Àsia (geografia)

Indice

Generalità

L'Asia è la parte più estesa del mondo – poco meno di un terzo delle terre emerse – nonché la più popolata, ospitando oltre la metà dell'intera popolazione della Terra. Nei primi anni del nuovo millennio, il continente, soprattutto nella sua parte meridionale e orientale, sta conoscendo una straordinaria quanto repentina crescita economica che ha portato alcuni Paesi (Cina, India, Corea del Sud) a inserirsi nel novero delle nazioni più dinamiche del mondo in termini economici. L'Asia è quasi interamente situata nell'emisfero boreale, con le sue appendici periferiche appare quasi congiunta alle masse dell'Africa, dell'America Settentrionale e dell'Oceania. Considerata nella sua unità strutturale, essa ingloba a occidente anche l'Europa, con la quale costituisce la cosiddetta Eurasia, termine consolidato e aderente alla reale situazione delle terre emerse. I limiti tra Asia ed Europa sono in effetti convenzionali, ricercati alquanto artificiosamente dai geografi, che li hanno individuati in funzione un po' strutturale e un po' morfologica negli Urali, nelle sponde meridionali del Mar Caspio, nel Caucaso, nella costa del Mar Nero e nei Dardanelli. Altrove i limiti dell'Asia sono designati naturalmente tranne che in corrispondenza della sua saldatura con l'Africa (dove limite il convenzionale è il canale di Suez) e nella parte sudorientale dove gli arcipelaghi indonesiani formano una sorta di ponte verso le terre dell'Oceania (Australasia). Qui sono i mari di Timor e delle Molucche che costituiscono gli elementi divisori più convincenti. Anche a E lo stretto di Bering rappresenta un angusto solco divisorio nei confronti dell'America Settentrionale, la quale con l'Asia fa corona al Mar Glaciale Artico. Con la sua grande estensione e la sua massiccia struttura, intorno alla quale si allargano e si frammentano gli altri continenti, l'Asia rappresenta una sorta di matrice delle masse continentali, ospitando tutte le possibili condizioni e i modi di essere delle loro superfici. L'Asia è stata sede di alcune delle prime e più alte manifestazioni dell'uomo e della civiltà. Per molto tempo con il termine Asia si tendeva semplicemente a contrapporre, in senso eurocentrico, questo vasto mondo all'Europa: tale contrapposizione risale a epoche antiche, come lucidamente rilevò il greco Erodoto, quando la civiltà europea aveva i suoi fuochi nel Mediterraneo e si riconosceva un'Asia che guardava a questo mare (l'Asia Minore) come appendice di terre più vaste e mal conosciute. Relativamente recente è una prima distinzione tra Asia occidentale e Asia orientale, dette anche Medio ed Estremo Oriente, denominazioni, d'incerti confini, derivanti dalla nomenclatura coloniale britannica. Oggi all'Asia sono riconosciute realtà molto diverse. La nozione di “asiatismo” è ormai abbandonata in quanto un'unità dell'Asia è difficilmente riconoscibile dal punto di vista antropogeografico, cioè comprensiva di aspetti naturali e culturali. L'Asia si compone invece di regioni con caratteri molto diversi e se il termine “asiatico” è ancora giustificabile, ciò vale soltanto per quanto riguarda la considerazione delle dimensioni, della grandiosità degli aspetti geografici, suggerita dal fatto che in Asia si trovano pianure immense, fiumi grandiosi per lunghezza e portata idrica, le montagne più alte della Terra, la maggior parte della popolazione mondiale. L'Asia è dunque una realtà vasta e complessa. Nel suo insieme tuttavia si possono riconoscere e circoscrivere alcune grandi regioni che, se considerate singolarmente, presentano caratteri ambientali relativamente omogenei, nei quali si ritrovano anche manifestazioni umane e culturali coerenti che sembrano rispecchiare l'unità naturale. Esse corrispondono all'Asia occidentale, regione arida segnata dalla cultura e dalla religione islamica, all'Asia meridionale, che comprende il mondo indiano, e all'Asia sudorientale (quest'ultima identificazione ben confermata anche dalla storia recente e dalla geopolitica), all'Asia orientale, che include il grande mondo cinese e l'antistante arcipelago giapponese, e infine all'Asia settentrionale e centro-settentrionale, che fa parte politicamente della Russia. Questa generale partizione ha le sue prime motivazioni nella struttura geologica del continente.

Geografia fisica: i lineamenti strutturali

Pur nella vastità e nella varietà delle sue articolazioni, l'Asia ha una struttura che si può delineare in modo relativamente semplice e schematico. Essa si compone di alcune porzioni rigide e geologicamente stabili attraversate da una grande fascia di rilievi disposti nella direzione dei paralleli; questa fascia montuosa è collegata e contrapposta alla frammentata e instabile fascia marginale del continente sul lato del Pacifico. L'insieme forma una sorta di grande T. A partire da W, dove si salda al sistema alpino, la grande fascia montuosa è formata dalle catene che orlano l'Asia Minore, dal Caucaso, dall'Elburz, dall'Hindu Kush e dal Pamir; dopo questo grande nodo orografico essa continua da un lato verso i rilievi che orlano le terre siberiane (Tian Shan, Altaj ecc.) prolungandosi sino allo stretto di Bering, dall'altro nel Kunlun Shan, nel Karakoram-Himalaya, la più possente ed elevata catena del globo, che a sua volta continua verso S nei fasci di catene che formano la penisola indocinese e infine negli arcipelaghi dell'Insulindia. Questi rappresentano una sorta di fronte instabile sul lato meridionale del continente e si annodano, intorno al Borneo, agli arcipelaghi che fronteggiano l'Asia orientale: una successione di grandi isole e di archi insulari, dalle Filippine al Giappone, alla penisola di Kamčatka, che racchiude una serie di mari interni, poco profondi, e cioè i mari della Cina, il Mar del Giappone, il Mare di Ohotsk. La fascia orientale che borda il continente può considerarsi come una grande geosinclinale in evoluzione: la sua instabilità strutturale è testimoniata dal vulcanismo e dall'alta sismicità che inserisce questa parte dell'Asia nella “cintura di fuoco” circumpacifica. Le grandi fasce montuose e instabili del continente hanno la loro armatura nelle masse rigide rappresentate dalle vaste superfici spianate o di bassi rilievi che formano la sezione settentrionale o siberiana del continente, digradante al Mar Glaciale Artico, e le due masse peninsulari dell'India e della Penisola Arabica bagnate dall'Oceano Indiano. Prevalgono per estensione le aree rigide e stabili; in quelle geologicamente attive e instabili sono presenti tutti i possibili stadi orogenetici della crosta terrestre; per questo motivo l'Asia offre le più svariate forme del rilievo.

