Grècia (civiltà antica)

Indice

Storia: generalità

Virtualmente la storia della Grecia, o meglio la storia dei Greci, può dividersi in tre epoche: età arcaica, dai secoli bui del Medioevo Ellenico fino all'epoca delle guerre persiane (dai sec. XI-IX al 490-479 a. C.); età classica, che, successiva alle guerre persiane, termina convenzionalmente con la battaglia di Cheronea, che segna il trionfo dell'egemonia macedone (479-338 a. C.); età ellenistica, dall'asservimento alla Macedonia alla conquista romana (338-146 a. C.). La prima, in cui la polis non è ancora divenuta l'unità politica fondamentale del mondo greco, si contraddistingue nel potenziamento del vincolo dell'anfizionia come elemento di coesione fra le varie stirpi elleniche; l'età classica è invece dominata dall'ideale della polis, in cui s'identifica storia culturale e politica dei Greci; e infine l'età ellenistica, caratterizzata dall'affermazione in tutto il mondo greco degli Stati territoriali a base federale.

Storia: l'età arcaica

Dopo il tramonto degli Stati micenei, la Grecia fra i sec. XI e IX a. C. subì un decadimento violento, investita da una radicale crisi di trasformazione che convenzionalmente va sotto il nome di Medioevo Ellenico. In questo periodo – in cui si assiste al succedersi della civiltà del Ferro a quella del Bronzo – le rocche micenee presentano segni di distruzione violenta, decaddero le arti, talune città cambiarono nome; commerci e attività artigianali ristagnarono e l'economia tornò alla terra. Nella città greca, ancora retta a monarchia, s'instaurò ben presto un braccio di ferro tra re e aristocrazie di sangue, destinato a risolversi a favore di queste ultime; nei sec. VIII-VII prevalsero governi aristocratici, per lo più succedutisi senza azioni di forza alle antiche monarchie: al loro interno si manifestò una lotta di classe, indice della formazione di un ceto “borghese” che a lungo andare determinò il loro tramonto. Il nuovo ceto era espressione della profonda rivoluzione economica che ha caratterizzato il sec. VII e che schematicamente può riassumersi in tre momenti: introduzione della moneta, potenziamento di grandi imprese coloniali in terre lontane (che aprirono al commercio greco il controllo delle principali rotte mediterranee), nascita di un'economia mercantile "Le cartine storiche della Grecia arcaica (sec. IX a. C.) e della grande colonizzazione (sec. VIII-VI a. C.) sono a pag. 220 dell’11° volume." . "Per la Grecia arcaica e la grande colonizzazione vedi cartine al lemma del 10° volume." Si formava così, a vantaggio di un ceto “borghese”, una ricchezza mobile che si opponeva alla ricchezza fondiaria della classe aristocratica: il potere dei nobili veniva a essere sempre più minato e sorsero le tirannidi, appoggiate alle nuove borghesie e al popolo, che, nel rotto equilibrio sociale, alzava la testa per affermare i suoi diritti e richiedere leggi scritte. I tiranni, nel sec. VI ancora al potere nel mondo greco, tesero ad affermare in campo internazionale il prestigio della loro città e si circondarono di corti di artisti e poeti. Tutto ciò contribuì inevitabilmente a rendere ereditario l'istituto della tirannide: famose le signorie degli Ortagoridi a Sicione, dei Cipselidi a Corinto, dei Pisistratidi ad Atene. Il loro crollo, a favore di nuovi governi aristocratici, oppure – per la prima volta – di governi democratici, coincise grosso modo con l'avvento dell'età classica. Sparta e Atene, due poleis successivamente destinate a dominare la scena politica del mondo greco, erano emerse con particolare prestigio già in età arcaica ed erano espressione di due antitetiche concezioni politico-istituzionali. Sparta era indubbiamente la polis militarmente più potente: a capo della Lega Peloponnesiaca era venuta gradatamente asservendo i paesi vicini, i cui abitanti costituivano la classe servile della sua cittadinanza (gli iloti). Il potere era in mano alla ristrettissima classe degli Spartiati, cittadini-soldati che si consacravano esclusivamente al servizio dello Stato: il governo era retto a diarchia, ma sostanzialmente era sempre più controllato da una ristretta classe aristocratica, tutta tesa a salvaguardare lo Stato da qualsiasi forma di innovazione. Atene, al contrario, si evolse verso ordinamenti moderatamente democratici già nel corso del sec. VI. Tappe fondamentali di questa evoluzione furono, agli inizi e alla fine del secolo, la costituzione soloniana (595-594 o 594-593) e quella clistenica (508): nel mezzo ci fu la parentesi della tirannia dei Pisistratidi, che fu in fondo una tappa obbligata della marcia dei ceti popolari verso la conquista delle istituzioni democratiche.

Storia: l'età classica

L'età classica si aprì sulla scena politica internazionale con le guerre persiane e con il decisivo apporto di Atene per la vittoria sul barbaro. Le prime avvisaglie del conflitto si ebbero in Asia Minore, dove i Persiani, nel 494, domarono nel sangue una rivolta delle città della Ionia: successivamente la guerra, in due riprese, venne portata sul suolo ellenico. Nel 490 Dario, dopo aver distrutto Eretria, sbarcò la sua armata in Attica, ma fu fermato dagli Ateniesi nella piana di Maratona. Nel 480 Serse coinvolse in un unico conflitto tutte le città della Grecia, le quali – salvo poche eccezioni – resistettero in armi, unite in una grande lega panellenica capitanata da Sparta. Sconfitti alle Termopili, i Greci riuscirono a debellare il nemico a Salamina e a Platea. La battaglia di Salamina segnò la tappa decisiva della vittoria: il successo fu merito esclusivo di Atene e della politica di armamenti navali voluta da Temistocle. Da quel momento Atene poté sostenere a buon diritto di essersi opposta da sola al barbaro per la libertà di tutta la Grecia e poté sfruttare il prestigio conquistato per sviluppare una politica che, nel cinquantennio compreso tra il conflitto persiano e la guerra del Peloponneso, determinò l'ascesa della città. In questo periodo, che si definisce con il nome di pentecontetia (478-431), Atene raggiunse il massimo della sua floridezza e poté ideologicamente propagandare un duplice ideale di lotta: contro la Persia, in nome dei principi di libertà, contro Sparta, in nome dei principi di democrazia. Fu in quel periodo infatti che Atene, grazie ad alcuni grandi uomini come Efialte e Pericle, elaborò una costituzione democratica a carattere diretto che rimase modello di perfezione in tutti i tempi: per essa sostanzialmente qualsiasi cittadino – anche il meno abbiente – poteva raggiungere le massime cariche pubbliche e teoricamente, almeno una volta nella sua vita, aspirare alla presidenza dello Stato per la durata di ventiquattro ore. Contemporaneamente Atene riunì in un'unica confederazione difensiva (la Lega Delio-Attica) le principali poleis dell'Egeo e della costa ionica, elaborando uno strumento bellico di grande efficacia e di cui essa sola deteneva il comando. La confederazione, nata in funzione della lotta contro il barbaro, divenne però ben presto strumento di potenza e di aggressione imperialistica da parte della città dominante, che tese sempre più a considerare come sudditi i propri alleati. All'apice del fulgore Atene raggiunse al suo interno la massima espressione di un assetto democratico, mentre all'esterno svolse una politica imperialistica e antidemocratica nei confronti di popoli fratelli; questa contraddizione segnò i limiti della sua potenza; lo squilibrio sempre più accentuato fra cittadini e alleati-sudditi fu la causa prima della sua decadenza. Proprio il contrasto fra Atene e gli alleati offrì infatti a Sparta il destro per l'urto frontale e per trionfare sulla rivale. Si giunse così alla guerra del Peloponneso (431-404), che logorò per una trentina d'anni le due principali città della Grecia e terminò con la vittoria di Sparta: Atene fu vittima delle proprie contraddizioni, ma anche, nell'ora del pericolo, dell'inevitabile degenerazione demagogica delle sue istituzioni democratiche "La cartina storica della Grecia classica è a pag. 221 dell'11° volume." . "Per la Grecia classica vedi cartina al lemma del 10° volume." I decenni seguenti furono contraddistinti da un'effimera egemonia spartana sulla Grecia; ma l'imposizione di presidi spartani e di governi oligarchici sollevò presto contro Sparta le principali città greche. Atene, rialzatasi dalla prostrazione seguita alla guerra del Peloponneso, si oppose ancora a Sparta, con Tebe, Argo e Corinto, nella guerra corinzia (395-386). Dopo la pace generale imposta dal re dei Persiani alla Grecia sotto il controllo di Sparta (Pace di Antalcida, 386), Atene riuscì a ricostituire, su nuove basi, la Lega navale (379), ma non trovò più energie interne e spazio politico esterno per riconquistare quel ruolo di potenza egemone che, nel decennio 371-362, fu assunto da Tebe. Questa, con Pelopida con Epaminonda, riuscì a portare le sue armi vittoriose fin nel cuore della Tessaglia e del Peloponneso, provocando una tale brusca rottura di equilibrio internazionale da spingere addirittura Atene a un riavvicinamento a Sparta. Ma l'egemonia tebana fu unicamente legata al successo militare e al genio politico dei suoi due grandi capi, morti i quali la città non riuscì infatti a sfruttare e a imporre il nuovo ruolo di grande potenza. Nella crisi politica che ormai agitava le principali città della Grecia si faceva sempre più strada l'idea di costituire una confederazione panellenica a carattere supercittadino. I Greci erano ormai giunti all'antitesi della polis, proiettati verso un ideale irraggiungibile senza rinunziare alla concezione municipalistica della città-Stato. Ma proprio questa istanza unitaria, questa formula propagandistica vanamente agitata dalla pubblicistica contemporanea, offrì il destro alla Macedonia di intromettersi con sempre maggiore insistenza nelle questioni greche, fino a sopraffare in armi, nel 338, l'ultima lega della Grecia delle poleis nella piana di Cheronea. L'ideale panellenico si realizzò formalmente nella Lega di Corinto presieduta da Filippo II, offrendo però in olocausto allo straniero l'autonomia municipale e la libertà nazionale.

Storia: l'età ellenistica

L'età ellenistica si aprì con le conquiste di Alessandro Magno, che, in nome della grecità, portò le armi macedoni fino all'Indo, e fu caratterizzata dal diffondersi, a seguito delle imprese del Macedone, della cultura greca in tutto l'Oriente mediterraneo. Ciò avvenne in un'età in cui le poleis della Grecia erano irrimediabilmente asservite allo straniero: per cui in fondo la storia politica del mondo greco in questo periodo non fu che un'appendice della più vasta storia dei monarcati ellenistici (del riflesso che al mondo ellenico derivò dai loro equilibri di potenza e dai loro appetiti egemonici). Comunque ancora in quell'età la Grecia delle poleis tentò più volte, seppur inutilmente, di ribellarsi all'asservimento straniero. Le due pagine più gloriose di queste lotte furono segnate dalla guerra lamiaca (323-322) e dalla guerra cremonidea (267), ma ormai sia Atene sia Sparta non erano che fantasmi della loro antica potenza. Atene ospitava presidi macedoni dislocati in varie parti del suo territorio e sopravviveva come capitale intellettuale solo in nome del grande passato. Sparta, che fino al 222 rimase indipendente, pagò questo privilegio con il completo isolamento e fu per giunta agitata da lotte di classe che sconvolsero gli atavici equilibri del suo assetto istituzionale. Di contro al tramonto delle poleis, si potenziarono, nel corso del sec. III, organismi federali, quali la Lega Achea e la Lega Etolicadestinati a dominare, pur fra reciproci, cruenti contrasti, la scena politica greca fino alla conquista romana. Roma, come la Macedonia, trovò giustificazione al suo operato nel presupposto di imporre una pacificazione generale e intervenne risolutamente con la forza dinanzi alle sempre risorgenti rivalità municipalistiche. La distruzione di Corinto a opera dei Romani (146) chiuse così la storia della Grecia dell'età ellenistica, come la distruzione di Tebe (335) a opera di Alessandro Magno l'aveva virtualmente aperta: panellenismo macedone e pace romana, al di là di qualsiasi finzione diplomatica, saranno per sempre legati al ricordo di queste barbarie nell'animo dei vinti.

