 1979 dalla seconda crisi petrolifera: i consumi di petrolio, dopo aver toccato il livello di oltre 3100 milioni di t, avevano una nuova contrazione che li porta ai 2810 milioni di t del 1985 per poi aumentare di nuovo, fino a raggiungere i 3283 milioni di t nel 1997; più in generale la dinamica dei consumi presenta andamenti differenziati tra le varie aree economiche.Dal 2001 in poi il consumo di petrolio aumentava notevolmente in Cina, India e in altri paesi asiatici e in via di sviluppo. Nel 2003, gli Stati Uniti con 20,1 miliardi di barili di greggio trasformati rappresentano più di un quarto di tutti i consumi mondiali, mentre l'Europa consuma 13,8 miliardi di barili all'anno.

Bibliografia

Per la chimica

G. Flores, Introduzione alla geologia del petrolio, Palermo, 1958; E. Dalemont, Il petrolio, Milano, 1961; J. Flandrin, J. Chapelle, Le pétrole, Parigi, 1961; A. I. Levorsen, Geology of Petroleum, San Francisco, 1967; A. Girelli, Petrolio grezzo, raffinazione, prodotti, Milano, 1969; J. M. Chevalier, La nuova strategia del petrolio, Milano, 1974; C. Garavini, A. Girelli, La raffinazione del petrolio. Chimica e tecnologia, Milano, 1991.

Per l'economia

E. Mattei, Problemi internazionali del petrolio, Roma, 1959; P. R. Odell, An Economic Geography of Oil, Londra, 1965; E. Dalemont, Le pétrole, Parigi, 1966; G. Lafevo, Il settore petrolifero nell'economia italiana, Roma, 1967; B. Cooper, T. F. Gaskell, Il petrolio del Mare del Nord, Firenze, 1968; G. Pappalardo, R. Pezzoli, Il petrolio e l'Europa: strategie di approvvigionamento, Bologna, 1971; M. A. Adelmann, The World Petroleum Market, Baltimora-Londra, 1972; J. Chapelle, Géographie économique du pétrole, Parigi, 1972; A. Clò, Interdipendenza e instabilità dei mercati oligopolistici: il caso del petrolio, Parma, 1990.

Trovi questo termine anche in:

Quiz

Mettiti alla prova!

Testa la tua conoscenza e quella dei tuoi amici.

Fai il quiz ora