Geografia fisica: evoluzione e formazioni geologiche

Il rilievo asiatico è il risultato delle principali vicende geologiche che hanno interessato la Terra dall'iniziale frammentazione della Pangea in due grandi continenti: la Laurasia a N, il Gondwana a S. Della prima faceva parte tutta la massa oggi situata a N della grande fascia di rilievi che ha la sua base strutturale nello Scudo Angarico e nello Scudo Sinico, uniti, nel Paleozoico, a formare il continente di Angara; al secondo appartenevano le masse meridionali, cioè le penisole arabica e indiana. Il continente di Angara era separato dalla sezione occidentale, nordatlantica, della Laurasia da una geosinclinale da cui emersero i rilievi ercinici degli Urali; da altre geosinclinali che si stendevano ai margini del continente di Angara sorsero, durante le fasi orogenetiche caledoniana ed ercinica, i rilievi costituenti il Kunlun Shan, il Tian Shan e le catene che orlano la regione siberiana, tra cui i monti Altaj, i monti Saiani e le catene transbajkaliche, dando origine alla vasta piattaforma di subsidenza siberiana (Bassopiano Occidentale Siberiano). Di questi rilievi, i più interni sono caledoniani, i più esterni e pronunciati ercinici. Ma la vicenda decisiva per l'Asia si collega alla formazione della grande geosinclinale Tetide, apertasi subito a S degli antichi rilievi ed estesa dal Mediterraneo alla Cina. Alla sua evoluzione, iniziata già nel Paleozoico, si deve la formazione dei grandi e più giovani rilievi, come l'Elburz, l'Hindu Kush, l'Himalaya ecc. Il gigantesco corrugamento, che sollevò ingenti masse sedimentarie accumulate nella fossa geosinclinale, si inquadra in una crisi generale della crosta terrestre. Esso in particolare fu collegato al movimento delle masse indoarabiche che, staccatesi dal Gondwana, si spostarono verso N, accostandosi alle masse settentrionali; allo sviluppo particolare della fascia montuosa contribuì la controspinta esercitata dalle masse sinica e angarica. Il rilievo che ne è derivato, e che si è venuto definendo soprattutto nell'era cenozoica, è molto complesso. Infatti tutta la fascia montagnosa è caratterizzata sia da veri e propri corrugamenti a pieghe e faglie di ricoprimento intruse da gigantesche masse cristalline, sia da imponenti dislocazioni verticali di zolle interposte. A queste dislocazioni si deve la formazione degli altopiani dell'Anatolia, dell'Iran e dell'Afghanistan, del Turkestan orientale, del Tibet, della stessa Mongolia, regione tabulare compresa tra lontani allineamenti montuosi. Ai contraccolpi dell'orogenesi cenozoica si deve anche il ringiovanimento delle catene circumsiberiane come il Kunlun Shan, il Tian Shan, l'Alatau, l'Altaj e le catene a E del lago Bajkal, queste ultime già in parte emerse nel Mesozoico. Si ebbero anche fratture e sprofondamenti, che formarono tra l'altro il lago Bajkal e le depressioni della Zungaria, tra il Tian Shan e l'Altaj, di Turfan (-154 m), dell'Issyk-Kul', del lago Balhaš ecc. Sempre in concomitanza con i grandi sconvolgimenti cenozoici si ebbe la formazione delle vaste superfici depressionarie che si stendono subito ai margini della fascia montagnosa, i bassopiani alluvionali dell'Asia centrale (o aralo-caspici), per lungo tempo costituenti un grande mare interno, e quelli dell'Indo, del Gange, della Mesopotamia e della Cina orientale. Il generale assestamento del continente non lasciò immuni neppure le masse indo-arabiche, che risultarono alla fine inclinate verso E: a tale movimento “basculatorio” si deve la nascita degli orli montuosi che dominano il Mar Rosso nella Penisola Arabica – sollevatisi in seguito alla frattura che separò l'Asia dall'Africa – e dei Ghati nella penisola del Deccan. Nel Cenozoico iniziò anche l'evoluzione delle fasce orientali e meridionali del continente. L'Asia è sempre stata in realtà un'area instabile: le strutture più antiche si trovano nel Borneo e nel Giappone, ma già alla fine del Paleozoico esistevano geosinclinali alla cui evoluzione si deve la nascita degli attuali arcipelaghi dell'Estremo Oriente e dell'Indonesia e successivamente dei più esterni archi insulari che si allineano dalle Andamane e Nicobare attraverso le Mentawai fino a Timor. Il distacco dell'arco interno dal continente con la formazione dei mari poco profondi interposti risale al Pliocene. L'evoluzione di tutta questa fascia marginale è ancora in atto e ciò può essere indicato dalla stessa presenza delle fosse marine (che raggiungono profondità rilevanti, come nell'abisso delle Filippine, la cui quota negativa massima è di 10.500 m). Il vulcanismo è del resto attivissimo ovunque, dall'Indonesia alle Filippine, al Giappone, alla Kamčatka. Neppure del tutto assestata è la fascia mediana dei rilievi asiatici: gli ultimi sollevamenti dell'Himalaya risalgono infatti al Pliocene. Anche nella sezione occidentale, cioè in Anatolia e nell'altopiano iranico, alcune grandi faglie provocano frequenti terremoti indicando un processo di assestamento ancora in atto. § In rapporto a questa evoluzione si hanno formazioni geologiche molto varie. Le armature continentali, in particolare lo Scudo Sinico e lo Scudo Angarico, sono costituite da rocce cristalline archeozoiche (graniti, gneiss, quarziti) che affiorano nell'Altopiano Siberiano, nei monti bajkalici, nella Cina orientale ecc. Con formazioni cristalline non tanto diverse le strutture arcaiche affiorano anche nella Penisola Arabica e soprattutto nel Deccan, dove i monti Aravalli, che lo orlano a N, sono tra i più antichi rilievi terrestri. La sezione nordoccidentale del Deccan è estesamente coperta da formazioni vulcaniche dovute a espandimenti di rocce effusive (trapps). Vaste coperture sedimentarie obliterano le rocce più antiche; ciò si verifica in modo più caratteristico nella Penisola Arabica dove si trovano tavolati sedimentari di diverse epoche che digradano verso il Golfo Persico ospitando ricchi giacimenti petroliferi. Potenti stratificazioni sedimentarie, che raggiungono spessori superiori ai 5000 m, coprono anche il Bassopiano Siberiano e in esse è rappresentato un gran numero di orizzonti, dal Paleozoico al Neozoico. Tavolati sedimentari, per lo più di formazione continentale (come la serie tipica del Wealdiano, che risale al Mesozoico), si trovano anche in Mongolia, dove sono venuti alla luce cospicui giacimenti di dinosauri fossili. Nella fascia dei rilievi cenozoici le formazioni sono più varie: nelle grandi catene predominano formazioni metamorfiche e masse granitiche; falde sedimentarie costituiscono le fasce marginali più estese e talora anche le zone interne, là dove il rilievo ha subito minori corrugamenti. Oltre al Mesozoico, è rappresentato anche il Cenozoico (per esempio nella fascia esterna himalayana). Le coperture neozoiche interessano vaste sezioni del continente e in particolare tutti i grandi bassopiani e le valli. Si trovano sia formazioni alluvionali sia depositi glaciali e ciò in rapporto ai diversi processi dell'attività esogena, che è stata intensa specialmente in corrispondenza dei rilievi più elevati. Le formazioni glaciali sono presenti in tutta la fascia montuosa, anche se ad altitudini diverse, e nella parte settentrionale della regione siberiana. Estese sono le formazioni di löss che nelle fasi aride hanno investito tutta l'Asia centrale e la regione cinese settentrionale, cioè le aree immediatamente vicine alle zone desertiche più interne. Negli arcipelaghi predominano le formazioni vulcaniche, da cui derivano quei suoli fertilissimi che spiegano in parte l'elevata densità di popolazione di molte isole.

Geografia fisica: i lineamenti morfologici

Le forme generali assunte dalle superfici continentali dell'Asia variano in rapporto all'orogenesi e alla geologia; per quelle di dettaglio ha profonda incidenza il clima. Nell'Asia occidentale i rilievi cenozoici sono rappresentati dal Caucaso, che nell'Elbrus (5642 m) raggiunge la massima altezza di tutta la regione, e dalle catene periferiche dell'Anatolia e dell'altopiano iranico. Tra esse spicca il grande sistema che dal Tauro continua nello Zagros e nel Makrān allacciandosi, nell'acrocoro armeno, all'Elburz e più oltre ancora al Kopet Dağ e al Paropámisus. Si hanno montagne a pieghe e anche massicci cristallini; però le montagne più elevate sono grandi coni vulcanici (Ararat, 5165 m; Damāvand, 5670 m). Ampi bacini depressionari, coperti di materiali sedimentari, si interpongono tra gli allineamenti montuosi. Il clima arido o semiarido determina una morfologia propria delle aree desertiche, con estesi endoreismi, laghi salati, depressioni sabbiose (deserti del Lut, del Registan). Una più accentuata morfologia desertica si ha nella regione siro-arabica, la cui struttura è essenzialmente tabulare. Unica grande pianura alluvionale è quella mesopotamica; altrove scarpate rocciose ed eminenze di antichi rilievi dominano depressioni sabbiose, la maggiore delle quali è, nella Penisola Arabica, il Rub'al Khālī. Nella stessa penisola l'alta orlatura occidentale costituisce una regione a sé, con le sue elevate scarpate che dominano la costa del Mar Rosso. Con l'Hindu Kush inizia la fascia delle grandi catene montuose: esso introduce in un'Asia nuova, l'Asia delle alte terre, ponendosi come barriera divisoria tra Asia meridionale e Asia centrale. Questa è formata dai grandi bassopiani aralo-caspici, una regione arida, endoreica, che ha le sue massime depressioni nel bacino del Mar Caspio, il cui pelo dell'acqua è a 28 m sotto il livello del mare. Anche qui si trova un vasto deserto sabbioso, il Karakumy, quasi del tutto privo di affioramenti rocciosi. Questa regione continua verso E nel Turkestan orientale, che comprende il bacino del Tarim e la depressione zungarica che costituisce il passaggio naturale tra il Turkestan occidentale e gli altopiani mongolici. Questi hanno struttura tabulare, un'altitudine media di ca. 1000 m s.m. e sono intercalati da depressioni sabbiose, come quella che forma il deserto del Gobi. Oltre questa fascia arida si elevano i rilievi circumsiberiani, che iniziano con il Tian Shan (7439 m), continuano con l'Alatau (4464 m), con l'Altaj (4506 m) e i monti Saiani e Hangay, notevolmente più bassi. Sono tutti rilievi che presentano forme mature e che via via si addolciscono e si abbassano, procedendo verso E, nelle catene transbajkaliche dei monti Jablonovyj, Stanovoj, Džugdžur e Kolyma. Le catene più orientali hanno un andamento meridiano e toccano i 3147 m s.m. nei monti Čerski e i 4750 m s.m. nel vulcano Ključevskaja Sopka che domina i monti della Kamčatka. L'Altopiano Siberiano è una regione formata da lievi ondulazioni levigate dai ghiacciai pleistocenici e l'antico substrato cristallino appare a nudo su vaste superfici. La fascia dei rilievi che dall'Hindu Kush e dal Pamir continua nel Karakoram e nell'Himalaya presenta una successione di massicci che senza grandi valichi si mantengono tutti a quote molto elevate. Sia il Pamir sia l'Hindu Kush hanno vette superiori ai 7000 m, mentre nel Karakoram e nell'Himalaya vi sono sei cime che superano gli 8000 m (l'Everest, nell'Himalaya, è alto 8848 m, ed è il monte più alto della Terra; il K2, nel Karakoram, 8611 m). L'altopiano tibetano, che si stende tra Himalaya e Kunlun Shan, è situato ad altezze comprese tra i 4000 e i 5000 m s.m.; non è uniforme, ma presenta zone tabulari e vallate dominate da antiche catene. Queste si vanno via via configurando in modo più marcato verso SE, dove gradatamente si abbassano fino a spegnersi a S nelle pianure alluvionali indocinesi e a E nell'avampaese collinoso della Cina. Vallate lunghe centinaia di chilometri, aspre, profonde, intercalano questi fasci montagnosi. Sul lato meridionale l'Himalaya scende verso le pianure indiane con versanti ripidi orlati in basso da una fascia collinosa d'origine recente (Siwalik). La pianura gangetica è ampia alcune centinaia di chilometri e costituisce una delle più caratteristiche piane alluvionali della Terra; non molto meno estesa è, invece, quella dell'Indo. Più a S il Deccan si presenta delimitato da orlature montagnose a N (monti Aravalli, monti Vindhya) e dalle alte scarpate dei Ghati ai lati. L'interno è tabulare là dove si hanno terreni vulcanici, mentre il resto presenta le forme di penepiani ondulati che si elevano, a S, nei Ghati Meridionali (2695 m). Forme poco aspre hanno anche i rilievi della penisola di Malacca e delle maggiori isole indonesiane, dove le catene montuose sono sovrastate da edifici vulcanici in attività. A Sumatra il Kerinci raggiunge i 3805 m, a Giava il Semeru i 3669 m. Anche le più piccole isole della Sonda, formanti una corona che si raccorda ad arco ai bracci di Celebes, sono dominate da vulcani che superano spesso i 3000 m s.m. Nel Borneo, una delle più grandi isole della Terra, si hanno montagne dalle forme mature che dominano estesi penepiani e pianure alluvionali. Il paesaggio vulcanico riappare nelle Filippine, arcipelago formato da piccole e grandi isole che si trova sull'allineamento insulare di Formosa, delle Ryūkyū, dell'arcipelago giapponese e delle Curili. Nella più grande isola del Giappone, Honshū, si elevano catene dalle forme aspre (le Alpi Giapponesi), ma altrove è ancora un paesaggio vulcanico che ha il suo vertice nella conica mole del Fuji (3776 m). Sui mari interni chiusi da questo grande arco insulare hanno le loro terminazioni le pianure alluvionali della Cina e i bassi rilievi che le delimitano; più a N il profilo costiero è formato dalle diramazioni dei rilievi della Manciuria e della Corea ed è perciò molto articolato.