Storia: la dominazione romana

Dopo il 146 a. C. Roma rispettò le autonomie locali ma tolse ogni valore politico alle leghe, che spesso furono sciolte; i territori conquistati vennero attribuiti alla provincia di Macedonia (Macedonia et Achaia). Secondo Cicerone passò sotto il dominio romano (con l'imposizione del tributo) solo quella parte della Grecia che aveva combattuto nella guerra achea (il Peloponneso, tranne la Laconia, la Megaride, la Locrideabbrev val="orient.">orientale, la Focide, la Beozia, Calcide), mentre gli altri territori (fra i quali Atene e l'Attica) rimasero indipendenti. All'ideale greco-classico di libertà subentrò sempre più il concetto di autonomia, inteso dai Romani come un'indipendenza non disgiunta da una serie di obbligazioni (tributo, prestazioni di manodopera, ecc.) cui erano tenuti non i cittadini direttamente, ma le poleis che ne erano anche garanti. Le città rimaste libere godevano invece dell'immunità ed erano considerate da Roma liberae et amicae, con un rapporto di collaborazione che venne spesso accentuato da uno spontaneo e graduale adeguamento all'egemonia romana. Vano fu il tentativo di riconquistare la completa indipendenza durante la guerra tra Roma e Mitridate VI che, dopo aver conquistato l'Asia Minore (88 a. C.), si era presentato come sostenitore della grecità e si era alleato con Atene. La guerra causò l'intervento vittorioso di Silla, che conquistò Atene dopo un lungo assedio (86 a. C.). Più tardi le guerre civili tra Pompeo e Cesare e, in seguito, tra i triumviri e i cesaricidi e tra Ottaviano e Antonio ebbero sul suolo greco le loro battaglie risolutive (Farsalo, Filippi, Azio). Costituita nel 27 a. C. come provincia senatoria a sé stante con il nome di provincia d'Acaia, la Grecia ebbe una momentanea indipendenza dal 67 d. C., quando Nerone, da Corinto, proclamò la piena libertà dei Greci, fino a poco prima del 74 quando Vespasiano ridusse nuovamente la Grecia a provincia senatoria. Le condizioni generali del Paese furono abbastanza favorevoli nei primi due secoli dell'impero: oltre alla fondazione di colonie, fra le quali Nicopoli (Azio), da parte di Augusto, gli imperatori dettero grande impulso alle opere pubbliche delle principali città, ma questi interventi non frenarono il processo di decadenza, specie delle aree extraurbane, che fu aggravato dalle invasioni barbariche. Nel 170 l'invasione dei Costoboci giunse a devastare Eleusi; nel sec. III Alamanni e Goti devastarono molte città fra cui Corinto, Atene e Sparta, ma furono poi respinti e sconfitti da Gallieno in Tracia. Indipendentemente dalla disgregazione causata dalle invasioni, l'autonomia delle città greche era già spenta nel corso del sec. III; così pure decaduta era la vita religiosa e le stesse tradizioni: gli ultimi giochi olimpici furono celebrati nel 393. Due episodi fondamentali segnano la fine della continuità culturale greca: la proibizione di Teodosio (379-395) di celebrare culti pagani e il divieto di Giustiniano di esercitare l'insegnamento della filosofia.

Diritto

Per diritto greco si intende il complesso degli ordinamenti giuridici vigenti nel mondo greco (poleis) e greco-orientale (colonie greche) dal I millennio a. C. fino alla compilazione giustinianea. Nonostante il marcato particolarismo che ha caratterizzato l'esperienza giuridica greca, sembra si possa parlare, anziché di singoli diritti greci, di un diritto greco, costituito dai principi fondamentali presenti nei vari ordinamenti cittadini, i quali formano un substrato comune (la posizione giuridica degli schiavi, il diritto ereditario, l'istituto della vendita e altri), che sopravvive al venir meno dell'indipendenza delle città-Stato e al loro assoggettamento ai sovrani ellenistici prima e a Roma poi. Il fenomeno concerne, evidentemente, non gli istituti di diritto pubblico, che scomparvero con il venir meno dell'indipendenza, bensì il diritto privato nel suo complesso, la cui sostanziale omogeneità esercitò più tardi un'influenza non trascurabile nell'evoluzione di molti istituti giuridici romani. Particolare fu la situazione dell'Egitto, dove il principio della personalità del diritto rese possibile la coesistenza di due ordinamenti giuridici diversi e, solo limitatamente ad alcuni istituti, anche la formazione di un diritto greco-egizio. Lo studio del diritto greco concerne prevalentemente il diritto di Atene, sia per la supremazia conseguita dalla città in campo politico e culturale, sia per la maggior quantità di fonti da utilizzare per la ricostruzione del relativo ordinamento. La documentazione più consistente è rappresentata dall'opera degli oratori (Lisia, Iseo, Demostene): per esempio lo studio del prestito a cambio marittimo, istituto di larga applicazione nei rapporti commerciali fra città greche, viene quasi esclusivamente condotto sulla scorta dei dati forniti da una serie di orazioni di Demostene. Caratteristiche del diritto greco sono la coesistenza e la compenetrazione fra vari ordinamenti giuridici, in quanto al diritto della polis si affiancano: un diritto sacrale, indipendente e preesistente al primo; un diritto familiare, anch'esso preesistente; un complesso di rapporti consuetudinari, nonché altre istituzioni risalenti nel tempo, quali le fratrie. Questi ordinamenti, interferenti tra loro, disciplinano rapporti non presi in considerazione dal diritto della polis, tra soggetti che non sono cittadini: donne, minori, schiavi. La polis interviene con proprie norme soltanto nell'ipotesi di lacune o d'impossibilità di funzionamento di tali ordinamenti. Così, per esempio, in caso di omicidio, la polis interviene stabilendo che, dove manchi un soggetto legittimato ad agire secondo il diritto familiare, la persecuzione dell'omicida spetti ai membri della fratria. Altra caratteristica dell'esperienza giuridica greca è la mancanza di una scienza del diritto, di una qualsiasi elaborazione sistematica, ma ciò non significa mancanza di una coscienza giuridica; questa, al contrario, affiora nella letteratura greca e investe tutte le manifestazioni della vita del popolo greco. Nel diritto greco il cittadino aveva in sé la capacità potenziale a ogni diritto, ma essa diventava effettiva solo al momento in cui egli, al compimento del suo diciottesimo anno di età, si trasformava da semplice abitante di una città ('astós) in polítes e partecipava alle assemblee cittadine. Una volta immesso nella vita pubblica, il nuovo cittadino godeva della pienezza di diritti riconosciuti ai suoi pari: diritto di possesso d'immobili, a contrarre legittimo matrimonio, a partecipare alle assemblee, ai giudizi e alle magistrature e di conseguenza il diritto, teoricamente uguale per tutti, ad accedere e a percorrere tutte le pubbliche carriere. Contrasta invece il trattamento riservato alla donna, che rimase sempre succuba al kúrios (o pater familias) ed ebbe sempre limitato il proprio ambito d'azione attorno al focolare domestico; quasi inesistente fu pure la capacità giuridica delle larghe categorie d'indigeni, ai quali era negata persino la proprietà della terra, riducendoli praticamente nell'anonimato di poveri servi della gleba, e dei meteci (stranieri residenti), costretti a difendere con mezzi propri la loro proprietà mobiliare per mancanza di diritti effettivi.

Religione: la matrice mediterranea e quella indoeuropea

Gli studi sulla religione greca sono generalmente orientati ad attribuirle due matrici fondamentali: la mediterranea e l'indeuropea. La prima, considerata geneticamente affine a quelle delle religioni dell'ambiente mediterraneo, viene connotata come una formazione locale, di carattere agrario, imperniata sul culto di una “grande dea”, la Terra Madre. La seconda, attribuita agli invasori di lingua indeuropea, portatori di una civiltà nomadico-pastorale, è caratterizzata, dal punto di vista religioso, dal culto di un Essere supremo celeste, il Cielo Padre. Su questa linea interpretativa, l'originaria Terra Madre è stata riconosciuta soprattutto in due figure della religione greca storica: Gaia (Ge, Terra), la madre primordiale protagonista dei miti cosmogonici, e Demetra (Dēmetēr, Terra Madre), la dea dell'agricoltura. Il Cielo Padre è stato facilmente riconosciuto nel dio Zeus (Zeus pater, Cielo diurno padre), sovrano degli dei e degli uomini. Questo schema, se rispondeva in qualche modo a un indirizzo di studi tendente a stabilire le origini remote dei fatti religiosi, per trovare in quelle la spiegazione storica dei fatti stessi, in verità non serve molto per migliorare la nostra comprensione della religione greca. Non spiega, per esempio, perché l'unica Terra Madre si sarebbe scissa in almeno due figure, Gaia e Demetra. E si aggiunga che, nel tentativo di risalire a ogni costo all'originaria “grande dea” mediterranea, sono state interpretate quasi come sue ipostasi anche altre divinità femminili della grecità, quali Rea, Afrodite e persino Artemide, che non è né “madre” né “agraria”. Per quanto riguarda Zeus poi, la sua derivazione da un Essere supremo celeste indeuropeo (Dyaus, da cui greco Zeus, latino Iu-piter, sanscrito Dyaus-pitā, germanico Tyr, ecc.) non spiega la sua posizione di sovrano degli dei che non trova riscontro né nel Dyauspitā vedico, né nel Tyr germanico, né in altri (escluso lo Iuppiter romano per il quale non è da escludere un influsso greco). Lo schema-ipotesi dell'incontro tra una religione della Terra Madre con una religione del Cielo Padre, in definitiva, non spiega la formazione politeistica greca per la quale Terra Madre e Cielo Padre non potrebbero in alcun modo monopolizzare la realtà. La realtà, invece, come in ogni altro politeismo, era rappresentata e organizzata da una molteplicità di dei, posti in varia relazione tra loro e raccolti in un consesso (pantheon) che dava universalità e sistematicità alla religione. Se si tiene presente tutto ciò si ridimensiona automaticamente il valore fin qui attribuito alle componenti originarie, o “matrici”, della religione greca e, al contempo, non si perde di vista il carattere etnico di questa religione; vale a dire: non si dimentica che essa è una religione che nasce e vive in funzione della cultura greca globalmente intesa, e non per eventuali contenuti autonomi trascendenti la grecità, o comunque sorti in funzione di altre culture (sia quelle dell'ambiente mediterraneo sia quelle di altri popoli di lingua indeuropea). Fissati questi limiti, si può anche accettare una prospettiva storica che faccia della civiltà greca una formazione sorta per influsso di civiltà medio-orientali (o mediterranee di derivazione medio-orientale) su popolazioni di lingua indeuropea stanziatesi nell'Ellade: quasi una risposta di tali popolazioni agli stimoli derivati dal contatto con culture giudicate superiori alla propria. In un processo di acculturazione così delimitato, diventa anche accettabile l'idea di un politeismo greco che si formi su modelli politeistici di derivazione mesopotamica, ma non come una copia, bensì come un prodotto originale realizzato a partire da elementi pregreci (o non-greci) o prepoliteistici (greci) in un'evoluzione che segue di pari passo l'evoluzione della civiltà greca, dalla fase “micenea” (II millennio a. C.) all'epoca della cosiddetta “invasione dorica” (inizio del I millennio), che prelude a quella formazione culturale sostanzialmente nuova che si svolse appieno nella grecità classica. In questa formazione, dunque, si includerà anche la religione, non come un retaggio di epoche passate, ma come una creazione originale. E proprio dal confronto con le epoche passate – variamente documentate dalle religioni medio-orientali e mediterranee, o di popolazioni di lingua indeuropea – emerge viva e incontestabile la sua originalità.

Religione: ethnos e mito

L'etnicità della religione greca, ossia la sua immanenza all'ethnos o alla nazione greca, porta a considerare non solo la frattura tra il pregreco e la grecità storica, ma anche la sua frammentazione in funzione della divisione politico-territoriale dei Greci. Così che, a rigore, si sarebbe portati a parlare di tante religioni quante furono le città-Stato. Il che ci darebbe conto della funzione civica di queste “religioni” ciascuna delle quali ha come fine l'edificazione della polis che ne è portatrice. E tuttavia è corretto parlare di una religione greca, così come si parla di una civiltà greca, per definire un'unità culturale panellenica da cui traggono fondamento e giustificazione le stesse città-Stato con le loro particolari tradizioni e istituzioni religiose. Per intendere ciò in chiave specificamente religiosa si può dire: l'uomo greco si inserisce sacralmente in un sistema di credenze e di culti che procedeva, senza un reale distacco, dall'ambito familiare e gentilizio (a livello di quelle comunità claniche che erano dette fratrie), fino all'ambito politico-sociale della polis, e quindi giungeva, tramite la polis, a organismi superordinati (sul tipo delle anfizionie, leghe tra città vicine) e, via via, ai grandi culti panellenici (Olimpiadi, oracolo delfico, misteri eleusini, ecc.), in cui ciascuno si riconosceva come “greco”, oltre che come cittadino di una certa polis, membro di una certa fratria e di una certa famiglia, figlio di un certo padre. Ciò si comprende meglio se si pone mente al fatto che in Grecia, come in altre civiltà arcaiche, l'impegno religioso si esplicava soprattutto nell'esecuzione di culti. Sul piano più propriamente familiare e gentilizio si svolgevano i culti del ciclo di vita individuale (riti di nascita, nuziali, funerari), i culti domestici, di antenati, ecc., variamente adattati al culto pubblico della polis. Sul piano civico si svolgeva ogni culto destinato all'edificazione sacrale della polis: qui si esprimeva appieno il sistema politeistico che faceva della città un piccolo mondo a immagine del grande mondo (cosmo) governato dagli dei. Questi erano raggruppati nel numero canonico di dodici, con variazioni da città a città, tranne che per una decina di divinità di cui nessuna città sembrava poter fare a meno, per esprimere la propria cosmologia. La tradizione ionica, risalente almeno al sec. VI a. C., elencava i seguenti dei: Zeus (il sovrano), Era (sua sposa), Posidone, Demetra, Apollo, Artemide, Ares, Afrodite, Ermete, Atena, Efesto, Estia. La varietà delle tradizioni si spiega, oltre che con la loro rispondenza alle realtà particolari delle singole città-Stato, con la mancanza di una sistemazione teologica di tipo dogmatico-sacerdotale. L'interpretazione, o la “rivelazione”, delle figure divine era demandata ai poeti, ai quali si attribuiva tanta autorità in materia che le prime critiche filosofiche alle credenze religiose si rivolsero propriocontro i poeti, accusati di averle inventate e diffuse. Un riconoscimento, non “critico” ma “storico”, della funzione del poeta è quello celeberrimo di Erodoto che attribuisce a Omero e a Esiodo la ricognizione e la denominazione degli dei greci. Era come se i poeti, narrando miti, svelassero la realtà divina del mondo. Il che spiega l'importanza del mito e dei suoi modi di espressione in tutta la cultura greca. La realtà divina del mondo era intesa come un cosmo, un ordine universale, a cui si opponeva dialetticamente un anticosmo (caos), o una non-realtà. Ma anche la non-realtà era rappresentata da figure divine, in perfetta coerenza con la mentalità politeistica greca. Ade, fratello di Zeus inteso quasi come uno Zeus negativo, era il dio sovrano della non-realtà, come Zeus lo era della realtà: regnava sull'“irreale” mondo dei morti che i Greci concepivano in antitesi al “reale” mondo dei vivi. Dio della non-realtà – in quanto esprimeva un “divenire”, contrapposto dialetticamente all'“essere” – era anche Dioniso. E lo erano tutte quelle divinità minori (satiri, ninfe, ecc.) che agivano nel non-abitato (selve, monti, ecc.) o extra-urbano, concepito come caotico rispetto al microcosmo delimitato dalla città. La qualificazione negativa del caotico (o “irreale”) diventava positiva quando venivano messi in crisi i valori del cosmico: erano crisi istituzionalizzate, come le feste di fine d'anno che realizzavano una temporanea sospensione dell'ordine per procedere quasi a un rinnovamento del mondo; oppure occasionali, dovute a calamità o a iniziative (fondazioni, immissione dei giovani nella società degli adulti, ecc.) che trasformavano in qualche modo l'ordine costituito. Ma poteva trattarsi anche di crisi inerenti alla condizione umana che dunque potevano risolversi soltanto con un rovesciamento di valori che, significando un rifiuto della “realtà”, facesse diventare negativo il cosmico e positivo il caotico: si avevano allora formazioni religiose mistiche in permanente opposizione alla religione civica, in quanto edificatrice di un universo da rifiutare per poter accedere a una salvezza extra-mondana. L'uomo greco trovava nel sistema politeistico una garanzia alla sua presenza in un mondo ordinato, in cui ciascuno aveva il proprio posto e chi superava i propri limiti peccava di hybris (superbia, tracotanza: il peccato per antonomasia nella cultura greca). Ma il sistema, che dava la certezza di una vita “civile”, condannava anche all'infelice condizione di “mortali”, inesorabilmente distinta dalla felice condizione degli dei “immortali”. Per evadere da questa condizione si doveva rinunciare al sistema e a tutti i vantaggi civico-politici che esso offriva – e questo fu soprattutto facile per le donne e per le classi che, come le donne, erano escluse dalla vita politica – per rifugiarsi nell'anti-sistema, ossia nel campo d'azione delle divinità dell'irreale e del caotico. Di qui ebbero origine quelle formazioni mistiche che fecero capo a Persefone, la regina dei morti, sposa di Ade, e a Dioniso, il dio delle trasformazioni, invocato contro un'“immutabilità” indesiderata. Il culto mistico di Persefone, associata alla madre Demetra, si esplicò nei misteri di Eleusi, da dove si diffuse per tutta la grecità e oltre. Il culto mistico di Dioniso si espresse soprattutto in quelle formazioni che vennero chiamate orfiche dal mitico poeta Orfeo che ne avrebbe rivelato i principi fondamentali.

Religione: l'eroe culturale e il culto degli antenati

Una via non mistica per sfuggire alle strette del sistema potrebbe essere considerata la concezione dell'eroicità, un'elaborazione tipicamente greca di retaggi prepoliteistici, quali la nozione dell'eroe culturale e il culto degli antenati. L'eroe greco è un personaggio mitico che proprio per mezzo della morte, ossia per mezzo del marchio stesso della condizione umana, raggiungeva una condizione sovrumana caratterizzata da poteri divinatori, guaritori e genericamente salvifici. L'eroizzazione, oltre che un concetto, fu anche una pratica rituale riservata a personaggi storici che parvero ricalcare le imprese degli eroi mitici (guerrieri, agonisti, poeti, fondatori, ecc.). Le fonti del comportamento religioso greco, sia a livello civico sia a livello individuale e mistico, furono soprattutto i santuari, di cui si ricordano quelli che ebbero importanza panellenica: i santuari di Olimpia e di Dodona che, sia pure diversamente (il primo con gli agoni e il secondo con un culto oracolare), imposero la sovranità di Zeus; il santuario di Delfi che con i suoi responsi oracolari esercitò un grandissimo influsso nella costituzione di una religione panellenica; il santuario di Eleusi che suggerì ai Greci le formule di una soteriologia a carattere mistico.

Filosofia: le origini e il naturalismo

La filosofia greca nacque a contatto con l'Oriente. Mitici teologi quali Orfeo e Lino, autori di teogonie e di cosmogonie mentre ancora la religione e il mistero non erano ben distinti dalla pura speculazione critica, furono tra i primi pensatori originari della Ionia e furono influenzati dal misticismo degli orientali. In poeti quali Omero ed Esiodo la mitologia assunse poi contorni più netti e lo sguardo si volse più precisamente al mondo e all'agire umano. Ma di filosofia vera e propria si può parlare soltanto con l'emergere di un atteggiamento critico nei confronti della tradizione (sia essa o meno derivata dall'Oriente) e con l'istituzione di un tipo di ricerca disinteressata che trova in se medesima la propria norma: questo atteggiamento si manifestò chiaramente appunto nella Grecia del sec. VII a. C. e giustamente i Greci sono considerati “inventori della filosofia”. Il primo problema che i filosofi della Grecia si posero fu quello della natura e origine del mondo, affrontato appunto a partire dal sec. VII dagli Ionici, in modi e con soluzioni diversi. Primo nome è quello di Talete di Mileto, scienziato e filosofo, che indicò nell'acqua l'elemento originario di tutte le cose. Pur nell'ambito ancora naturalistico della ricerca si ebbe un tentativo del pensiero di unificare la varietà del reale, di scoprire l'inizio del suo divenire mutevole. Così Anassimandro (sec. VI), autore di un poema Della natura, come molti altri filosofi, indicò nell'infinito, nell'indeterminato (ápeiron), il principio da cui tutto nasce e in cui tutto si dissolve. Per Anassimene, anch'egli di Mileto e della stessa scuola, questo è invece l'aria, mentre per Eraclito di Efeso, verso il 500, è il fuoco. Ma Eraclito approfondiva già anche altri problemi e probabilmente il fuoco era per lui solo un simbolo del flusso incessante del tutto, in cui si armonizzava la guerra dei contrari: la vita era un'inseparabile concordia discorde di opposizioni e la realtà era divenire. All'opposto di Eraclito si pose un secondo, vigoroso genio filosofico di quell'età, Parmenide, fondatore della scuola eleatica nella Magna Grecia. Per Parmenide, la realtà si risolve nell'Essere, immutabile oggetto del pensiero, organo della verità che con l'Essere coincide, e il divenire è mera apparenza, oggetto di opinione instabile e ingannevole. Parallelamente si svolgeva intanto, appartata, la speculazione di Pitagora di Samo (sec. VI) e della sua setta segreta a Crotone prima e poi, con Archita, a Taranto. Per i pitagorici “la verità è numero”, tutta la realtà si può ridurre a numeri ossia in rapporti che si possono calcolare. Eraclito e Parmenide innalzarono la speculazione greca a un livello squisitamente metafisico e chiaramente posero problemi, come quello del rapporto fra l'essere delle cose e il loro divenire, opinione e scienza, che a lungo hanno tormentato la speculazione occidentale; i pitagorici invece, con il sottolineare la struttura matematica del reale, diedero all'Occidente un'altra fondamentale intuizione, variamente ripresa e trasmessa, dal cui grembo doveva nascere la scienza della natura modernamente intesa. Un primo sforzo di risolvere l'antinomia fra essere e divenire si ritrova nei cosiddetti filosofi della natura o “fisici” posteriori. Così Empedocle (metà del sec. V) considerò le cose mutevoli e contingenti, risultanti dalla mescolanza dei quattro elementi o “radici” immutabili ed eterni: fuoco, aria, acqua, terra. Così la scuola di Abdera, con Leucippo e Democrito (seconda metà del sec. V), considerò le cose, che i sensi ci attestano nella loro varietà mutevoli, risultanti dall'unione e dalla separazione degli “atomi”, infiniti di numero e solo quantitativamente diversi fra di loro, che si muovono costantemente nel vuoto combinandosi secondo leggi meccaniche. Così infine Anassagora di Clazomene, vissuto ad Atene nell'età periclea, spiegò la realtà a partire da “particelle similari” qualitativamente diverse sempre presenti in ogni cosa sebbene in proporzioni differenti (donde appunto la diversità e mutevolezza delle cose stesse): egli ancora chiaramente pose il problema dell'ordine della natura cercandone il principio in una mente (Nous) che la anima.

Filosofia: dall'universo all'uomo

Dall'universo all'uomo: questa la tappa ulteriore del pensiero greco durante il sec. V, che dal naturalismo lo porta all'umanesimo. Atene, la sua società fervida e articolata, gli splendori e i drammi della sua storia ne sono il quadro. Prima i sofisti (Gorgia, Protagora, Prodico, Ippia, ecc.) posero in discussione la validità del pensiero e della conoscenza, relativizzarono tutto, e con questa critica affinarono il mezzo di convinzione delle opinioni: il discorso. L'uomo e il suo comportamento etico-politico costituirono il centro della speculazione socratica. Socrate (469-399) mise tutto in discussione come i sofisti, ma al fine di giungere a una verità universalmente valida che al tempo stesso intendeva come principio della vita “giusta”: per lui la conoscenza della verità e del bene si identifica con la pratica della virtù che da essa discende. Scambiato per un critico distruttivo e sospettato di turbamenti politici, Socrate fu condannato a morte dagli Ateniesi nel 399; la sua eredità passò a uno dei discepoli, Platone (428-347), il massimo filosofo greco.

Filosofia: Platone e Aristotele

Ateniese come Socrate, aprì una scuola nel ginnasio dell'eroe Accademo (Accademia) ed espose le sue teorie in splendidi dialoghi. Il grande tema della speculazione di Platone, che ha cercato di dare un fondamento metafisico alla speculazione morale di Socrate, è quello dell'essenza delle cose, le “idee”, che costituiscono il regno dell'essere e della verità. Esse trascendono le cose imperfette terrene, ma sono anche causa di quest'ultime e principi ispiratori della nostra attività come di quella del demiurgo, il divino artefice che plasma la materia (talvolta da Platone assunto come intermedio fra le idee stesse e la materia). La natura dell'anima umana è di essere principio di vita, anch'essa eterna e conoscitiva delle idee, che ha contemplato nella vita anteriore e che ora, incarnata nel corpo, a contatto con il mondo sensibile ricorda. Al mondo delle idee l'uomo attinge la norma di vita che gli ispira la giustizia, o armonia interiore tra la ragione e la passionalità, e la concezione dello Stato ideale, fondato sulla giustizia, come armonia fra le varie classi che lo compongono nel perseguimento della virtù che a ognuna di esse è specifica in vista del bene comune. In un piano diverso si è posto Aristotele (384-322), già discepolo di Platone, poi fondatore di una scuola sua nel Liceo: la Scuola peripatetica (si discuteva “passeggiando”). L'aspetto stesso del suo pensiero, empiristicamente orientato, lo ha portato a cercare di dare maggior valore al mondo reale, minacciato dall'“idealismo” platonico nella sua consistenza effettiva. Raccogliendo in sé le teorie e le aporie della filosofia presocratica, elabora i principi della sua metafisica. La realtà per eccellenza è l'individuo, l'insieme di sostanza e accidente, materia e forma, atto e potenza. Forma e materia, atto e potenza sono principi non solo dell'essere, ma anche del divenire delle cose: il divenire è infatti concepito come attuazione di ciò che è in potenza; esso è a sua volta reso possibile da ciò che è in atto e infine dall'atto puro che Aristotele identifica con Dio chiamandolo “pensiero del pensiero”. Proprio in questa concezione di Dio come principio supremo del divenire attorno a cui ruota l'universo con le sue sfere permane in Aristotele l'ispirazione platonica, nonostante il diverso orientamento già segnalato. La felicità e la virtù di ogni cosa consiste nell'attuazione della sua possibilità e della sua natura e quindi, per l'uomo, nella vita conforme a ragione culminante nella pura contemplazione. Fisica e psicologia, etica e politica, retorica e poetica, logica costituiscono altrettanti campi in cui Aristotele esercitò la sua ricerca sino a rappresentare una vera e propria enciclopedia del sapere. Nella serrata compagine del suo sistema egli ha racchiuso la filosofia che l'ha preceduto e ha chiuso l'età antica della speculazione essenzialmente metafisica.

Filosofia: l'etica, stoici e epicurei

La filosofia greca divenne quindi piuttosto ricerca di un metodo di vita, cioè etica, anche adattandosi a un mondo che si faceva sempre meno eroico e più cosmopolitico, travagliato da un ordine diverso di problemi, specializzato in diverse attività e in uno studio specifico delle scienze. L'Accademia stessa di Platone cadde, nel corso dei sec. III e II a. C., nel probabilismo o in un deciso scetticismo (Carneade); fra i peripatetici si accentrarono interessi scientifici (Teofrasto). Ma soprattutto stoici ed epicurei attrassero gli animi, muovendo in direzioni opposte da esigenze e da punti di partenza uguali. Gli stoici si volsero alla psicologia e alla condotta morale dell'uomo; predicarono l'apatia, o assenza di passione, per evitare la sofferenza, e indicarono nella virtù il sommo bene. Iniziato da Zenone, che insegnava nel portico (stoà) Pecile ad Atene, da Cleante e da Crisippo, lo stoicismo ebbe fortuna soprattutto in Roma, dove venne introdotto da Panezio e da Posidonio; sue dottrine innovatrici, come quella della legge di natura per cui tutti gli uomini, quali esseri razionali, devono riconoscersi uguali, ebbero grande spazio anche in età imperiale, l'età di Epitteto e di Marco Aurelio. Epicuro invece (341-270 a. C.), riprendendo l'atomismo di Democrito, negò la spiritualità e l'immortalità dell'anima, i rapporti del mondo con gli dei, ridusse la conoscenza ai sensi e la felicità a un giudizioso godimento di piaceri fisici. Anche le sue teorie ebbero fortuna a Roma, nell'età di Cesare e di Augusto. Già fin dai primi decenni dell'Impero si manifestarono per altro, con l'avvento anche di culti orientali, più profondi bisogni religiosi, un'ansia mistica che, a ritroso, solo il platonismo poteva di nuovo soddisfare. Dopo un primo tentativo di Antioco d'Ascalona (sec. I a. C.) di tornare alla primitiva Accademia e di Filone Alessandrino (sec. I d. C.) di plasmare il platonismo nei termini della religione giudaica, all'inizio del sec. III Plotino offrì uno sviluppo innovatore (un neoplatonismo) delle dottrine platoniche. Muovendo dall'anima quale principio motore dei corpi, Plotino stabilì una scala di realtà: dalla materia all'anima umana, all'anima del mondo, all'intelligenza, all'Uno, principio supremo e ineffabile. Quello di Plotino, affiancato in forme più tipicamente orientaleggianti e manichee dallo gnosticismo del suo discepolo Porfirio e poi di Proclo (sec. V) e di Simplicio (sec. VI), fu l'ultimo tentativo pagano di rispondere razionalmente e misticamente alla sfida che il cristianesimo pose alla civiltà antica.