Geografia fisica: il clima

L'Asia è situata per gran parte a N del Tropico del Cancro, a S del quale essa spinge le grandi penisole bagnate dall'Oceano Indiano; soltanto una parte degli arcipelaghi indonesiani si trova nell'emisfero australe. Questa estensione boreale delle terre asiatiche, che a N chiudono il Mar Glaciale Artico, è sommamente importante per spiegare il clima del continente, che con la sua ampiezza e l'imponenza delle sue catene montuose rompe i normali schemi della circolazione atmosferica terrestre. L'Asia in effetti frappone all'Oceano Indiano, all'oceano Pacifico e in parte anche all'oceano Atlantico tutta la vastità delle sue terre. La continentalità raggiunge in Asia le sue più esaltate manifestazioni; per contro, limitati sono gli influssi oceanici, specie a N, dove si stende il Mar Glaciale Artico, che resta ghiacciato per larga parte dell'anno, e a SW, dove l'Asia si salda all'Africa, che agisce da grande schermo. Dal punto di vista termico la continentalità registra i suoi eccessi maggiori proprio su questi due lati: nella regione siberiana orientale si ha il “polo del freddo”, con minime assolute anche inferiori a –70 ºC, medie di gennaio pari a –48 ºC e temperature estive di poco superiori a 10 ºC; nell'Asia occidentale si hanno invece gli eccessi opposti con massimi assoluti di 55 ºC (deserto del Lut), con medie estive, di luglio, di 35 ºC (Golfo Persico) e medie di gennaio di 10 ºC. Questi valori estremi si attenuano nelle zone intermedie, dove però sempre forti possono essere le escursioni stagionali e giornaliere, e nelle aree più esposte agli influssi oceanici, dove anche le escursioni si affievoliscono. Valori equilibrati si riscontrano per esempio in tutta la parte più meridionale affacciata all'Oceano Indiano, e in particolar modo nell'Indonesia. La forte continentalità è all'origine delle masse d'aria stabili che si formano d'inverno quando le basse temperature provocano condizioni di alte pressioni e quindi situazioni anticicloniche che respingono gli influssi dall'esterno, cioè delle masse d'aria di origine oceanica. Queste masse continentali giungono sino alle regioni periferiche e ne risentono in particolare i climi delle estreme regioni occidentali (e dell'Europa stessa), della Cina e del Giappone, mentre insensibile è la loro azione nell'Asia meridionale, protetta dai grandi baluardi montani, che solo nei loro varchi lasciano aperta la circolazione (è quanto succede per esempio tra Asia centrale e Sīstān, dove spira un caratteristico e forte vento, il sad-u-bist ruz). Questa situazione viene rimossa con le invasioni stagionali, tra la primavera e l'autunno, delle masse d'aria d'origine marittima, sia tropicali sia polari. Le prime si connettono alla cosiddetta circolazione monsonica, cioè ai “monsoni di mare” (opposti ai “monsoni di terra” che si verificano d'inverno), venti periodici che investono tutta la facciata meridionale del continente, le penisole indiana e indocinese e la Cina meridionale. I monsoni sono sostanzialmente degli alisei che la corrente a getto deviata dall'Himalaya tende a spostare d'inverno verso S, dando così alternanza stagionale ai venti stessi. Essi si manifestano da giugno a settembre con invasioni di masse d'aria cicloniche da SW, talora notevolmente violente, apportando abbondanti precipitazioni. Nella circolazione ciclonica da SE si inseriscono i tifoni, manifestazioni proprie dell'ambiente marittimo tropicale, che si abbattono violenti e disastrosi sulle coste del Giappone meridionale, delle Filippine ecc. Le masse d'aria marittime polari investono solo la sezione nordorientale sul lato del Pacifico, tutta la parte nordoccidentale, attraverso le pianure europee, sul lato atlantico. Alle masse marittime tropicali d'origine atlantica è infine sottoposta la piccola sezione mediterranea dell'Asia. Anche gli influssi marittimi, come quelli continentali, sono ostacolati dalle maggiori catene montuose, fatto che spiega tra l'altro la grande fascia arida dell'Asia che va dalla Penisola Arabica all'Asia centrale fino alla Mongolia; nell'Asia occidentale l'aridità è però dovuta al fatto che la regione è esclusa dalla circolazione dell'aria marittima a causa della presenza dell'Africa e della direzione propria dei venti periodici. Sulla base di questo schema generale si possono capire gli eccessi, propriamente asiatici, anche nella distribuzione delle precipitazioni. Le aree più piovose sono quelle monsoniche, benché il regime delle piogge sia qui tropicale, a due stagioni: nel Golfo del Bengala, ben esposto al soffio del monsone, si registrano precipitazioni annue che toccano a Chittagong gli 8000 mm; ma la media delle precipitazioni nell'area monsonica è di 1500 mm. Valori superiori si registrano nella regione equatoriale dell'Insulindia, che ha regime pluviale, con piogge quasi a ogni stagione. Precipitazioni sino a 2000 mm si hanno anche nell'ambiente subtropicale esposto al Pacifico (Cina meridionale); esse si attenuano nella fascia temperata, salvo che nel Giappone che ha un clima oceanico. Nella Cina settentrionale la Grande Muraglia, che corre sull'isoieta dei 380 mm, segna il limite dell'area temperata umida; più all'interno si entra nell'area a climi continentali aridi o semiaridi, che interessa poco meno dei 2/3 dell'intera Asia. Difatti l'aridità non è propria solo della fascia dei deserti e dei predeserti che va dalla Penisola Arabica alla Mongolia, ma di tutta la regione siberiana, dove le precipitazioni non superano mai i 500 mm annui e si abbassano, sulla facciata artica, a meno di 200 mm. A grandi linee si possono indicare in Asia diverse regioni climatiche: l'Asia arida tropicale e subtropicale, che comprende i cosiddetti deserti caldi e che va dall'Arabia all'Asia centrale caspiana; l'Asia arida più interna, che comprende i cosiddetti deserti freddi e le vaste steppe che arrivano fino alla Mongolia; l'Asia monsonica, fascia umida tropicale che riceve abbondanti precipitazioni stagionali; l'A. equatoriale a clima pluviale, che interessa l'Insulindia; l'Asia subtropicale più umida, che corrisponde alla Cina meridionale e ai Paesi del Mediterraneo asiatico; l'Asia temperata, più o meno umida a seconda che si passi dalla facciata oceanica orientale (Cina e Giappone) a quella occidentale; l'Asia continentale fredda e subartica, che comprende la grande regione siberiana. Un clima montano freddo si riscontra infine sull'altopiano del Tibet, mentre nelle alte catene domina l'ambiente glaciale.