Pensiero scientifico

Nonostante i numerosi contributi tramandati dagli Egizi e dagli Assiro-Babilonesi, la tradizione colloca in Grecia la nascita del vero e proprio sapere scientifico. Infatti la matematica, l'astronomia, la statica e la medicina trovarono in Grecia le condizioni per costituirsi come discipline fornite di preciso contenuto e di caratteristiche metodologiche assai ben delineate. Iniziatori del lungo processo che portò all'affermazione di un orientamento razionale, liberando la cultura greca nel suo complesso dalle influenze mitico-religiose precedenti, furono i filosofi o fisici della Scuola di Mileto (sec. VI a. C.). Ma fu con Pitagora e la sua scuola che vennero poste le basi di una scienza razionale, formulata nei suoi fondamenti astratti e avulsa da ogni contesto empirico: la matematica. I pitagorici, attratti in modo particolare dalla regolarità dei fenomeni celesti, tentarono di spiegare tutta la realtà sulla base dei numeri, delle loro proprietà e armonie, creando l'aritmo-geometria, dottrina che ebbe il merito di conseguire importanti risultati quali la generalizzazione dei procedimenti matematici allora in uso e la formulazione della teoria dei numeri razionali. Quest'ultimo risultato si dimostrò abbastanza presto inadeguato di fronte ai sottili problemi sollevati dalle grandezze incommensurabili. Inoltre, lo studio dei tre classici problemi della quadratura del cerchio, della trisezione dell'angolo e della duplicazione del cubo impose, oltre che l'abbandono dell'aritmo-geometria, un notevole potenziamento degli strumenti concettuali. Protesi a questo scopo furono i lavori del matematico Ippocrate di Chio, di Archita di Taranto e soprattutto di Eudosso di Cnido, che delineò una geniale teoria delle proporzioni, poi ripresa e utilizzata da Euclide. Il punto più alto raggiunto dalla matematica greca si colloca però tra il sec. IV e il III, nel periodo alessandrino, nel quale operarono Euclide, Archimede di Siracusa e Apollonio di Perge. Euclide ebbe il merito di raccogliere tutte le ricerche precedenti in un edificio che per il rigore delle argomentazioni e per la chiarezza concettuale fu guardato per secoli come esempio prestigioso di cosa deve essere “scienza”. Archimede, approfondendo le ricerche di Eudosso sul metodo di esaustione ed estendendo i suoi studi sui centri di gravità alla geometria, giunse a trattare problemi attinenti coni e cilindri e superfici limitate da sezioni coniche e loro solidi di rivoluzione, con un metodo originalissimo, descritto nella famosa lettera a Eratostene. Ad Archimede si devono pure la fondazione della statica, da lui trattata come un vero e proprio capitolo della meccanica razionale, nonché ricerche sulle leve e sull'equilibrio dei liquidi, che segnarono una decisa rottura nei confronti della fisica qualitativa di Aristotele e furono utilizzate ampiamente nel corso della rivoluzione scientifica del sec. XVI e XVII. Apollonio studia le proprietà delle figure coniche elementari: ellisse, iperbole, parabola. Strettamente collegate con la matematica furono le ricerche di astronomia che culminarono nel sec. IV a. C. con la teoria delle sfere omocentriche di Eudosso e con l'ipotesi di Eraclide Pontico secondo cui, mentre il Sole gira intorno alla Terra, Mercurio e Venere ruoterebbero intorno al Sole. La spiegazione puramente matematica dell'universo formulata da Eudosso fu successivamente inserita nella fisica di Aristotele. Il successo vieppiù incontrastato del sistema aristotelico non impedì l'enunciazione di altre ipotesi sull'universo destinate a riemergere in epoca moderna. Tipiche sotto questo profilo sono la geniale teoria eliocentrica di Aristarco di Samo e quella di Ipparco di Nicea, il quale introdusse per primo nel sistema aristotelico gli epicicli, ripresi, in epoca romana, da Tolomeo. Una profonda svolta si ebbe in Grecia anche nell'ambito della medicina e della biologia, che da scienze o arti puramente empiriche e pratiche, acquistarono già con Alcmeone di Crotone una dignità teoretica notevole. La scoperta che il centro di coordinamento delle varie percezioni risiede nel cervello portò a respingere le teorie che presupponevano un rapporto naturale e immediato tra uomo e natura. La scienza medica non poteva fondarsi su un'osservazione immediata dei vari casi, ma esigeva una specificazione dei metodi e dei concetti in base a un'esperienza criticamente concepita. La critica di Alcmeone, nonostante varie resistenze incontrate, fu ripresa nella controversia che oppose le due scuole mediche più importanti del sec. V: le scuole di Cnido e di Cos. La prima, nella quale si distinsero Eurifonte ed Erodico, cercò di legare strettamente la medicina all'osservazione immediata, escludendo ogni genere di teorizzazione: ne derivò una medicina empirica, rozza, che prescriveva una molteplicità illimitata di rimedi alquanto incontrollati, taluni stranissimi, alla cui base stava la mancanza assoluta di una prognosi. Contro questo indirizzo si pose la scuola di Cos con un complesso di lavori ascritti al leggendario Ippocrate. Con tale scuola la medicina ha trovato una sua originalissima collocazione nell'ambito del sapere. A una valorizzazione dell'esperienza critica nel senso di Alcmeone si accompagna in Ippocrate una profonda consapevolezza dell'importanza della teoria come momento di sintesi del particolare, di “comprensione”, di previsione. Un rivolgimento diverso per significato ma altrettanto profondo fu compiuto da parte di Aristotele nell'ambito della biologia, che riuscì a levare dalla pura speculazione per collegarla a un'esperienza sistematicamente condotta. Frutto di questo orientamento metodico fu un'importante classificazione degli animali, una teoria della generazione legata a una concezione vitalistica dei fenomeni biologici. Tale concezione si inserisce in una visione teleologica di tutti i processi naturali, che trionfò sull'opposta concezione meccanicistica, sostenuta in precedenza da Democrito di Abdera, dominando sino al periodo moderno tutta la cultura occidentale. Oltre agli stretti legami con la filosofia della natura, caratteristica della scienza greca, a eccezione della medicina, è lo scarso interesse per le applicazioni tecnologiche. Ciò è dovuto probabilmente al carattere schiavistico della società greca che comportava un basso costo del lavoro. Infine la sperimentazione, pur venendo usata, non trovò un'applicazione sistematica e rigorosa anche per lo scarso interesse a definire in modo quantitativo le leggi di natura.

Lingua

La prima fase della documentazione del greco, lingua appartenente alla famiglia indeuropea, è rappresentata dal miceneo, i cui testi in scrittura Lineare B, decifrati e interpretati da Michael Ventris, risalgono alla seconda metà del II millennio a. C. Molto più ampia e sicura è però la conoscenza che noi abbiamo del greco nel I millennio a. C. sia perché la documentazione epigrafica si presenta molto più ampia e varia di quella micenea (le iscrizioni greche non micenee risalgono ai sec. VIII-VII a. C.), sia perché questa preziosa documentazione epigrafica è integrata da una prestigiosa tradizione letteraria che fa capo a Omero. La tradizionale suddivisione dei dialetti greci antichi in ionico, attico, dorico, eolico riflette sostanzialmente le forme dei dialetti letterari, ma non tiene sufficientemente conto della molto più complessa situazione delle parlate locali e regionali. All'interno del dorico, per esempio, si possono scorgere numerose varietà dialettali che costituiscono il dorico meridionale e il dorico settentrionale che viene considerato un gruppo a sé, quello dei cosiddetti dialetti nordoccidentali, cui appartiene fra gli altri anche l'acheo. Si possono però cogliere alcuni tratti caratteristici e specifici della grecità linguistica nel suo insieme: nel campo fonetico la conservazione del sistema vocalico indeuropeo con la distinzione della triade vocalica ā, ē, ō (solo lo schwa è continuato da a: greco pater, padre, ind. ant. pita, indeuropeo pater); lo sviluppo delle liquide e nasali sonanti ṛ, ḷ, ṇ, ṃ in ar/ra, al/la, a/an, a/am (árktos, orso, ind. ant. ṛkṣaḥ); la risoluzione delle occlusive sonore aspirate in sorde aspirate, cioè dh>th, bh>ph, gh>kh (thȳmós, animo, ind. ant. dhūmáḥ; phérō, io porto, ind. ant. bhárāmi; omíkhlē, nube, ind. ant. mēgháh); il triplice esito delle labiovelari condizionato dalla vicinanza di determinati suoni, cioè qu>k, t, p (bou-kólos, pastore di buoi <-qu olos, ai-pólos, pastore di capre <-qu olos, tís, chi? <qu is); l'aspirazione di s iniziale antevocalica e la sua scomparsa in posizione intervocalica (heptá, sette, latino septem); la riduzione di m finale a n (lýkon, lupo, latino lupum); la caduta di tutte le consonanti finali a eccezione di n, r, s; la conservazione dell'accento musicale indeuropeo e, pur nell'ambito della legge del trisillabismo, della sua originaria posizione libera (pater, padre, nominativo sing., ind. ant. pita; patéra accusativo sing., ind. ant. pitáram; páter vocativo sing., ind. ant. pítaḥ); nel campo morfologico la conservazione dei tre generi grammaticali (maschile, femminile e neutro) e dei tre numeri (singolare, duale e plurale); la formazione in periodo storico dell'articolo originato da una deflessione semantica dell'originario pronome dimostrativo (questo processo non è stato senza significato nello sviluppo dall'originario pronome dimostrativo latino all'articolo delle lingue romanze); le flessioni nominale e pronominale caratterizzate ancora in certi casi da desinenze distinte; l'espressione dell'aspetto dell'azione nel sistema verbale; il progressivo affermarsi e generalizzarsi dell'aumento nei tempi storici; il raddoppiamento nel perfetto. Nel periodo ellenistico si forma, su basi essenzialmente attiche, una lingua comune, detta koinè, in cui si dissolvono tutti gli antichi dialetti greci (solo lo zaconico continua in epoca moderna un antico dialetto greco). Nel periodo bizantino la lingua ufficiale dell'alta letteratura, della scuola, della Chiesa e dell'amministrazione statale si presenta come un ritorno artificioso al greco classico, ma la lingua parlata continua la sua evoluzione staccandosi sempre più dalla lingua scritta. Questa situazione si riflette nella diglossia che caratterizza l'epoca moderna in cui la lingua popolare o volgare (dēmotikḗ) si contrappone nettamente alla lingua classica (katharéyusa). § L'importanza del greco nella storia della civiltà umana non si può valutare in tutta la sua portata se non si tiene conto dell'influenza che il greco ha esercitato sul mondo latino e, anche per il suo tramite, su tutta la civiltà europea. Molte parole greche comuni sono passate in latino sostituendovi la parola indigena, e dal latino sono passate a tutte le lingue romanze. L'influsso linguistico greco sul latino si configura in tutta la sua ampiezza e profondità anche nel caso dei calchi per cui la parola greca non viene mutuata nella sua forma originaria, ma viene tradotta nei suoi elementi costitutivi. A questo proposito si può dire che quasi tutta la terminologia tecnica, filosofica, retorica, grammaticale latina sia stata forgiata sul modello della corrispondente terminologia greca. E ancor oggi gran parte della terminologia tecnica e scientifica è continuamente creata o ricreata con materiale lessicale greco. Per non parlare dell'importanza che i Greci hanno avuto nell'adattare l'alfabeto fenicio alla propria lingua in modo così geniale e funzionale da fornire un modello, diretto o indiretto, alla formazione di tutte le scritture dell'Occidente.

Letteratura: Omero e l'epoca della lirica

La letteratura greca si apre con il suo nome più grande, quello di Omero; ma Omero è a sua volta la conclusione di un grande sviluppo di carmi, che si perdono nei tempi e che cantavano allo stesso modo le gesta di dei e di eroi. Vari cicli epici, tipici di popoli avventurosi e del “medioevo” delle varie civiltà, sono alle origini di questa letteratura. Il loro centro di sviluppo fu la Ionia, paese di vivaci rapporti commerciali e di rapido arricchimento materiale e spirituale. Di Omero si sa ben poco di sicuro; persino la sua esistenza è molto discussa, così come l'epoca in cui furono redatti i due grandi poemi che gli antichi gli attribuivano: l'Iliade e l'Odissea. Già in età alessandrina si tendeva a considerarli opera di due poeti diversi e la questione ha interessato i critici fino ai giorni nostri. La stesura definitiva del testo, comunque sia, sarebbe avvenuta verso i sec. VIII-VII a. C., e di lì prende le mosse la letteratura greca, già definita nei suoi caratteri: libertà e senso critico, spontaneità, finezza, lirismo e drammaticità, grazie anche all'ausilio di una lingua chiara, armoniosa, duttile, capace di ogni sfumatura. Omero – o chi per lui – cantò lo spirito eroico dei Greci: una loro spedizione in età micenea contro Troia, città fiorente dell'Asia Minore (Iliade), e il ritorno avventuroso di uno degli eroi, Ulisse, in patria (Odissea). Poeta antieroico fu invece Esiodo di Ascra in Beozia (forse metà del sec. VIII a. C.), autore di due poemetti di modesta e sofferta umanità: la Teogonia (sull'origine dell'universo e genealogia degli dei) e Le opere e i giorni (vicende, virtù, vizi e fatiche degli uomini). Intanto, forme di poesia più elaborata, con o per accompagnamento di musica e di danza, servivano ad altre manifestazioni dello spirito greco: le feste, i banchetti, l'esposizione di massime morali e l'espressione di sentimenti collettivi e individuali: sono i canti lirici, monodici o corali, in dialetto ionico (elegia e giambo), eolico (canti d'amore, di guerra, di simposio), dorico (canti corali religiosi e sportivi). L'età d'oro di questa poesia, cui partecipano tutte le stirpi greche, va dal sec. VII al V a. C. Si segnalano i giambi di Archiloco di Paro, di Semonide e d'Ipponatte; le elegie patriottiche di Callino e Tirteo, quelle gnomiche di Solone, quelle morali di Teognide, quelle amorose di Mimnermo; ma soprattutto i due grandi lirici di Lesbo, Alceo e Saffo, il primo impetuoso nei suoi carmi di lotta politica, la seconda impareggiabile nelle canzoni d'amore; solo si avvicina a essi lo ionico Anacreonte, molle cantore di feste e d'amore. Nella lirica corale, per le festività, si esprimono i sentimenti o le tradizioni religiose della collettività, soprattutto dei Dori, che avevano più forte il senso della stirpe, della patria, della religione. Dopo le più antiche canzoni per cori femminili di Alcmane (sec. VII-VI) e quelle mitologiche del suo contemporaneo Stesicoro, grandi carmi corali produssero tra il sec. VI e il V Simonide di Ceo (ca. 556-468), Bacchilide, suo nipote (ca. 520-ca.450), e Pindaro di Cinoscefale (522/18-438): tutti e tre scrissero soprattutto canzoni in lode dei vincitori delle gare panelleniche (olimpiche, pitiche, istmiche, nemee) in ampie composizioni articolate in strofe e in metri vari. Anche i primi filosofi della Grecia espressero in quegli anni le loro idee, soprattutto sulla natura e sulla formazione del mondo: quelli della scuola ionica, tra il sec. VII e il VI (Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito), e quelli dell'Italia meridionale e di Sicilia, nel sec. VI (Senofane, Parmenide, Empedocle). Accanto all'epica, alla lirica, alla filosofia, il sec. VI vide fiorire un altro genere letterario: la favolistica. Essa trovò in Esopo un personaggio oscillante tra storia e leggenda, un raccoglitore, se non un inventore, di racconti popolareschi, animati da bestie umanizzate che più tardi ispirarono altri poeti, da Fedro a La Fontaine. L'epoca della lirica chiude l'età arcaica della letteratura greca, il periodo delle invenzioni di grandi generi letterari, rimasti in tutte le posteriori letterature europee, e delle più alte creazioni fantastiche e sentimentali, con il piacere del racconto, con la fusione di più arti in una sola espressione umana.

Letteratura: il secolo del teatro e della prosa

È una stagione felicissima, che prosegue nello splendore supremo del secolo seguente: il secolo del teatro e dell'inizio della prosa. Dalle aree periferiche la letteratura si concentrò in Atene, campione della democrazia e della libertà individuale, e si espresse nel suo stesso dialetto, l'attico. Atene creò del resto in quegli anni anche i capolavori dell'architettura, della scultura, della pittura, mentre al predominio artistico si accompagnò quello politico della città. Ci è poco nota invece l'origine del teatro greco, di cui è considerato iniziatore Tespi negli ultimi decenni del sec. VI. Con il sec. V la tragedia entrò nella vita pubblica ateniese, oltre che nel suo grado massimo di sviluppo. Più volte durante l'anno si svolgevano cicli di rappresentazioni drammatiche, con concorsi ufficiali tra i poeti. Questi presentavano un gruppo di tre tragedie (che, se svolgevano uno stesso mito, costituivano una “trilogia”) e un dramma satiresco, breve atto comico finale. I sommi tragediografi ateniesi del sec. V furono Eschilo (525-456 a. C.), Sofocle (497 o 496-406 a. C.) e Euripide (ca. 480-406 a. C.). Squarci di liricità assoluta si alternano nel teatro di Eschilo a profonde meditazioni teologiche e umane; vi si esprime, in uno stile intenso e arduo, il timore greco per il destino, la condanna dell'orgoglio, il senso religioso della vita. Con Sofocle, il più puro, il più limpido, il più sereno e semplice dei tragediografi greci, si amplia e si approfondisce l'azione e il ruolo in essa dell'uomo, un uomo sempre grande e nobile. L'oggettività classica di Sofocle già s'incrina con Euripide, allievo dei sofisti, spirito più irrequieto e dubbioso. Il suo è un teatro meno grandioso e più mosso nelle rappresentazioni, con la discussione critica che s'insinua nell'azione. Il pessimismo avvolge il mondo euripideo, dove emergono eroine patetiche o tragiche in sommo grado. Tutto rispecchiava ormai una società e un momento politico in evoluzione; il teatro si orientava verso il dramma borghese, quello della commedia di mezzo. La commedia antica nacque contemporaneamente alla tragedia e le sue origini non sono meno oscure. In Attica, nel sec. V si sviluppò in varie scene, intercalate da intermezzi corali, e assunse un carattere di sbrigliata, fantasiosa comicità non disgiunta da un continuo richiamo alla realtà del momento e alla satira politica, religiosa, artistica, di costume. Genio sommo ne fu Aristofane (ca. 445-dopo il 388), che tra la fine del sec. V e l'inizio del IV compose una quarantina di commedie. Aristofane appare sostanzialmente un conservatore, avverso alla filosofia nuova dei sofisti; ma, al di là della satira, attraggono la fertilità delle sue invenzioni e il lirismo di molti passi soprattutto corali, contrasto delicato con frequenti laidezze (di qui il capolavoro degli Uccelli). Il capovolgimento del teatro comico successivo rispetto a questa impostazione è totale: fuori d'Atene e dal suo regime politico si sviluppa la commedia borghese, nella seconda metà del sec. IV, in età ormai alessandrina. Il cosmopolitismo, le filosofie morali, atteggiamenti più pacati e rinunciatari in tutta la società si riflettono in intrecci più realistici, anche se complessi nelle loro peripezie quasi costanti; l'azione e il dialogo sono ora predominanti. Tra i molti autori, di cui non abbiamo quasi nulla, ci è meglio noto il più grande, Menandro, ateniese (342 o 341-291 o 290 a. C.). Menandro osserva la vita intorno a sé e se ne fa malinconicamente specchio; comincia una timida rappresentazione di caratteri, si esprime in uno stile naturale, in una lingua semplice, com'è nelle conversazioni quotidiane. Egli è perciò il maestro di successivi comici latini e in certa misura, attraverso loro, della commedia moderna. Si è accennato alla più lenta maturazione della prosa rispetto alla poesia. I primi scritti prosastici greci furono di storia: taluni logografi ionici narrano le origini delle loro città, genealogie di eroi, viaggi. Il primo storico di cui possediamo per intero l'opera fu Erodotoionico anch'egli (di Alicarnasso, ca. 485-ca. 425 a. C.), vissuto però soprattutto in vari altri Paesi d'Asia e d'Europa: viaggiò molto, molte cose vide e studiò e poi le espose in 9 libri di Storie, opera di grande bellezza e interesse. Narrò la geografia e le vicende della Persia, dell'Egitto, degli Sciti, poi soprattutto lo scontro, di poco anteriore a lui stesso, fra i Persiani e i Greci a Maratona e a Salamina. Se la precisione dei suoi dati e l'esattezza del suo racconto non sono assoluti, egli ha però, per primo, il senso della storia (ne fu detto “il padre”), ossia del valore, dell'interesse, dell'organicità e di un senso delle vicende umane. Quella successiva, di Tucidide (ca. 460-ca. 395 a. C.), è già a questo confronto un'opera letteraria. Nella sua Storia della guerra del Peloponneso tutto spira meditazione e ricostruzione critica dei fatti: Tucidide dichiara di non voler attrarre il lettore, ma di esporre la verità come una conquista utile per sempre. È un altro aspetto dello spirito greco, quello che sta rapidamente muovendo verso la grande meditazione filosofica e che già si mostra nelle discussioni dei sofisti. L'intellettualismo, il razionalismo di Tucidide, il suo discernimento della complessa trama dei fatti sono invero una conquista definitiva per la storiografia. Il terzo storico di quest'età non può che soccombere di fianco al genio dei primi due: Senofonte (ca. 430-ca. 350 a. C.), ateniese, che narrò vivacemente nell'Anabasi una spedizione di mercenari greci in Persia. Ma la sua continuazione delle storie di Tucidide fino al 362 (Elleniche) è fin troppo debole, così come mostrano solo doti di stile e una lingua pura la biografia di Ciro il Grande (Ciropedia) e vari suoi opuscoli storici e filosofici. Senofonte fu in giovane età allievo di Socrate e difese poi anch'egli la memoria del maestro.

Letteratura: filosofia ed eloquenza

Quella di Socrate fu in realtà una vicenda di grande significato nell'Atene del tempo: nel dilagare della sofistica, con Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia, Zenone, che relativizzava ogni conoscenza e ogni valore, egli propose – quale almeno ci appare dal ritratto dell'altro suo discepolo Platone – di affermare la loro validità, con la fede in un dio, con la necessità di praticare la virtù per essere felici, con la convergenza di bene e di utile, con l'esistenza, soprattutto, di una legge morale universale o naturale. Confuso forse con i sofisti stessi, nel 399 Socrate fu condannato a bere la cicuta. Ne colse l'eredità Platone, nella cui speculazione s'incarna l'anelito fondamentale dello spirito greco verso la perfezione; tanto più che il suo sistema filosofico trova anche un'espressione estetica altissima. In tutt'altra direzione si muove il suo antico discepolo Aristotele, che fu anzitutto un grande sistematore di tutto il pensiero filosofico a lui anteriore e dell'esperienza umana nella sua totalità. Con la filosofia, ha un grande sviluppo nel sec. IV l'eloquenza, favorita da circostanze politiche oltre che dalla pratica processuale. I Greci, e gli Ateniesi in particolare, amarono sempre molto le discussioni; la democrazia favoriva i dibattiti nelle assemblee, il diritto impegnava i contendenti nei tribunali. Già negli ultimi decenni del sec. V praticarono l'eloquenza, perché coinvolti in casi politici o per la loro professione di retori e logografi (qui, “scrittori di discorsi”), Antifonte, Andocide e Lisia. Di quest'ultimo ci resta un buon numero di discorsi scritti in uno stile fluido, semplice ma efficace, e in una lingua pura, che lo fanno modello di atticismo: di quella corrente cioè della retorica greca e romana che punta sull'attrazione di un discorso preciso, concreto ed elegante, di contro ai cosiddetti asiani, i retori patetici e gonfi, che già in quegli anni sono rappresentati da Isocrate (436-337 a. C.). Tra gli oratori del loro tempo (Iseo, Licurgo, Iperide, Dinaro) emergono soprattutto per passione politica Demostene (384-322 a. C.) ed Eschine (ca. 390-ca. 314 a. C.), i cui destini s'intrecciano per un certo periodo strettamente. Nodo politico fu allora, a metà del sec. IV, l'espansione macedone e l'autonomia delle città greche, centri di libertà ma ormai anacronistici. Eschine, ateniese di umili condizioni, prese posizione, a un certo punto, per i Macedoni; Demostene lottò fino in fondo per la libertà della sua patria. Con Demostene tramontò la libertà greca, e con questa l'oratoria stessa, che passò nel chiuso delle scuole di retorica e là si fuse con la critica letteraria. Si chiudeva così anche l'età d'oro della letteratura greca, il periodo delle creazioni.