Geografia fisica: l'idrografia

La grande fascia montuosa che attraversa il continente è alla base non solo delle principali ripartizioni strutturali e morfologiche ma anche conseguentemente dell'idrografia. Essa divide nettamente i fondamentali bacini del continente, tributari dell'oceano Pacifico (23% della superficie totale), dell'Oceano Indiano (18%) e del Mar Glaciale Artico (27%). Nella sua vastità però l'Asia occupa anche estesi bacini chiusi, corrispondenti alle grandi depressioni interne che si trovano in generale nelle immediate vicinanze della fascia montuosa: le principali sono quelle dell'Asia centrale (bacino aralo-caspico), del Turkestan orientale, della Zungaria e della Mongolia, dell'altopiano del Tibet, oltre a quelle dell'altopiano iranico (Sīstān, Lut ecc.) e dell'Anatolia. In questi bacini, che coprono ca. il 30% della superficie continentale e che sono tutti compresi nelle regioni a clima arido, si riversano e si consumano le acque di numerosi e importanti fiumi (Helmand, Amudar'ja, Tarim ecc.) alimentati dalla fascia montuosa che va dall'Anatolia alla Cina; tuttavia i fiumi maggiori che nascono dalla stessa fascia raggiungono il mare e con il loro grande sviluppo e le loro gigantesche portate sono altrettante arterie di vita, soprattutto quelli che drenano l'Asia esterna, meridionale. Ciò in una misura e in un modo che non hanno riscontro in altre parti del mondo, se si esclude il Nilo. Sono infatti grandi assi di attrazione umana e di civilizzazione, divenuti tali anche perché attraversano regioni aride o semiaride o a stagione alternata. Questi fiumi storici, fondamento di tutta la geografia asiatica, si succedono da W a E ai piedi delle grandi catene. Dall'Anatolia nascono il Tigri e l'Eufrate, che con le loro alluvioni hanno creato la pianura mesopotamica e alimentato la vita della regione; dalle montagne del Tibet ha origine l'Indo, che ha formato la vasta pianura del Pakistan, sede di antica civiltà; dall'Himalaya nasce il Gange, che vitalizza la pianura compresa tra la grande barriera montuosa e il Deccan e che si unisce presso la foce con il Brahmaputra, formando un'estesa area deltizia. Dalle vallate tibetane convergenti verso SE nascono i fiumi che costituiscono le poderose arterie della penisola indocinese, come il Mekong, mentre da quelle più orientali prendono vita i grandi fiumi cinesi, Chang Jiang e Huang He, che sono stati all'origine della civiltà cinese. Tutti questi fiumi, come gli altri che si esauriscono nelle aree endoreiche, hanno portate stagionali variabili in rapporto sia alle precipitazioni che, specie nell'Asia monsonica, sono fortemente concentrate dando origine a grandi inondazioni, sia all'alimentazione dalla neve. L'ampiezza dei loro bacini assicura per lo più portate considerevoli in ogni stagione dell'anno. Il loro corso ha ancora in genere un profilo giovanile e in relazione a ciò essi hanno un notevole trasporto detritico; un caso a parte è quello dello Huang He, che nasce in una regione a löss soggetta a forte erosione accelerata, cui ha contribuito anche l'opera di sfruttamento agricolo; oggi però il bacino di questo fiume è stato regolato e sono state così evitate anche le gigantesche inondazioni cui periodicamente dava luogo. I fiumi che svolgono il loro corso verso N hanno minore importanza dal punto di vista antropico, pur non essendo meno giganteschi di quelli del versante meridionale dell'Asia. Complessivamente non hanno grandi portate, perché la piovosità è ridotta data la continentalità del clima; il loro regime è in larga misura nivale, contraddistinto dalla particolarità del non simultaneo sciogliersi dei ghiacci, che avviene in tempi successivi procedendo da S a N ed è quindi causa di inondazioni regolari nei vasti bassopiani siberiani. Tutti i fiumi artici sono lunghissimi, dal corso maturo, e ciò in rapporto alla struttura e alla morfologia propria della vasta regione siberiana. Nascono dalle catene circumsiberiane l'Ob-Irtyš, che attraversa il grande Bassopiano Occidentale, lo Enisej, che con un ramo sorgentifero, l'Angara, attinge al lago Bajkal, quindi la Lena, il Kolyma e altri minori. Importante fiume è anche l'Amur, che però sfocia nel Mare di Ohotsk ed è quindi tributario del Pacifico. In quanto ai laghi, essi si collocano, come già detto, nelle aree interne, depressionarie: i maggiori sono il Mar Caspio e il lago d'Aral, un tempo uniti a formare una sorta di mare interno e oggi in progressiva fase di riduzione. Endoreici sono i numerosi laghi dell'altopiano del Tibet e quelli d'origine tettonica del Turkestan, come il Balhaš. Il Bajkal, maestoso esempio di lago di frattura, è il più profondo (oltre 1620 m) della Terra.

Flora e fauna

A partire dalle coste del Mar Glaciale Artico andando verso S esiste una vasta fascia di tundra, più ampia nella Siberia orientale. A S segue la vastissima foresta boreale di conifere (taiga), su suoli a podzol, nella Siberia occidentale alternata a torbiere, a stagni e paludi; qui predominano Picea obovata e Pinus sibirica nei suoli più umidi e Pinus silvestris su quelli più asciutti. Nella Siberia centrorientale si estendono le foreste rade dell'eliofilo Larix dahurica, di suoli assai superficiali. Le latifoglie, con querce, tigli e noci, compaiono lungo le coste siberiane meridionali del Pacifico, più calde e umide. Con l'aumento della temperatura e il progressivo inaridimento, a S della taiga si passa alla steppa boschiva con pino silvestre, pioppo tremolo e betulla. A questa seguono, nell'Asia centrale, steppe di graminacee su suoli neri (cernozëm); nei suoli salati vi è una vegetazione di artemisie e di alofite. Lungo i maggiori fiumi vi è una foresta a galleria a pioppi e, in zone più asciutte, la boscaglia. Lussureggiante è la vegetazione delle calde e umide coste meridionali del Caspio (Parrotia persica, Zelkova crenata, Buxus sempervirens ecc.). La vegetazione mediterranea è limitata alle coste turche e siriane; l'altopiano anatolico presenta foreste di abete di Cilicia e cedro del Libano a S e di Picea orientalis e Abies nordmanniana a N sui monti, che si estendono poi al Caucaso. Le steppe dominano nel Medio Oriente; l'interno dell'Arabia è desertico mentre sui monti dello Yemen, più umidi, vi è una foresta sempreverde con specie mediterranee e tropicali; sui monti lungo il Mar Rosso sono tipiche le formazioni cespugliose delle piante dell'incenso e della mirra. Sull'Himalaya, al di sotto della fascia di vegetazione alpina, con molti generi in comune con i monti europei, nella parte occidentale si estendono foreste di abeti, alle quali seguono, scendendo, in clima di tipo mediterraneo, querce xerofile sempreverdi e Cedrus deodara. Nella parte orientale più umida e sottoposta ai monsoni, alle conifere si uniscono rododendri giganti; tra i 1800 e i 3000 m s.m. regna la foresta umida sempreverde con magnolie, lauracee, liane e muschi arboricoli. Più in basso vi sono boschi di tipo misto con generi di origine temperata e tropicale. Nel Tibet centrale vi è un deserto montano a muschi e licheni mentre altrove si estendono steppe fredde a Kobresia e Carex; sul versante himalayano le valli asciutte hanno una vegetazione di artemisie. L'India centro-meridionale è occupata, sotto l'influenza monsonica, da una foresta caducifoglia a causa del periodo secco invernale. In condizioni di maggiore aridità si affermano formazioni spinose con acacie nella valle dell'Indo, nella parte alta della piana gangetica e nel Deccan. L'Asia sudorientale (Indocina, Filippine e Insulindia) mostra un gradiente di vegetazione parallelo alla diminuzione dell'umidità (foresta pluviale, nelle isole specialmente con dipterocarpacee, foresta semisempreverde e, in Indocina, foresta densa e rada a caducifoglie, savana-macchia a piante spinose), esclusi i monti dove compaiono querce sempreverdi, podocarpi e alcuni pini di tipo tropicale. I delta dei grandi fiumi hanno foreste inondate. In Cina la foresta tropicale igrofila è limitata alle coste meridionali, seguita da una più ampia fascia all'interno del Paese, dominio della foresta sempreverde “cinese” di latifoglie mesoterme, mesofile e igrofile (lauracee, querce e generi affini, albero della canfora, magnolie) oltre ad alcune conifere peculiari. Nella Cina centrale, una cintura forestale mista fa da passaggio fra queste formazioni e quelle a foglie caduche della Cina settentrionale e Manciuria. La foresta “cinese” copre pure il Giappone meridionale, mentre a N vi si affiancano specie caducifoglie; sui monti vi è una fascia di conifere. Nell'interno della Cina, in direzione del deserto del Gobi, s'incontrano praterie cespugliose o steppiche via via che il clima si fa più asciutto. § A ogni regione floristica corrisponde una fauna caratteristica. Così nella tundra vivono in genere animali delle zone artiche quali l'orso bianco, il lemming, la lepre bianca, la volpe polare, la foca e la renna. Nella taiga si trovano l'orso bruno, il lupo, il cervo e molti animali da pelliccia quali l'ermellino, la lontra, la martora, lo zibellino, la puzzola e la volpe argentata. Le steppe e i deserti dell'Asia centrale e sudoccidentale ospitano, anche se variamente distribuiti, il leone (Arabia, Mesopotamia e Iran), la tigre siberiana, leopardi, sciacalli, iene, antilopi, gazzelle, la pecora karakul, la capra d'Angora ecc., oltre al cammello, che nel Turkestan vive ancora allo stato selvaggio, allo yack e al panda, propri delle zone montagnose, e ad alcuni equidi selvatici che vivono nelle steppe. Nella zona monsonica si trovano la tigre (in via d'estinzione e sempre più minacciata), il rinoceronte, l'elefante, il ghepardo e numerosi cervidi. I gibboni vivono nell'Indocina e nelle grandi isole dell'Indonesia, mentre l'orango è diffuso solamente nel Borneo e a Sumatra. Variamente diffuso è il bufalo indiano. Tutte le foreste della zona monsonica sono ricche di uccelli, quali pappagalli, pavoni, fagiani, otarde, anatre mandarine, mentre fra i rettili sono presenti pitoni, boa, coccodrilli e il grande varano di Komodo, quest'ultimo limitato all'isola di Komodo e ad alcune isolette vicine, nell'arcipelago della Sonda.