Letteratura: il periodo alessandrino

A essa succedette il periodo del ripensamento, dell'elaborazione dei generi letterari e delle tecniche più raffinate. Con le conquiste di Alessandro Magno, tra il 333 e il 323 a. C., il mondo greco si ampliò a dismisura; la lingua e la cultura greche si diffusero nei nuovi regni ellenistici di Macedonia, Pergamo, Siria, Egitto, e poco più tardi anche Roma assorbì la civiltà più raffinata della Grecia. Il nuovo centro culturale fu per tre secoli Alessandria (e il periodo si suole chiamare alessandrino, o “ellenistico” in contrasto con “ellenico”). Ad Alessandria i Tolomei fondarono una sorta di università (il Museo), con una grande biblioteca, e lì lavorarono i maggiori ingegni dei sec. IV e III nell'ambito della letteratura e delle scienze. Zenodoto, Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia studiarono, commentarono e pubblicarono gli antichi poeti, soprattutto Omero, tramandandoci con la loro attività la maggior parte della cultura precedente. Ma furono letterati e critici, prima ancora che poeti, anche i due maggiori poeti dell'età alessandrina, Callimaco e Apollonio Rodio. Callimaco (ca. 310-ca. 240 a. C.) ruppe con la tradizione anteriore, trattò tutti i generi poetici, in tutti imprimendo geniali innovazioni, secondo lo spirito del tempo. In luogo della grandiosità, mirò alla perfezione, all'eleganza, all'originalità, all'invenzione; scrisse in una lingua artificiosa, con ricercatezze stilistiche e metriche di ogni sorta. Con lui la tecnica si sostituì all'ispirazione, l'intellettualismo ai sentimenti. In opposizione a Callimaco scrisse Apollonio Rodio (ca. 295-ca. 215 a. C.). Il suo tentativo polemico di dimostrare la persistente vitalità dell'epica si risolse in realtà nella dimostrazione del suo tramonto: le Argonautiche non vivono per gesta eroiche (vi si affaccia se mai il moderno amore di Medea per Giasone), per unità d'azione e di motivi, ma per la ricchezza dei molti brevi episodi, per la squisitezza dello stile; e sono appesantite dall'erudizione, da strani miti, da un'elaborazione tecnica spinta all'assurdo. Grandi poeti del sec. III furono fra i tragici Licofrone, fra gli elegiaci e gli epici Euforione, ma ben poco si conosce di loro. Si hanno invece i poemi didascalici di Arato (Fenomeni e Pronostici) e di Nicandro (Rimedi contro le morsicature degli animali velenosi e Contravveleni) e gli stupendi carmi di Teocrito (ca. 310-ca. 260 a. C.). Siracusano, fece suoi tutti gli artifici dell'ellenismo che poi sovrappose, nella sua poesia, a una materia fragile, quale la vita dei pastori, dei campi, e, quel che più conta, non lasciò soffocare il suo genuino senso della natura. I suoi 30 idilli, in cui crudezza realistica e sentimento romantico, ingenuità di temi e raffinatezza tecnica si fondono, rappresentano l'ultima, originale e grande poesia della Grecia antica. L'età alessandrina vide anche un grande sviluppo delle scienze, per la disposizione generale dell'uomo e della società. La matematica ebbe i loro geni in Euclide e Archimede di Siracusa; la medicina in Ippocrate. Ancora tra le scienze fiorirono la geografia e l'astronomia; anche qui, dopo i grandi studi di Metone e di Eudosso, si ebbero quelli di Aristarco di Samo, di Eratostene di Cirene e di Ipparco di Nicea, il massimo astronomo dell'antichità. Gli storici, infine, scrissero opere soprattutto di erudizione, caratterizzate da una curiosità per l'aneddoto e il romanzesco; si segnalarono Manetone di Sebennito per l'Egitto e Timeo di Tauromenio per la Sicilia. In filosofia continuarono le scuole di Platone (Accademia Media, con Arcesilao, e Nuova, con Carneade) e di Aristotele, con il grande scienziato Teofrasto. Ma apparvero soprattutto altri indirizzi con l'affermazione dei cinici (Diogene, Menippo), degli scettici (Pirrone, Timone), degli stoici (Zenone di Cizio, Cleante, Crisippo) e degli epicurei (Epicuro).

Letteratura: cultura greca e cultura romana

La fusione tra la cultura greca e quella romana divenne di fatto sempre più stretta dopo la caduta della Grecia sotto il dominio di Roma. I Greci dominarono le scuole, ispirarono un affinamento della letteratura latina; scrittori greci si trasferirono in Italia, i Romani andarono a studiare in Grecia. Ancora viva per qualche decennio, la produzione letteraria greca si affievolì tra il sec. I a. C. e il I d. C., per rinascere nuovamente verso il 100 d. C. e conoscere un estremo, notevole splendore tra il sec. II e il V. Solo la poesia pare ormai del tutto isterilita: unico suo frutto delizioso, brillantissimo ma esile, l'epigramma. Questo genere, già tipicamente alessandrino, si sviluppò per tutta l'età romana attraverso decine di poeti; se ne trovano adunati moltissimi in una raccolta in 15 libri che si venne costituendo a più riprese a partire dal sec. I a. C. e intitolata Antologia Palatina dall'unico manoscritto a noi giunto, conservato nella Biblioteca Palatina di Heidelberg. I temi sono quelli funebre, amoroso, descrittivo, trattati con un'arguzia, che è carattere comune a questi brevi, forbiti componimenti. I maestri più antichi furono, nel sec. III a. C., Asclepiade di Samo, Leonida di TarantoNosside; in età romana, Meleagro di Gadara (ca. 140-ca. 70 a. C.) e Filodemo, suo concittadino e contemporaneo, attivo a Ercolano con grande influenza sui poeti latini del tempo. Notevole sviluppo ebbe invece la prosa, anzitutto quella storica con uno dei suoi massimi geni, Polibio di Megalopoli (ca. 200-ca. 120 a. C.). Le sue Storie (40 libri, a noi noti i primi 5) sono uno studio autentico della crescita di Roma, dalle guerre cartaginesi ai suoi tempi, con la presentazione dei fatti e la discussione delle loro cause. Sono invece banditi i discorsi e gli altri abbellimenti retorici: l'opera è delle più spoglie e incolori letterariamente, con stile impacciato e pesante; anche la freschezza della scrittura greca è tramontata per sempre, ma è nato un nuovo, moderno modo di fare la storia come scienza. Solo come compilatori di ampie sintesi storiche vanno poi ricordati Dionisio d'Alicarnasso, che fu anche retore, e Diodoro Siculo nel sec. I a. C.; Appiano e Dione Cassio nel II d. C.; e per la geografia Strabone (sec. I a. C.-sec. I d. C.) e Pausania (sec. II d. C.). Più interessanti per la partecipazione personale, La guerra giudaica e le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, un ebreo palestinese coinvolto nello scontro fra i suoi connazionali e i Romani a Gerusalemme nel 70 d. C.; e, per i loro valori intrinseci e per l'enorme fortuna nei secoli seguenti, fino al nostro, gli scritti di Plutarco di Cheronea (ca. 46-ca. 125 d. C.). Nelle Vite parallele, serie di biografie di Greci e di Romani in parallelo, gli avvenimenti cedono al tipo, alla caratterizzazione umana e morale del personaggio. L'opera è significativa del suo tempo proprio per questa minuzia storica collegata con la filosofia e per il senso estetico greco accoppiato al patriottismo romano. Il suo alto senso morale risente dell'epoca, quando lo stoicismo si diffonde a Roma fino a raggiungere il trono. Già tra il sec. II e il I a. C., Panezio e Posidonio avevano recato la ricchezza delle scienze e del pensiero greci, con eclettismo, fra le classi colte romane. Nel sec. I d. C. fu Epitteto, uno schiavo frigio domiciliato a Roma e poi in Epiro, ad attrarre con il suo insegnamento e il suo esempio stoico. Poi lo stesso imperatore Marco Aurelio scrisse in greco i suoi Ricordi, austeri e persino cupi per gli insegnamenti dello stoicismo e ancor più per una profonda personale malinconia. Ma il suo stesso secolo (II d. C.) vedeva ormai piuttosto la risurrezione della sofistica: filosofi-retori acquistavano successi con le loro conferenze vuote e negative ma brillanti; il più celebre è Luciano di Samosata (ca. 120-ca. 180), che incarnò un'età ormai priva di ideali e di fermenti culturali vivi e originali. Alla fine del sec. II fiorì anche un genere poco coltivato nell'antichità: il romanzo, d'avventura e d'amore, che ebbe i suoi autori più rappresentativi in Senofonte Efesio, Longo Sofista, Achille Tazio.

Letteratura: retorica e sofistica

La retorica e la sofistica occuparono il secolo seguente, quando pur nacque l'ultima grande scuola filosofica del paganesimo, il neoplatonismo: una ripresa a sfondo fortemente mistico e irrazionale del pensiero di Platone, con tutte le complicazioni ma anche gli ammodernamenti del pensiero orientale e cristiano, che ha avuto il suo maestro nell'egiziano Plotino (205-270). Ancora nel sec. IV, accanto a retori e sofisti come Imerio, Temistio e Libanio, e nella scarsità di altre manifestazioni letterarie, la filosofia neoplatonica ebbe grandi cultori, quali Giamblico, scolaro di Porfirio, e l'imperatore Giuliano (331-363), e più tardi ancora, agli inizi del sec. V, una donna, Ipazia, e Proclo. Per il resto, non continuarono che gli studi retorici, le compilazioni storiche e grammaticali, il romanzo, la poesia epigrammatica. Un'ultima fiammata la letteratura greca ebbe sotto Giustiniano, imperatore a Costantinopoli dal 527 al 565: fu l'età dei poeti Agatia e Paolo Silenziario e delle Storie di Procopio, con cui si apriva ormai il periodo bizantino. Del resto, caratteri suoi particolari di spirito, se non di lingua, e in parecchi casi anche di idee, aveva già avuto negli ultimi secoli la letteratura cristiana in greco, accanto a quella pagana: in greco si erano diffuse le Sacre Scritture, greci erano stati i primi apologisti della nuova religione, quali Giustino e Clemente Alessandrino nel sec. II; poi i grandi teologi quali Origene (sec. III), i polemisti quali Atanasio, gli storici quali Eusebio, e i padri della Chiesa, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa,Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, nei sec. IV e V.

Arte: generalità

L'arte greca, che ha affrontato e risolto in un'evoluzione dinamica e in una sempre maggiore varietà di forme i problemi artistici più importanti, quali anzitutto la costruzione organica della figura umana nello spazio e l'equilibrata aderenza tra l'immagine artistica e la realtà, ha influenzato più o meno profondamente quella di tutte le popolazioni con cui venne a contatto (arte etrusca e italica, gallica, iberica, punica, in Occidente; arte scitica del Mar Nero; arte della Battriana e della Commagene, sino all'arte indiana del Gandhāra in Oriente) e costituisce il fondamento non solo dell'arte romana (insieme alla quale forma l'“arte classica”) ma anche – in modo più o meno evidente nei diversi periodi storici – di tutta l'arte europea: da ciò la sua importanza eccezionale.

Arte: il periodo arcaico

Le più antiche civiltà della Grecia sono poco note. Le culture neolitiche tessaliche di Sesklo e di Dimini hanno ceramica dipinta a bande e linee parallele spezzate e ondulate e idoletti steatopigi in pietra e terracotta (musei di Atene e Volo). Nei villaggi fortificati ma senza particolare assetto urbanistico è già riconoscibile il caratteristico mégaron rettangolare. Nell'Età del Bronzo (III-II millennio a. C.), mentre a Creta fioriva la grande civiltà minoica, nelle isole dell'Egeo si sviluppava la civiltà cicladica e nella Grecia continentale quella elladica. Il complesso archeologico più noto della civiltà cicladica è quello di Filacopi nell'isola di Milo, con tre cittadelle successive. Caratteristici sono gli idoli di marmo di Paro e di Nasso che riproducono la figura umana in un'originale, stilizzatissima interpretazione (Atene, Museo Archeologico Nazionale) . La civiltà elladica è attestata da molti ritrovamenti in Attica, nel Peloponneso (Lerna presso Argo; Asine presso Epidauro) e soprattutto a Orcomeno di Beozia, capitale dei Minii. Minia è chiamata la caratteristica ceramica monocroma imitante prototipi metallici (minio grigio, o anche rosso e giallo) che è stata collegata con l'arrivo, verso il 1900 a. C., di nuove popolazioni di origine anatolica parlanti un dialetto indeuropeo da cui sembra derivare la lingua greca. Il periodo tardoelladico è quello della civiltà micenea, conosciuto anche dai poemi omerici. Ampiamente diffusa in tutta la Grecia (Arne nell'isola di Gla in Beozia; Asine presso Epidauro; Midea presso Argo; Pilo nella Messenia; la stessa Acropoli di Atene), ha i suoi monumenti più significativi nei grandi palazzi fortificati di Micene “ricca di oro”, e di Tirinto “murata”; le oreficerie e le altre suppellettili preziose sono raccolte soprattutto nel Museo Archeologico Nazionale di Atene. Dopo il crollo della civiltà micenea, conseguente alla cosiddetta invasione dorica (1200 a. C.), l'arte submicenea è attestata da modesta ceramica e da poche figurine di animali in terracotta o bronzo. Fu solo dopo il 1100 a. C. che nuove forme decorative, esasperatamente rettilinee, sostituirono l'ornato curvilineo miceneo dando origine allo stile protogeometrico, che si considera convenzionalmente la prima manifestazione dell'arte greca, e per arte greca s'intende l'arte prodotta da popolazioni parlanti il greco non solo in Grecia e nelle isole dell'Egeo, ma anche nelle colonie greche dell'Asia Minore, del Mar Nero, dell'Italia meridionale (Magna Grecia) e, dopo Alessandro Magno, in tutti i territori ellenizzati dell'Asia anteriore e del bacino del Mediterraneo. Culla della nuova arte fu l'Attica, dove lo stile si sviluppò con una sempre maggiore armonia tra forma e decorazione. Lo stile geometrico vero e proprio, che raggiunse la sua maggior perfezione nel sec. VIII a. C., introdusse anche la figura umana severamente stilizzata. Poche le statuette di terracotta e le figurine bronzee di guerrieri (Museo di Olimpia) raffiguranti la più antica immagine di Zeus. Alla fine del sec. VIII si ebbe il passaggio dalla ceramica tardogeometrica a quella protoattica, che riservò sempre maggiore spazio alla figura umana, in scene mitologiche derivanti forse da pitture. Sorsero intanto nuove fabbriche a Corinto i cui vasi, protocorinzi e poi corinzi, conquistarono nel sec. VII i mercati non solo della Grecia ma di tutto il Mediterraneo e furono anche abbondantemente imitati (ceramica etrusco-corinzia). Nello stesso secolo la Grecia importò oreficerie e oggetti preziosi dall'Oriente e impiegò e assimilò nelle sue decorazioni schemi e motivi orientali come rosette, palmette, fiori di loto, teorie di animali reali o fantastici (ceramica corinzia; ceramica orientalizzante di Rodi e altre isole egee; oreficerie di Rodi). Del sec. VII sono i più antichi esempi di scultura greca dello stile detto dedalico, dal nome del leggendario artista cretese; a Creta se ne hanno importanti esempi nelle rigide e astratte sculture dei templi di Priniás, la cui pianta bipartita ricorda il mégaron miceneo. Dalla metà del sec. VII l'arte della Grecia, concluso il suo periodo di formazione, presentò uno sviluppo razionale e organico in tutte le sue manifestazioni (solo la pittura è quasi tutta perduta). "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 2 pp 22-123" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 2 pp 22-123"

Arte: il periodo classico

Al periodo arcaico (ca. 650-480 a. C.) risale la comparsa del tempio in pietra o in marmo, massima espressione dell'architettura greca. L'Heraion di Olimpia è il prototipo dello stile dorico, che ebbe i suoi migliori esempi nei templi, più grandi e spesso meglio conservati, della Sicilia e della Magna Grecia, i quali presentano spesso forme più libere e originali nell'organizzazione degli spazi interni (la cosiddetta basilica di Paestum). Nell'età arcaica apparvero già quasi tutte le forme di templi, da quello a semplice cella rettangolare preceduta da un pronao colonnato (forma che restò canonica nei thesaurói, cioè nei tempietti votivi dei santuari) a quello periptero, tutto circondato da colonne. Nella Grecia continentale dominò l'ordine dorico; quello ionico, che compare nelle città dell'Asia Minore prima che in Grecia (grande Artemision di Efeso, tempio di Apollo Filesio a Didime presso Mileto), è presente nelle isole egee, nell'Heraion di Samo della metà del sec. VI a. C. e anche a Locri e Siracusa. La decorazione templare fu dapprima in terracotta dipinta (metope del tempio di Termo della fine del sec. VII), poi in pietra o marmo, anch'essi dipinti. I frontoni arcaici sono ornati di sculture in un primo tempo a bassorilievo o a mezzo tondo (frontone della Gorgone a Corfùfrontoni arcaici dell'Acropoli di Atene), poi a tutto tondo (frontoni del tempio di Afea a Egina, dell'inizio del sec. V, oggi a Monaco, Antikensammlungen). Il tesoro dei Sifni a Delfi, del 530 a. C. ca., era ornato anche da un fregio figurato . Importanti esempi di scultura architettonica sono in Italia le metope del thesaurós della foce del Sele o del tempio C di Selinunte (Palermo, Museo Archeologico), anteriori al 550 a. C., e, sulle coste asiatiche, le basi figurate delle colonne dell'Artemision di Efeso. Nella scultura arcaica la figura, prima rigida e squadrata perché vista dall'artista secondo piani paralleli, trovò poi punti di visione molteplici e un migliore inserimento nello spazio, passando così dall'astrazione dedalica a una maggiore aderenza alla realtà. Oltre che architettonica la scultura era votiva, funeraria, onoraria (statue di vincitori di gare atletiche; gruppo dei Tirannicidi). Perduta è la grande scultura in bronzo (prima martellato o a fusione piena, ma già dall'inizio del sec. VI a fusione cava), ma restano molti originali in pietra o marmo; numerosissime poi le piccole statuette di divinità o di offerenti, in bronzo, avorio, terracotta, provenienti da diversi santuari greci. Pochi erano i tipi della grande statuaria, tra cui anzitutto quello del koûros (statua maschile nuda, in piedi, con la gamba sinistra avanzata) e della kóre (statua femminile in posizione analoga, vestita di chitone e himátion), tipi documentati dai numerosi esempi trovati nella cosiddetta colmata persiana dell'Acropoli di Atene e oggi al Museo dell'Acropoli (dalla metà del sec. VI a. C. ai primi decenni del V) ma presenti in Attica (Atene, Museo Archeologico Nazionale) e in altre località già alla fine del sec. VII; in essi è soprattutto evidente la progressiva conquista della conoscenza dell'anatomia umana. Si distinguono convenzionalmente lo stile dorico, proprio della Grecia continentale e del Peloponneso, piuttosto rigido e pesante; lo stile ionico, proprio delle isole egee, più ricercato e decorativo; e, dalla metà del sec. VI, lo stile attico, proprio di Atene, che fonde la severità dorica con l'eleganza ionica. Le sculture di Mileto, tra cui le squadrate statue dei Branchidi (Londra, British Museum) sulla via sacra che portava al Didimeo, costituiscono il più ricco complesso di arte arcaica della Ionia asiatica. La ceramica figurata ebbe nel periodo arcaico una grandissima fioritura, ciò che compensa solo in parte la quasi totale scomparsa della pittura. Oltre alla decorativa ceramica corinzia che terminò alla metà del sec. VI e all'elegante e delicata ceramica figurata laconica dal 600 al 540 a. C. ca., fabbriche di vasi figurati furono attive tra il sec. VII e il VI a. C. in diverse località greche. Il sec. VI fu dominato però dalla ceramica attica, prima a figure nere e poi, dal 530 a. C., a figure rosse. Diversi artisti, noti da opere sparse in tutti i musei del mondo, firmarono i loro vasi (per le figure nere è famoso Exechia; per le figure rosse si ricordano tra i molti Eufronio ed Eutimide). Il passaggio dall'arte arcaica a quella classica si ebbe attraverso lo stile severo, dalle guerre persiane alla metà del sec. V: in esso si fusero le precedenti esperienze e, superata l'astratta monumentalità arcaica, si affrontarono i problemi del naturalismo e del movimento. Il tempio di Zeus a Olimpia è, in Grecia, il capolavoro del periodo, soprattutto per le sue metope figurate e le sue sculture frontonali. L'architettura dei numerosi templi della Magna Grecia e delle colonie asiatiche è vicina a quella della madrepatria, anche se non mancano eccezioni (Olympièion di Agrigento, con le pareti esterne della grande cella sorrette da telamoni). Tra le sculture architettoniche, le metope del tempio E di Selinunte (Palermo, Museo Archeologico) si avvicinano nella loro intensità espressiva all'arte di Olimpia. Note solo da copie sono le opere dei maggiori scultori, come il gruppo dei Tirannicidi di Crizio e Nesiote, l'Afrodite Sosandra del delicato Calamide, il Discobolo di Mirone, in cui si ha un più libero articolarsi delle membra nello spazio. Non mancano però insigni originali di artisti anonimi, come i grandi bronzi dell'Auriga di Delfi (Delfi, Museo) o dello Zeus (o Poseidon) di capo Artemísion (Atene, Museo Archeologico Nazionale) e, tra i marmi, la testa dell'Efebo biondo dell'Acropoli e alcune belle stele attiche. La ceramica attica a figure rosse, nello stile detto per quest'epoca “grandioso”, in cui sono superati i problemi dello scorcio, sembra ispirarsi alle grandi figure eroiche e tragiche di Polignoto. "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 2 pp124-181" "Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 2 pp 124-181"

Arte: il periodo ellenistico

Il periodo classico dell'arte greca, dalla metà del sec. V alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.), ebbe il suo inizio, e anche il suo maggior splendore, nell'età di Pericle, in cui si raggiunse un felicissimo e uniforme equilibrio in tutto il mondo greco (i templi di Agrigento e Siracusa non si discostano dai canoni della madrepatria). L'Acropoli di Atene, nella nuova sistemazione periclea, accolse i monumenti più significativi dell'arte classica, dal Partenone dorico – anche se ingentilito dal lungo fregio continuo – di Ictino, l'architetto più famoso del tempo, ai propilei di Mnesicle (in cui l'ordine dorico si unisce a quello ionico), all'Eretteo di Filocle e al tempietto di Atena Nike di Callicrate, di pieno stile ionico . Tutti i più importanti santuari del mondo greco si arricchirono di templi dorici e quindi anche ionici e corinzi (i tre ordini furono impiegati insieme da Ictino nel tempio di Figalia), di tesori, di monumenti votivi, in un primo tempo ancora non coordinati tra loro, secondo un concetto che fu abbandonato del tutto solo in età ellenistica. Più rapidamente si regolarizzarono le città, che si impostarono su criteri urbanistici basati su assi ortogonali secondo il sistema detto ippodameo dal nome di Ippodamo da Mileto, autore della nuova sistemazione della città del Pireo, che Temistocle aveva congiunto ad Atene con le “lunghe mura” in un unico sistema difensivo. Le opere di fortificazione, in grossi blocchi perfettamente squadrati, difendevano e abbellivano le città (bastioni di Messene, fortezza di Eleutere in Beozia). L'agorá, centro politico e, in un secondo tempo, soprattutto commerciale, assunse aspetto monumentale con la costruzione di templi, di portici (stoá), di fontane monumentali, di altri monumenti pubblici (presso l'Agorá di Atene, della fine del sec. V, è anche il Theséion dedicato a Efesto, il tempio dorico meglio conservato). L'architettura teatrale ha importanti esempi nel sec. IV nel teatro di Dioniso ad Atene (il primo impianto è ancora del sec. VI a. C.), in quelli di Delfi e Megalopoli e nel teatro di Epidauro, dall'acustica ancor oggi perfetta, creato da Policleto il Giovane insieme alla thólos, edificio circolare corinzio riccamente ornato, che completa la sistemazione di quel santuario, il cui tempio di Asclepio, pure del sec. IV a. C., fu opera di Teodoto. Sale di riunione di nuova forma che danno sempre miglior struttura architettonica agli spazi interni sono, nel sec. V a. C., il Telesterio di Eleusi, opera di Ictino, il Bouleuterion dell'Agorá di Atene e, nel sec. IV a. C., la grande aula colonnata del Thersilion di Megalopoli. Notevole anche l'architettura funeraria, illustrata soprattutto dalle tombe reali di Macedonia, con sale a volta e ricca decorazione, da quelle principesche dell'Asia Minore (mausoleo di Alicarnasso, monumento delle Nereidi di Xanto) e dai vari tipi di monumenti della necropoli di Cirene. Assai più modesta, invece, l'edilizia privata, nota soprattutto dagli scavi di Olinto (distrutta nel 348 a. C.), con case molto regolari caratterizzate da un cortile interno con un portico (pastás) su uno dei lati; in alcuni ambienti sono i più antichi mosaici pavimentali figurati, formati da sassolini policromi. In tutto il mondo greco (tranne in qualche zona periferica) la scultura classica presenta differenze di qualità più che di stile e gli scultori nativi od operanti nelle diverse città si ispirarono all'uno o all'altro dei grandi maestri che, d'altra parte, erano chiamati a operare anche fuori della Grecia. Nella scultura del sec. V a. C. Policleto diede nobiltà ideale ai corpi dei suoi atleti e, nel Doriforo, un nuovo canone di proporzioni della figura umana, concepita come una costruzione architettonica, mentre Fidia impostò nuove concezioni artistiche nella grandiosità di composizione delle scene, nella serena idealizzazione delle sue figure maestose, nell'abilità di trattazione del panneggio, come si riscontra non solo nelle sculture del Partenone (in parte oggi al British Museum di Londra) ma anche nelle opere note solo da copie, come lo Zeus di Olimpia e l'Athena Parthénos. Accanto a lui operarono Agoracrito (autore della Nemesi di Ramnunte), Alcamene (il cui capolavoro è l'Afrodite dei giardini), Crésila (cui si deve un ritratto di Pericle). Alla corrente manieristica postfidiaca appartennero Callimaco, indicato dalle fonti come l'inventore del capitello corinzio, al quale si devono forse i rilievi “dal panneggio bagnato” della balaustra del tempietto di Atena Nike, e Peonio di Mende. Scultori ionici scolpirono nella seconda metà del sec. V a. C. i più antichi sarcofagi di Sidone (İstanbul, Museo Archeologico) e, poco dopo, i rilievi e le statue del monumento delle Nereidi di Xantos (Londra, British Museum). Gli scultori del sec. IV, reagendo all'idealizzazione fidiaca, diedero maggiore importanza all'uomo e ai suoi sentimenti. Famosi furono Prassitele, dolce e raffinato (forse originale è il famoso Ermete del Museo di Olimpia), Scopa, dalle figure colme di páthos, autore delle sculture del tempio di Atena Alea a Tegea, e Lisippo, lo scultore dell'ideale atletico, che fa muovere le sue figure nello spazio in piena tridimensionalità, introducendo l'arte ellenistica. La celebrità di questi artisti è attestata dalle fonti classiche e da numerose copie delle loro opere, che consentono di ricostruirne la personalità. Altri artisti famosi furono Cefisodoto, padre di Prassitele (gruppo di Irene e Pluto), Timoteo (scultore del tempio di Asclepio a Epidauro), Briasside (base votiva di Atene; famosa era la sua statua di Serapide ad Alessandria), Leocare (autore di un gruppo raffigurante Ganimede rapito dall'aquila), Silanione, noto per i suoi ritratti, Eufranore. La conoscenza della scultura dei sec. V e IV è completata da numerose opere anonime, anzitutto dalla serie di stele funerarie attiche (Atene, Museo Archeologico Nazionale). I nomi e le caratteristiche di numerosi pittori del periodo classico sono noti dalle fonti antiche e, indirettamente, dalla ceramografia contemporanea o da pitture e mosaici di età posteriore. Conquistato lo scorcio già alla fine del sec. VI a. C., si affrontarono nel V i problemi di ombreggiatura (Apollodoro skiagráphos, cioè pittore delle ombre) e di prospettiva (Agatarco “scenografo”).