Ambiente

Dopo secoli in cui la popolazione, soprattutto dell'Asia orientale, ha vissuto in forte simbiosi con l'ambiente circostante, il recente e intenso sviluppo economico − in particolar modo della regione indiana e della costa cinese, senza considerare le intense attività estrattive della regione siberiana − ha prodotto una lunga serie di mutamenti ambientali significativi. La porzione di territorio sottoposta a tutela resta tutto sommato abbastanza limitata (il 5,7% del territorio nel 2000), così come molto recente è l'istituzione di aree marine protette (il 60% del totale sorte dopo il 1980), che si trovano soprattutto al largo del Giappone, della Cina e della penisola di Corea. Un tipico esempio di quanto l'attività antropica sia in grado di modificare l'ambiente è fornito da quanto avvenuto in Cina in occasione dell'edificazione della diga delle Tre Gole, una gigantesca infrastruttura che sbarra il corso dello Chang Jiang. Nel suo medio corso il fiume attraversa, per 200 km, la celebre regione omonima delle Tre Gole, prima di sfociare nella pianura orientale: le gole hanno pareti scoscese che, precedentemente alla realizzazione della diga (2006), si alzavano per 400-600 metri; con la creazione del bacino artificiale la loro altezza rispetto al corso del fiume è significativamente diminuita. Non solo, ma l'aumento del traffico fluviale e l'alterazione degli equilibri naturali hanno seriamente compromesso l'esistenza della flora e della fauna locale, come attesta il caso del lipote (Lipotes vexillifer ), un delfino d'acqua dolce, dichiarato estinto nel 2006, anche se nuovamente avvistato in anni recenti. L'altra grande area interessata da una forte industrializzazione, l'India, risulta essere il Paese con la situazione ambientale maggiormente compromessa dell'intero continente asiatico, in primo luogo a causa dell'inquinamento idrico e atmosferico. In particolar modo destano preoccupazione la qualità delle acque (per via dell'endemica diffusione di liquami non trattati) e la qualità dell'aria (compromessa dalle ingenti emissioni industriali). L'uso di pesticidi non biodegradabili, poi, contribuisce alla contaminazione di suoli, acque e alimenti. Tutto il continente ha conosciuto negli ultimi decenni una forte deforestazione, che ha riguardato soprattutto le aree interne dell'India, della Cina e del Asia sudorientale. Nella sola India la deforestazione interessa ogni anno circa 1,5 milioni di ettari di terreno e si calcola che, considerando soltanto il dato relativo all'Asia sudorientale, le foreste oggi ricoprano soltanto il 53% del territorio occupato nel 1985.Dal momento che la tipica coltura della parte orientale del continente è il riso, una delle specie vegetali a maggiore consumo idrico, il tendenziale e sostanzioso aumento della pressione demografica metterà seriamente in crisi il sistema di gestione delle acque: basti pensare che si prevede, per il 2050, un aumento nel consumo dell'acqua che può andare dal 57% (Asia sudorientale) al 70% (Asia orientale). Un dato significativo in merito all'inquinamento atmosferico di origine antropica è quello riguardante le emissioni di CO2 (anidride carbonica): i dati più recenti pongono Cina e India tra i primi cinque Paesi in ordine di emissioni (alla Cina, con il 24% del totale nel 2007, appartiene il primato mondiale). Questo dato, comprensibile alla luce del modello economico di questi Paesi, difficilmente andrà incontro a un'inversione di tendenza, dal momento che, finora, non si è trovata una governance mondiale per controllare e calmierare il fenomeno, come dimostra l'esito del Vertice di Copenaghen, tenutosi alla fine del 2009. In anni recenti si sono evidenziati in maniera drammatica i limiti di un'antropizzazione spesso anarchica di alcune zone del continente. Alcuni disastrosi eventi come terremoti (come quello di Bam, in Iran, nel 2003 – oltre 30.000 morti – o quello del Sichuan, in Cina, nel 2008, costato la vita a circa 90.000 persone) o maremoti (su tutti il devastante tsunami del 2004 nell'Oceano Indiano, ca. 230.000 vittime), mettono infatti in luce, accanto alla terribile forza scaturita da eventi naturali, anche l'assenza di programmazione e previdenza nella costruzione delle abitazioni civili e nell'occupazione degli spazi.

Geografia umana: cenni antropologici

La presenza di forme umanoidi e umane in Asia risale a tempi remoti, tanto che qualche studioso ha avanzato l'ipotesi di una possibile evoluzione parallela degli Ominidi in questo continente: infatti, fin dal Miocene superiore erano diffuse le Driopitecine e Ramapitecine, i cui reperti sono stati rinvenuti in alcune località dell'Asia meridionale (Siwalik, Tonchino, Yunnan); l'ipotesi si è riaffacciata (1989) con la scoperta nello Yunnan di resti di problematica datazione attribuiti al genere Australopithecus. Tutti i reperti sono, tuttavia, più recenti degli analoghi individuati in Africa e potrebbero testimoniare soltanto la molteplicità di immigrazioni concomitanti con l'evoluzione geologico-morfologica dell'area di contatto fra i due continenti. Allo stato attuale delle conoscenze non vi sono prove di un'origine autoctona dell'uomo asiatico; infatti la specie più antica, diffusa in tutta l'area meridionale e insulare dell'Asia, è Homo erectus che si presenta morfologicamente simile alle forme diffuse in Europa e in Africa. La datazione dei reperti più antichi è di poche centinaia di migliaia d'anni più recente rispetto a quella delle forme africane e coeva delle forme europee; altra caratteristica è che tali forme durarono più a lungo, in alcune regioni, rispetto ai consimili afroeuropei (fino a circa 100.000 anni fa in Cina e in Indonesia). Dopo la scoperta nel 1890-91, da parte di E. Dubois, dei primi reperti fossili in assoluto di Homo erectus (denominato allora Pitecantropo) a Djetis e a Trinil, a Giava, numerosissimi sono stati i rinvenimenti di resti fossili e di insediamenti propri di questa specie umana, databili a partire da 1 milione di anni fa, avvenuti tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento. Tra i più significativi quelli di: Modjokerto, Sangiran, Pucangan, Solo, Ngandong (Giava); Chu kut'ien, Lantian, Dali, Chenjiawo, Xenian (Cina); Hathnora e Narmada (India); Azich (Azerbaigian). Dall'analisi dei siti abitati sembra che queste forme umane si siano estinte dopo la diffusione della specie Homo sapiens proveniente dall'Asia Minore: qui, infatti, sono stati rinvenuti i reperti fossili più antichi (Tabun, Amud, in Israele; Shanidar, nell'Iraq). Più recenti nel tempo sono i reperti di Mapa in Cina, e di Tescik Tasc nell'Uzbekistan. Anche i resti fossili più antichi di Homo sapiens sapiens sono dell'Asia Minore: da quelli di Qafzeh e Skhül, in Israele, al rinvenimento nell'Oman. A partire da 40.000 anni fa sono numerosi i ritrovamenti attribuiti all'attuale sottospecie umana, nei quali compaiono le caratteristiche somatiche sia del gruppo mongoloide (Chu kut'ien, Liucheng, Tzeyan, Shiyu, Ksuchiayo, in Cina, considerati paleomongolidi) sia del gruppo austromelanesiano (Wadjak, Giava; Niah, Borneo; Tabon, Filippine); a 30.000 anni fa risalgono i primi insediamenti certi in Giappone e nella Siberia meridionale (qui i resti fossili presentano alcuni caratteri europoidi) mentre ancora poco note sono le testimonianze del popolamento dell'India che pure conserva ancor oggi notevoli tracce di una diversificazione di tipi antropologici. Secondo ricercatori cinesi, alcuni reperti della Cina (per esempio, quelli di Mapa) sarebbero da annoverarsi quali forme locali di Homo sapiens neanderthalensis. Le fasi della glaciazione würmiana, con le trasformazioni geologico-topomorfiche dell'ambiente che produssero, portarono a fenomeni di isolamento geografico nell'Homo sapiens sapiens che era in fase di rapida espansione nel continente asiatico. Questa è ritenuta la causa principale dell'adattamento locale ai numerosi diversi ambienti dell'Asia che è alla base del differenziarsi degli attuali tipi umani. Una precisa classificazione non è facile perché fin da tempi remoti si ebbero numerosi rimescolamenti fra le varie popolazioni: in Cina, per esempio, si potrebbero descrivere almeno sessanta varietà di tipi umani, ciascuna rappresentata da milioni di individui. Si preferisce, quindi, una suddivisione basata solo sui caratteri morfologici generali, per cui si distinguono due gruppi principali di popolazioni: quelle a pelle giallastra (xantodermi) e quelle a pelle bruna. Fra i primi, costituenti il gruppo mongoloide, si comprendono i tipi tunguso, sinico, sudmongolico, eschimide e i tipi metamorfici siberiano, tibetano, calmucco, turco-tataro, punaniano; fra i secondi l'arabo, l'iraniano, l'anatolico, l'indiano con i tipi metamorfici uralico, turanico, indonesiano. Gruppi residuali di antichissime popolazioni sono considerati i Vedda di Ceylon (Srī Lanka), gli Andamani, i Negritos delle Filippine, le genti di lingua dravidica e munda dell'India, gli Ainu e i Ciukci, nonché piccolissime tribù dell'Insulindia e dell'Indocina (per esempio, i Ka-tong-luang). Tuttavia l'espansionismo mongolo e cinese (quest'ultimo ancora in atto con emigrazioni di massa) ha portato sia a ovest (Turchia) sia a sud (Indocina) forti componenti antropologiche di tipo mongoloide. La presenza dei bianchi, che data a tempi recenti in seguito all'espansione coloniale, è ancor oggi assai limitata, ma ha dato origine a numerosi meticciamenti soprattutto nell'Asia Minore, nella regione ex sovietica, in India, in Indocina e nell'Asia insulare. La distribuzione dei gruppi ha risentito delle vicende storiche del continente, anche se le genti xantoderme sono in gran parte stanziate nell'Asia centrale, orientale e settentrionale, mentre quelle a pelle bruna nell'Asia occidentale, meridionale e insulare.

Geografia umana: le culture autoctone

L'Asia, a buon diritto, viene considerata una delle culle della civiltà, forse la prima parte del globo in cui la civiltà si sia manifestata: in Asia Minore sorsero molte delle prime e più importanti società contadine preistoriche; tecniche colturali agricole originali vennero elaborate in India, Indocina, Cina (basti pensare al riso e alla soia); prodotti di largo uso come il cotone e la seta furono introdotti proprio dai popoli asiatici. Grandi civiltà si formarono a partire dal IV millennio a. C. non solo in Mesopotamia ma anche nella valle dell'Indo e soprattutto in Cina che, formatasi quale Stato già dal II millennio a. C., può essere considerata l'unica nazione che ancor oggi mantenga la propria continuità culturale e territoriale. Grandi Stati, basti pensare alla Persia del sec. VI a. C. e poi all'Impero arabo, ebbero un peso notevole non solo in Asia ma anche in Europa; gli arabi influirono soprattutto sulla cultura delle genti dell'Asia e, in misura minore, su quelle africane, europee, indiane, malesi e indonesiane. Forti compagini statali sorsero e scomparvero in India, Asia sudorientale, Giava, Sumatra, Corea e in tutta l'Asia occidentale; almeno dal sec. VI il Giappone assunse una sua precisa identità nazionale; sebbene di breve durata, i mongoli sinizzati seppero realizzare nel sec. XIII il più vasto impero del mondo, dai confini della Polonia alla Corea, dalla Persia al Tibet, all'Indocina. Tuttavia accanto a forme statali molto evolute, portatrici di raffinate culture, continuarono a svilupparsi e a sopravvivere (e ancor oggi esistono), anche all'interno degli Stati stessi, altre culture che in qualche caso rappresentarono una spinta per il rinnovamento di società decadenti, come lo furono i mongoli, i thai, i khmer, i viet. Nell'Asia centrale e occidentale i vari gruppi etnici basavano la loro economia sulla pastorizia nomade e seminomade ed erano organizzati in tribù patriarcali a discendenza patrilineare (turco-tatari, mongoli, calmucchi, kazachi, uzbechi, kirghisi, afghani ecc.) nelle quali notevole era l'influsso degli sciamani. Quasi tutti furono più o meno islamizzati dopo il l' VIII secolo, pur mantenendo ciascuno la propria lingua e le tradizioni ancestrali; fino agli anni Venti del Novecento non usavano la scrittura e solo i ceti dirigenti scrivevano nella lingua dei “conquistatori” (arabi, russi); a volte l'acquisirono dai “conquistati” (come i mongoli). Ancor oggi nell'Asia centrale, nell'Iran, in Pakistan, in Mongolia, ma soprattutto in Afghanistan, interi gruppi etnici seguono il modo di vivere tradizionale, pur avendo acquisito non pochi “prodotti tecnologici” moderni. In Siberia erano diffuse diverse comunità di cacciatori nomadi, discendenti alcune direttamente dalle genti paleosiberiane (ciukci, jukagiry, ghiliachi, kamčadaly ecc.), altre da incroci con Paleomongolidi (tungusi, jacuti ecc.); organizzati in clan matrilineari, seguivano culti animisti e grande importanza avevano presso di loro gli sciamani, spesso donne. Questi popoli oggi si sono in gran parte adattati ai costumi russi. Nell'Asia meridionale e insulare, accanto alle civiltà urbane, perdurarono a lungo modi di vita arcaici che formavano un mosaico di culture che andava dai semplici raccoglitori nomadi (Ka-tong-luang), ai cacciatori-raccoglitori nomadi (Gond, Andamani, Aeta, Vedda ecc.), ai cacciatori (Dayak, Ainu ecc.), ai coltivatori-allevatori seminomadi (Sakai, Semong, Munda, Miao-tzu, Lolo, Karen ecc.), agli agricoltori sedentari (Dravidi, Tamil, Shan, Kachin e Paleoindonesiani). L'organizzazione tribale di queste genti era di tipo comunitario, con discendenza quasi sempre matrilineare; le credenze religiose animiste vennero influenzate soprattutto dal buddhismo e in piccola parte dall'islamismo. Le strutture economiche erano piuttosto elementari, anche se perfettamente adattate all'ambiente (creazione dei terrazzamenti per l'agricoltura; domesticazione di bufali, yak, caprini e suini; incendi controllati del sottobosco; selettività nella caccia alle specie selvatiche; ecc.), e permettevano un tenore di vita di molto superiore a quello degli attuali milioni di individui che vivono nelle miserabili bidonvilles delle città asiatiche. Dopo la prima guerra mondiale, soprattutto per le profonde trasformazioni ambientali in atto, molti di questi gruppi sono stati assimilati culturalmente dalle etnie dominanti, come in India, Cina, Corea e in Giappone; altrove sono stati respinti nelle zone più improduttive, come nelle Filippine, Indonesia, Indocina, oppure si sono adeguati al modo di vita dei conquistatori pur mantenendo molte delle loro tradizioni, come i Dravidi e i Tamil dell'India, i Tibetani, gli autoctoni del Borneo. L'influsso tecnologico del Giappone sta ormai trasformando sempre più il substrato culturale di molte regioni dell'Asia insulare, del Sud-Est e persino della Corea, in quanto i centri urbani industriali costituiscono un potente richiamo, con le loro molteplici attività, soprattutto per i giovani che nell'economia tribale, sempre più misera, non riescono più a trovare un equilibrato modo di vivere.