Musica

La musica greca antica può essere considerata un fatto per noi definitivamente perduto, la cui reale portata ci è dato soltanto immaginare dall'importanza conferita all'arte dei suoni dal sistema educativo dell'età classica. Fin dalle prime testimonianze a noi note, i poemi omerici, la musica si rivela strettamente collegata alla poesia: si parla tra l'altro di cantori professionisti, gli aedi, che narravano gesta mitiche ed eroiche accompagnandosi con una sorta di cetra, la phórminx. Si definirono poi diversi generi di canto accompagnato da strumenti con la codificazione dei nómoi, nuclei melodici cui il poeta-musicista poteva rifarsi sviluppandoli. Si distinsero il nómos aulodico (canto e musica prodotta da un aulós) e auletico (destinato al solo strumento), e analogamente citarodico e citaristico. I grandi lirici, come Alceo, Archiloco, Saffo, furono poeti-musicisti; altrettanto si può dire degli autori di lirica corale. Vanno menzionati inoltre Terpandro, che perfezionò la lira portandone le corde da 4 a 7 (sec. VII a. C.) e Sacada, virtuoso di aulós (sec. VI a. C.). La musica aveva grande importanza nelle cerimonie religiose, nei giochi e nella tragedia; quale peso avesse nella formazione del cittadino greco è testimoniato soprattutto da Platone, che teorizzò anche sui riflessi etici del fatto musicale. Già nel sec. IV a. C. tuttavia, a opera di Filosseno e Timoteo, sembra che si apportassero radicali innovazioni al sistema classico. La decadenza cui ci si avviava nell'età ellenistica portò alla separazione dell'unità classica di musicista e poeta e all'affermarsi di professionisti virtuosi. Contemporaneamente si sviluppò la teoria musicale. La musica greca presentava senza dubbio punti di contatto con quella dell'Asia Minore; di origine asiatica furono considerati strumenti a fiato come il già citato aulós e la sýrinx. Altri strumenti erano la sálpinx (tromba), gli strumenti a percussione, come cimbali, sistri e crotali, e le varie forme di lira o citara (phórminx, bárbitos,magádis, péktis, ecc.). La musica era di natura monodica: l'accompagnamento strumentale consentiva però forme di eterofonia (lo strumento eseguiva la stessa melodia della voce improvvisando però abbellimenti e varianti). Ci sono giunti pochissimi frammenti di musica, tutti appartenenti all'età postclassica, a eccezione di un frammento del primo stasimo dell'Oreste di Euripide (pervenuto su un papiro di età romana, per cui la datazione della musica è discussa). Tra gli altri documenti sono due inni delfici ad Apollo (130 e 128 a. C.), l'epitaffio di Sicilo (sec. I d. C.), alcuni frammenti strumentali e due inni a Elio e a Nemesi attribuiti a Mesomede (sec. II d. C.) e nel sec. XVI pubblicati da V. Galilei, la cui musica secondo alcuni studiosi è però una ricostruzione di un dotto bizantino. Molto dubbia è l'autenticità dell'inizio di un'ode pitica di Pindaro pubblicata da A. Kircher nel 1650. La teoria musicale, di cui è impossibile stabilire con certezza la concreta rispondenza alla pratica, ci è tramandata in numerosi testi e ha influenzato largamente la teoria medievale e rinascimentale. Base del sistema era il tetracordo, insieme di quattro note formanti due intervalli di tono e uno di semitono. La diversa posizione dei semitoni caratterizzava le armonie (o modi) dorica, frigia e lidia, che venivano a formare scale composte dall'unione di due tetracordi dello stesso genere. Si è soliti far corrispondere il dorico a una scala diatonica discendente da mi a mi, il frigio da re a re, il lidio da do a do. Asimmetrica è invece l'armonia misolidia (da si a si). Con lo spostamento dei tetracordi si ottenevano le armonie iperdorica, iperlidia e iperfrigia (una quarta sopra) e ipodorica, ipolidia e ipofrigia (una quarta sotto). Si distinguevano inoltre i generi diatonico, cromatico ed enarmonico, per cui, restando immutate le note estreme del tetracordo, variavano gli intervalli all'interno. Dunque un tetracordo dorico nel genere diatonico si configura in senso discendente (mi-re-do-si), cromatico (mi-do#-do-si), enarmonico (mi-do seguito dalla divisione del semitono do-si in due parti di tono). La trattatistica ci tramanda due sistemi di notazione alfabetica, uno per la musica vocale e uno per quella strumentale. Dopo le età ellenistica e romana si sviluppò in Grecia il canto bizantino.

Teatro

La prima figura di rilievo nelle vicende del teatro greco fu quella, tra storia e leggenda, di Tespi, attore, drammaturgo, regista e impresario venuto ad Atene dall'Icaria nel sec. VI a. C., per tradizione l'inventore della tragedia. Sull'origine di questo genere la discussione è tuttora aperta: l'antecedente immediato era il ditirambo, componimento poetico corale collegato al culto di Dionisoma le radici più profonde si collocavano verosimilmente nelle cerimonie magico-religiose legate alla vita dei campi e alla vita degli uomini, nel culto degli eroi e in riti esoterici sotto l'egida dello stesso Dioniso o di Demetra. Tespi unì al coro del ditirambo un vero e proprio intreccio, staccò dal coro un personaggio (hypocrites) che con esso si pose in dialogo, modificò la maschera costruendola non più con cortecce d'albero ma con stucchi e stracci. Nel 535 a. C. Pisistrato stabilì che, in occasione delle annuali Dionisie, alle manifestazioni sportive, religiose e musicali si affiancasse una gara fra tre poeti drammatici, scelti da un apposito funzionario, ognuno dei quali avrebbe dovuto presentare tre tragedie e un dramma satiresco. La città pagava l'autore, il coro e gli attori solisti (due e poi tre, sempre uomini, che potevano interpretare nel corso di un'opera più personaggi), mentre alle altre spese provvedeva un ricco cittadino, il corego. Il poeta aveva anche il compito di scrivere le musiche, istruire il coro e gli attori, ideare la coreografia e assumere, insomma, la responsabilità totale dello spettacolo. Alla fine una giuria stabiliva una graduatoria fra i tre contendenti assegnando i rispettivi premi. Assistevano alla recita almeno 1600 spettatori, in origine ammessi gratuitamente, poi dietro pagamento di una piccola somma. Dal 422 a. C. la competizione tra autori comici avvenne invece durante le Lenee, altra festa in onore di Dioniso. All'origine della commedia, il secondo dei due generi teatrali fondamentali, furono probabilmente riti grotteschi, danze licenziose e beffe di villaggio. La sua prima forma (commedia attica antica) fu strutturalmente assai simile a quella della moderna rivista: una mescolanza di scenette d'attualità, di feroci allusioni personali, di episodi scurrili, cui si aggiunsero, nel caso di Aristofane, brani di straordinario lirismo. Soltanto verso la fine del sec. IV a. C. (commedia attica nuova) il genere assunse carattere di vicenda coerente, con personaggi standardizzati. Commedie e tragedie erano presentate nei teatri, la cui forma – passata da un semplice spiazzo in terra battuta a un insieme di strutture lignee e quindi di pietra – si conosce soltanto nell'ultima conclusiva versione attraverso rovine monumentali non anteriori al sec. IV a. C., collocate ai piedi di una collina, incavata in modo da accogliere le gradinate per il pubblico, e comprendenti anche un'orchestra destinata al coro e ai danzatori e una skené, specie di baracca di legno che in origine serviva agli attori soltanto per cambiarsi e che divenne poi un elemento scenografico (sebbene non vi fosse una vera e propria scenografia ma si facesse uso di macchine per effetti speciali). L'attore tragico, per rendersi meglio visibile agli spettatori, spesso seduti a distanza di alcune decine di metri, portava una grossa maschera, modellata a grandi linee secondo i tratti che si confacevano al carattere del personaggio rappresentato, e i coturni, cioè scarpe dalla suola molto spessa, che lo rendevano non solo più visibile, ma anche fisicamente più imponente, come si conveniva al dio o all'eroe che era chiamato a impersonare. Indossava inoltre elaborati e pesanti costumi, che intralciavano la sua mobilità, tanto che probabilmente comunicazione ed espressione erano affidate soprattutto al gesto e alla voce, quest'ultima in una sorta di nenia monodica accompagnata dalla musica. All'attore protagonista erano concessi vari privilegi: poteva vincere un premio speciale in occasione dei vari concorsi, era esente dal servizio militare ed era autorizzato a partecipare ad agoni drammatici anche in altre città (un successo ad Atene gli assicurava prestigio e onori). Diverso era l'aspetto dell'attore comico: la sua maschera era grottesca, il suo costume caratterizzato dalla presenza di un enorme fallo, residuo forse di remoti riti dionisiaci, la sua recitazione ricca di gesti scurrili e di trovate esteriori. Quando poi le condizioni di Atene mutarono e alla libertà della commedia attica antica si sostituirono le commedie di Menandro e degli altri autori “nuovi”, cambiò anche, ma non si sa come, lo stile di recitazione, mentre il carattere realistico dei testi impose scene più costruite e un diverso rapporto fisico tra attore e pubblico. L'epoca d'oro del teatro greco era però finita: l'età ellenistica vide soltanto una grande diffusione di edifici teatrali sul modello ellenico in vari centri del Vicino e del Medio Oriente, riprese e sistemazioni, anche filologiche, dei capolavori del sec. V e spettacoli nei quali contavano soprattutto l'attore e la scenografia. Nacque in compenso il mimo. Poi la Grecia divenne provincia degli imperi romano, bizantino e ottomano.

Danza

Le prime manifestazioni della danza ellenica, che ebbe uno sviluppo eccezionale ed esercitò sempre enorme influenza sulla danza classica e libera, risalgono alla fine del II millennio a. C. e la loro evoluzione si compì con l'acquisizione di elementi egizi, ebraici (figurazioni acrobatiche e pantomimiche) e cino-indiani (espressività religiosa e moralità cinese), elaborati e ricreati con amore da un popolo per il quale ideale supremo fu l'equilibrio armonico del corpo e dello spirito – la euritmia –, raggiunto con la perfetta unità lirica di danza, musica e poesia (gli stessi Eschilo, Sofocle e Aristofane furono musici, poeti, coreografi e anche danzatori). Considerata di origine divina e comprensiva di manifestazioni eterogenee come parate militari, processioni ed esercizi ginnici, la danza greca si divideva in orchestica e palestrica. Per comodità di studio si accoglie anche in questa sede la suddivisione operata da Nietzsche in danze apollinee e danze dionisiache: severe, etiche e rituali le prime, orgiastiche e scomposte le seconde. Alle danze apollinee – di origine cretese o dorica – appartengono la grave emméleia, danza della tragedia, che conobbe grande fortuna con Frinico ed Eschilo; la danza ciclica del géranos (farandola della gru o danza degli Ateniesi a Delo); il gioioso peana, danza magica apotropaica cantata ed eseguita da tutto il coro; e la vivace iporchematica, tendente al dionisiaco. Nello stesso gruppo un posto a sé occupano le danze didattiche (gimnopediche), prima fra tutte la pirrica o danza rossa (pyrríchios), ideata secondo Platone dalla dea Atena ed eccelsa tra le danze guerriere, tutte poste alla base dell'arte militare e comprendenti, fra l'altro, anche la thermastrís, danza dai movimenti convulsivi, e la xiphismós, danza con la spada. Alle danze dionisiache, di origine tracica e ionio-asiatica, violente e satiresche, appartengono l'acrobatico óklasma, di origine persiana, la vivace e volgare danza della commedia kórdax (cordace) e la scurrile sikinnis (sicinnide), propria del dramma satiresco. Anche fuori dell'ambito teatrale si svilupparono numerosissime danze: private (prevalentemente conviviali) e popolari (tra cui la danza del torchio o del palmento, sulla vendemmia, e la hórmos o danza della collana). Le figurazioni della danza ellenica – che secondo la tecnica esecutiva può essere suddivisa in processionale, mimetica, cinetica e acrobatica – sono giunte fino a noi attraverso innumerevoli testimonianze archeologiche (soprattutto della pittura vascolare), letterarie (Plutarco, Luciano, Senofonte, Polluce), metriche e musicali, ma il tentativo di riprodurre su queste basi un'antica danza è di somma difficoltà. In questo senso va ricordata l'opera di Dora Stratou, creatrice del Teatro della danza greca ad Atene, attiva dal 1953 come regista di spettacoli di danza popolare comprendenti danze greche antichissime come le cretesi pentozali e sousta e la chaniotiko, ma anche danze moderne come la tráta, derivata dall'emméleia.

Per la storia

Per l'epoca arcaica, classica ed ellenistica: A. J. B. Wace, W. A. Heurtley, Prehistoric Macedonia, Cambridge, 1939; S. Accame, La formazione della civiltà mediterranea, Brescia, 1966; G. Giannelli, Trattato di storia greca, Roma, 1967; P. Leveque, L'avventura greca, Torino, 1970; M. Sordi, Storia greca, Milano, 1971; F. Moses, La Grecia dalla preistoria all'età arcaica, Bari, 1972; C. Brandi, Viaggio nella Grecia antica, Roma, 1990.

Per l'epoca romana: S. Accame, Il dominio romano in Grecia dalla guerra arcaica ad Augusto, Roma, 1946; A. H. M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d. C.), Oxford, 1964; D. Fustel de Coulanges, Numa, Palybe ou la Grèce conquisée par les romains, Napoli, 1984.

Per la religione antica

Trattazioni generali: R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino ad Alessandria, Torino, 1953; R. Crahay, La religion des Grecs, Bruxelles, 1966; E. De Places, La religion grecque, Parigi, 1969; A. Brelich, I greci e gli dei, Napoli, 1985.

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Per il cristianesimo

Fr. Dvornik, Lo scisma di Fozio. Storia e leggenda, Roma, 1953; R. Janin, Les Eglises orientales et les rites orientaux, Parigi, 1955; S. Bulgakov, L'ortodoxie, Parigi, 1958; J. Meyendorff, L'ortodossia ieri ed oggi, Roma, 1959; P. Endokimov, L'ortodossia, Bologna, 1965.

Per la filosofia

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Per la lingua

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Per la musica

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Per il teatro

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