Geografia umana: la dinamica e la struttura demografica

Il popolamento umano dell'Asia è passato attraverso vicende complesse, e ciò come riflesso della stessa grande varietà di condizioni ambientali del continente. Si possono riconoscere alcuni grandi fuochi che hanno portato all'attuale distribuzione della popolazione, i quali sono anche da intendersi come centri generatori dei maggiori gruppi che compongono l'umanità asiatica. Essi si collocano nella Penisola Arabica, culla dei popoli semiti, che occupano tutta l'Asia sudoccidentale; nell'Asia centrale, grande fucina dei popoli ariani che si sono distribuiti negli altopiani iranici e che hanno anche invaso le pianure dell'Indo e del Gange (oltre all'Europa); ancora nell'Asia centrale, turanica, generatrice delle popolazioni indicate con il nome di turche che si sono propagate sino all'Asia Minore e, verso E, sino quasi a confondersi con l'area mongola, che ha i suoi confini con il mondo cinese, derivato questo da un fuoco collocabile nelle vallate che portano al Tibet e che ha interessato tutto il quadrante sudorientale dell'Asia. Importante fuoco è inoltre quello austronesiano che ha dato origine alle popolazioni dell'Insulindia. Esistono altre aree di popolamento, ma esse hanno assunto piuttosto la funzione di zone di rifugio di fronte ai grandi movimenti suscitati dai fuochi principali, come nel caso delle aree tropicali forestali, delle zone montane che vanno dal Caucaso all'Hindukush e all'Himalaya e delle più inospitali regioni subartiche. Questi movimenti, responsabili del grande miscelamento etnico dell'Asia, hanno portato all'occupazione e alla definizione di aree caratteristiche, dove si sono realizzati quei rapporti tra natura e cultura che sono all'origine delle civiltà asiatiche. La principale e più vasta di queste aree è la fascia agricola che si estende all'esterno dei grandi rilievi cenozoici e che riguarda le regioni meridionali, tropicali e monsoniche, e le regioni subtropicali umide orientali; altra area caratteristica è quella dei grandi spazi aridi e semiaridi interni e sudoccidentali occupati da popoli pastorali ma che include anche l'agricoltura oasica. Sono comprese tra queste fasce aree minori come le alteterre tibetane, essenzialmente pastorali, e le zone forestali delle isole e delle penisole sudorientali; mentre la fascia più boreale del continente, di grande estensione ma di ancora limitato popolamento, si può oggi definire area di colonizzazione industriale. Il dinamismo che ha portato al popolamento di queste regioni ha avuto il suo principale centro propulsore nell'Asia centrale e ciò perché essa è uno spazio aperto che collega l'Ovest con l'Est del continente: i popoli centrasiatici hanno infatti conosciuto spinte sia in direzione dell'Europa e dell'Asia Minore, sia verso le terre agricole cinesi, sia, a S, verso le pianure dell'Indo e del Gange, verificandosi così un moto centrifugo verso le terre geograficamente più definite ed economicamente più ricche. Questi movimenti furono essenzialmente determinati dai cambiamenti climatici che hanno interessato l'Asia nel corso degli ultimi millenni, provocando aridità in tutta la fascia interna e occidentale. Tale fenomeno ha reso necessaria la ricerca di nuove terre, con preferenza per le aree solcate da corsi d'acqua. Infatti l'agricoltura, che ha avuto in Asia e particolarmente nell'arco di terre che circonda la Mesopotamia, i suoi fuochi originari, è progredita per due fattori concomitanti: per l'acquisizione di nuove tecniche e per la coagulazione umana intorno ai grandi fiumi. Legato all'inaridimento è anche il fenomeno del nomadismo: i popoli nomadi per secoli hanno retto i destini di quasi tutta l'Asia, dalla Cina al Mediterraneo. La Grande Muraglia da un lato, le sequenze di villaggi fortificati tra l'Indo e l'Iran dall'altro, sono espressione di una difesa dai nomadi da parte dei popoli agricoli e sedentari. § Ricostruire una storia demografica dell'Asia non è agevole, per l'evidente carenza delle fonti. I riscontri più antichi attribuiscono circa 160 milioni di ab. alla Cina già nel sec. I secolo d. C.; ma valutazioni attendibili non rimontano oltre il XVIII secolo, quando l'intero continente avrebbe assommato 400 milioni di ab., saliti a oltre 900 milioni all'inizio del Novecento. Il ritmo di incremento demografico, principale problema socio-geografico dell'Asia moderna, dopo avere manifestato una tendenza alla decelerazione sul finire degli anni Ottanta (1,7% nel 1989) ha portato a una popolazione complessiva di oltre 3,6 miliardi di persone (2001). Tuttavia, va anche ricordato che specie nei Paesi più popolosi (e, in primo luogo, in Cina e in India) una ormai lunga tradizione di contenimento delle nascite ha fatto rallentare i tassi di accrescimento demografico: di conseguenza, sia pure di poco, l'incidenza percentuale della popolazione asiatica sul totale mondiale è destinata a ridursi. Addirittura, alcune proiezioni indicano una flessione della popolazione cinese nei primi decenni del XXI secolo (mentre quella indiana continuerà lentamente a crescere fino a superare, appunto, quella cinese). Al di là dei due colossi (la Cina, con 1,3 miliardi circa di ab.; l'India, con oltre 1,1 miliardi), sono molti i Paesi di grande dimensione demografica: l'Indonesia ha quasi 230 milioni di ab., il Pakistan oltre 163, il Bangladesh circa 145, il Giappone poco meno di 130, il Viet Nam e le Filippine poco meno di 90, Iran e Turchia oltre 70 milioni, la Thailandia più di 65. È chiaro, anche solo da questo breve elenco, che la struttura del popolamento dell'Asia ha continuato a privilegiare le regioni meridionali e marittime, che meglio si sono prestate nel tempo all'addensamento della popolazione grazie alle potenzialità agricole e alla maggiore apertura agli scambi commerciali. Sostanzialmente le stesse precondizioni sono alla base della più recente crescita demografica (e in più casi economica), anche se l'aumento della popolazione è apparso a molti osservatori (nonché agli stessi Paesi interessati) più come un freno all'evoluzione socio-economica che come una potenzialità. Sta di fatto che i Paesi che più sembrano orientati a una stabile crescita economica sono anche quelli che hanno registrato ormai da tempo i valori di incremento demografico più contenuti. Se in media continentale l'incremento complessivo è ormai largamente al di sotto del 2% annuo, è degno di nota il fatto che, tra i Paesi più popolosi, la Cina e la Thailandia presentino un tasso di crescita dello 0,6 e dello 0,7% rispettivamente, mentre Indonesia, Viet Nam, India, Bangladesh, Turchia, Pakistan e Iran si distribuiscono fra l'1,3 e l'1,7% annuo; le Filippine (2%), invece, si collocano sensibilmente al di sopra della media continentale; all'estremo opposto il Giappone registra appena uno 0,1% ed è il Paese asiatico con la crescita più modesta (seguito dalla Corea del Sud, 0,3%, e, appunto, da Cina e Thailandia). I valori più elevati, in linea generale, sono quelli che si riscontrano nei Paesi dell'Asia occidentale, con massimi in Yemen (3,5%) e Arabia Saudita (2,4%) e poi ancora la Giordania (3,2%); ma su tutti spicca il dato relativo al Kuwait: 6,9%. Notevoli i movimenti migratori causati dalla forte pressione demografica: i primi sono stati promossi dal colonialismo, portando un gran numero di indiani sulle coste orientali dell'Africa, come pure di cinesi in America e in tutta l'Asia sudorientale, dove essi hanno finito per assumere il controllo sulle attività commerciali di molti Paesi (Malaysia, Thailandia ecc.), con veri e propri capisaldi mercantili a Hong Kong e Singapore. Più recenti, invece, i movimenti interni dalle campagne verso le città, che hanno sostanziato il fenomeno dell'urbanesimo, ma anche verso nuove aree di utilizzazione agricola o mineraria, le cosiddette “frange pioniere”. Notevole, poi, l'immigrazione nei Paesi petroliferi della Penisola Arabica (oggi vi sono circa 5 milioni di lavoratori stranieri nella sola Arabia Saudita, ossia il 20% della popolazione totale del Paese nonché il 50% della popolazione attiva), che ha però riscontrato, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, andamenti altalenanti in seguito a misure restrittive e crisi politico-militari nello scacchiere del Golfo Persico. A contrasti etnici vanno infine attribuiti i genocidi e la diaspora che hanno interessato, in particolare, ebrei, armeni e curdi, sparsi oggi un po' in tutto il mondo.

Geografia umana: la distribuzione della popolazione

La contrapposizione tra Asia esterna, agricola, e Asia interna, pastorale e nomadica, è bene indicata ancor oggi dalla distribuzione umana nel continente. Nella grande fascia esterna si trova infatti concentrata la maggior parte della popolazione asiatica, all'incirca il 90% del totale. Anche in questa fascia non si ha tuttavia una distribuzione omogenea. Le massime densità si registrano nelle aree agricole fluviali, in particolare nella pianura gangetica, a cui seguono con valori quasi eguali le fasce fluviali della Cina; ma qui il popolamento ha travalicato le pianure fluviali vere e proprie, e tutta la Cina orientale costituisce una regione di elevata densità, con medie ovunque superiori ai 150 ab./km² (la media del Paese è 138 ab./km²). Le punte massime si hanno nelle pianure terminali dell'Huang He e dello Chang Jiang, nel golfo del Tonchino e nel Bengala, dove su vaste zone si registrano densità oscillanti tra i 700 e i 1000 ab./km². Aree di eccezionale densità, inizialmente dovuta all'elevata produttività agricola dell'ambiente, si hanno anche nell'Indonesia (a Giava più di 850 ab./km²) e nel Giappone (ca. 450 ab./km² nell'isola di Honshū, dove su certe zone si registrano anche 1500 ab./km²). In quest'ultimo Paese, come nella Cina settentrionale, siamo però nell'ambito di aree che hanno un'economia in larga parte industriale o postindustriale (tutto attaccato). In tutte queste regioni di elevata densità assai sviluppato è l'urbanesimo, che solo può consentire di raggiungere tali valori. Altre zone popolose sono le coste della penisola indiana, le pianure dell'Indocina, la pianura dell'Indo, la Mesopotamia, la depressione caucasica e le aree irrigate dell'Asia centrale. I valori medi della densità oscillano attorno ai 100 ab./km², sia pure su superfici discontinue. Densità medie minori si riscontrano nell'Anatolia, nelle alteterre iraniche, nelle zone più interne della regione cinese. La grande fascia arida che va dalla Penisola Arabica all'Asia centrale e alla Mongolia costituisce un'area di popolamento povero, che è concentrato nelle oasi e lungo i corsi fluviali: le medie vanno da 1 a 10 ab./km². Rado è anche il popolamento in tutta la regione siberiana, salvo la fascia attraversata dalla ferrovia transiberiana, asse della colonizzazione avviata dai russi, dove si è tentato uno dei più importanti processi di popolamento della Terra. Questa “frangia pioniera” si espande in condizioni ambientali difficili e mediante trasferimenti di popolazione “pianificati” (per non dire forzosi); essi, tuttavia, erano stati favoriti dall'URSS, prima della sua disgregazione, per incrementare la produzione di risorse utilizzabili, specie in prospettiva di un nuovo corso economico, nel quale il Paese si sarebbe trovato esposto alla concorrenza internazionale. Questo processo di popolamento è stato in seguito continuato, in proporzioni minori ma per le stesse ragioni, dalla Russia , cui la Siberia appartiene. Solo apparentemente analogo è il processo di colonizzazione avviato dalla Cina nel Sinkiang Uighur, che, per la evidente diversità di posizione geografica, si presta a uno sfruttamento soprattutto agricolo, pur comportando anch'esso notevoli spostamenti di gruppi umani dalle aree urbanizzate alla nuova “frontiera”, dove per conseguenza si modificano, spesso traumaticamente, i generi di vita delle popolazioni che vi erano tradizionalmente insediate (circa 6 milioni di unità) e che basavano l'utilizzazione del territorio sugli equilibri del ciclo ecologico naturale (piani vegetazionali, oasi), modificati ora dalle pratiche irrigue intensive e dalle prospezioni minerarie. Nel luglio 2009 in questa regione si sono verificati gravi e duri scontri tra gli uiguri, i musulmani autoctoni della regione, e immigrati han provenienti dalla Cina costiera, denunciando le difficoltà incontrate dal processo di immigrazione e integrazione.

Geografia umana: le forme d'insediamento rurale

In generale, anche per il dominante carattere agricolo dell'Asia, la forma d'insediamento prevalente è il villaggio. Nella grande fascia pastorale arida o semiarida la tenda o l'accampamento di tende sono il segno di un'occupazione territoriale di tipo nomadico la quale non prescinde neppur essa dal villaggio. Quando non si tratti di seminomadismo, che si appoggia a sedi stabili, il nomadismo pastorale filtra tra aree sedentarie dove c'è il villaggio d'oasi. Per quanto riguarda il nomadismo, è da notare l'esistenza di due distinte grandi aree: la prima, che si stende a N della fascia montagnosa, tra Asia centrale e Mongolia, contrassegnata dalla tenda emisferica (yurta), la seconda, che va dalla Penisola Arabica all'Afghanistan meridionale e al Tibet, contrassegnata dalla tenda quadrata o rettangolare di telo nero. Più varia e complessa l'identificazione di aree dove la cultura di villaggio abbia caratteri omogenei, anche se a grandi linee si possono riconoscere le aree dell'Asia arida, dell'Asia monsonica, della regione cinese. Dimensioni e densità dei villaggi sono in rapporto alle condizioni dell'agricoltura, cioè all'ampiezza delle aree coltivabili e alla ricchezza o meno di risorse idriche. Queste determinano i villaggi dell'Asia arida, ma anche della regione indiana, dove le due stagioni impongono forti condizionamenti all'attività agricola. Così in India solo la riserva d'acqua consente la vita dei villaggi agricoli. Nelle grandi vallate della fascia montuosa si hanno villaggi d'arroccamento che sfruttano i versanti terrazzati o i fondivalle, dando origine a caratteristici paesaggi. Assai diffuso in tutta l'area a contatto con il mondo dei nomadi è il villaggio fortificato (qala), a “muraglia abitabile”, che sembra avere i suoi modelli originari nell'architettura urbana delle antiche civiltà dell'Indo. Le case d'abitazione asiatiche variano in rapporto alla struttura sociale e, ergologicamente, al materiale costruttivo locale. È tuttavia da notare che in Asia è dominante la casa di fango e ciò perché le grandi aree agricole corrispondono alle pianure alluvionali, prive cioè di pietra. Ma la casa di fango è anche espressione di povertà e precarietà, condizione propria del contadino asiatico. La dimora di legno si trova solo nelle zone montane e, naturalmente, nell'area siberiana, dove si impongono i modelli propri dell'insediamento russo. Di legno, ma talora parsimoniosamente usato, è anche la casa dell'area temperata, come in Giappone, e dell'area monsonica sudorientale (Insulindia e Indocina). L'organizzazione sociale è sempre stata prevalentemente comunitaria, ma il colonialismo l'ha deteriorata in molti Paesi, così come il latifondismo, impostosi anche indipendentemente dal colonialismo, come in Iran (dove solo oggi è stato parzialmente abolito) e in altri Paesi islamici. Importante è l'imporsi in Cina e in altri Paesi di forme di organizzazione collettivistica o cooperativistica. Con il villaggio che ospita unicamente una popolazione contadina vi è anche il villaggio sede di attività artigianali e che svolge funzioni diverse, commerciali, amministrative, religiose. Ma questo è un centro mediatore della vita urbana ed è un prodotto, per gran parte, del colonialismo; ancor oggi esso manca in molte zone dell'Asia, dove predomina il villaggio autosufficiente. In effetti tra città e campagna, tra urbanità e ruralità, non vi è mai stato un rapporto vitalizzante come in Europa. Ciò anche nel mondo cinese, fatto che spiega la continuità e la stabilità del mondo agricolo, gli scarsi sviluppi del mondo urbano e, perciò stesso, del mercantilismo e dell'industrialismo. Solo con il colonialismo il quadro è mutato.

Geografia umana: l'urbanesimo

L'urbanesimo ha avuto le sue origini in Asia. Le prime città sono quelle sorte con l'imporsi dell'agricoltura irrigua e dell'organizzazione economica e territoriale avviata dalle civiltà fluviali. La città asiatica, dalla Mesopotamia alla Cina, nasceva come area consacrata alla divinità, destinata a ospitare il sovrano. La sua struttura urbanistica si adeguava all'immagine del mondo, la quale dipendeva dal modo in cui quelle civiltà si annettevano i territori fluviali. Immagine del mondo erano la città cinese, la città dei Khmer e degli Annamiti, la città indù dominata dal sikhara o “montagna del mondo”. La città occupava un'area ben delimitata, a pianta quadrata o rettangolare. Oltre il nucleo centrale o recinto sacro vi potevano essere sobborghi o quartieri abitati da artigiani e commercianti. Ma questi erano elementi secondari e di poco risalto nella città asiatica, che aveva prima di tutto funzioni simboliche, in quanto centro del potere religioso o temporale. Funzioni più marcatamente commerciali, come la città europea, ha assunto invece la città musulmana, sebbene anche nel mondo islamico il centro urbano coincida con la moschea, l'elemento che per primo giustifica la città. Alla moschea si affiancano il bazar e la cittadella del sultano. In generale, però, è stato sempre debole in Asia il rapporto tra città e campagna: villaggio e città erano e sono ancor oggi in gran parte due elementi antitetici, senza legami. L'ordine antico della tipica città asiatica è stato turbato dalle attività commerciali di impronta occidentale; e si comprende come esso abbia determinato vere e proprie crisi nella città asiatica, incapace di assimilare le nuove proposte economiche e sociali. La corsa alla città ha registrato nel Novecento in Asia fenomeni parossistici. Le grandi agglomerazioni urbane continuano ad affollarsi, specie nei Paesi, come l'India o la Cina, in cui resta prevalente l'insediamento rurale (rispettivamente 71% e 55,1% della popolazione totale), che tuttavia continua a emettere grossi flussi di emigrazione verso le città. Meno intensa la crescita delle metropoli giapponesi. Alcune delle città sviluppatesi in anni relativamente recenti hanno assunto funzioni industriali (le città giapponesi, della Manciuria, della Siberia), ma in generale non si può dire che sia l'industria a suscitare l'urbanesimo asiatico, nelle sue espressioni più caratteristiche. Le motivazioni sono varie. Al colonialismo si deve la valorizzazione commerciale delle grandi città portuali, centri di sbocco dei prodotti convogliati dall'interno, come Shanghai, Hong Kong, Thanh Pho Ho Chi Minh, Giacarta, Kolkata, Mumbai, Karāchi, per citare le maggiori, mentre altre, poste sulle grandi rotte della navigazione tra Europa ed Estremo Oriente, si sono sviluppate come scali secondari o come centri strategici del colonialismo (è il caso di Singapore, di Aden ecc.). Grande sviluppo hanno avuto le città capitali, che hanno associato alle funzioni amministrative attività industriali, commerciali, culturali. Vi sono in Asia città che assolvono funzioni del tutto particolari, come Vārānasi (la vecchia Benares), centro dell'induismo, mentre le capitali teocratiche come Lhasa e Ulaanbaatar sono state ritrasformate l'una dall'annessione del Tibet alla Cina, l'altra dal regime di ispirazione comunista della Mongolia. Nell'Asia ex sovietica si sono sviluppate le grandi città pioniere come Omsk, Novosibirsk, Irkutsk, Habarovsk, la stessa strategica Vladivostok (città della colonizzazione zarista) nella regione siberiana, come Taškent, Alma-Ata, Ašgabat nell'Asia centrale, dove hanno subito un “ringiovanimento” le vecchie e storiche città della grande frontiera islamica, e in particolare Samarcanda. Anche nel Turkestan cinese si sviluppano città pioniere, come Ürümqi, mentre numerose grandi città stanno nascendo su tutta la fascia interna della regione cinese. In tutti i Paesi asiatici, a eccezione di Singapore, i tassi di crescita della popolazione urbana sono decisamente superiori ai tassi di crescita demografica complessiva: una quindicina di agglomerazioni superano i 10 milioni di ab., anche a prescindere dall'enorme conurbazione Tōkyō-Yokohama, ormai accreditata di quasi 35 milioni di residenti. Quella di Seoul supera i 20 milioni, quelle di Ōsaka-Kōbe-Kyōto e di Giacarta hanno superato i 18 milioni di ab., a Mumbai vivono più di 20 milioni di persone, a Delhi 18 milioni e a Kolkata quasi 15; Manila, Pechino, Shanghai e Teheran hanno tra i 12 e 18,5 milioni di ab. ciascuna. Molte altre città hanno almeno 3 milioni di residenti. Non stupisce, ovviamente, che queste agglomerazioni si siano formate soprattutto nei Paesi più popolosi: ciononostante, come precedentemente accennato, India e Cina hanno percentuali di popolazione urbana al di sotto del 50% del totale della popolazione.

Economia: cenni generali

L'ampiezza del territorio, l'esistenza di poderose barriere fisiche, la natura straordinariamente composita del quadro umano, dal punto di vista sia dei caratteri etnico-religiosi sia del carico demografico, nonché la diversità delle vicende storiche, geopolitiche e, per conseguenza, delle traiettorie di sviluppo regionale individuabili nelle diverse sezioni del continente rendono il panorama economico asiatico, a sua volta, estremamente complesso e diversificato. Una considerazione di fondo riguarda la distribuzione del tutto ineguale delle risorse naturali rispetto a quelle umane: le prime, infatti, sono largamente presenti in aree tendenzialmente anecumeniche, dall'immensa distesa siberiana ai deserti dell'Asia sud-occidentale e della Cina interna; le seconde, in particolare dal punto di vista tecnologico, si concentrano viceversa in Paesi di dimensione relativamente o assolutamente piccola, spesso insulari (dal Giappone a Taiwan, ai “microstati” come Singapore) e generalmente privi di materie prime, o in aree circoscritte di Paesi pur grandi e ben dotati di queste ultime, ma ad economia tuttora agricola (si può citare, come esempio, la valle del fiume Damodar, definita la “Ruhr indiana” per lo sviluppo dell'industria siderurgica). Il decollo industriale del Giappone, fino agli ultimi anni dell'Ottocento chiuso in un sistema di tipo feudale, ne ha fatto progressivamente il punto di riferimento dell'economia asiatica, soprattutto dopo la miracolosa ripresa dal disastro della seconda guerra mondiale e il fulcro della cosiddetta “Asia del Pacifico”, da alcuni decenni considerata l'area più dinamica dell'economia mondiale. Un punto di riferimento, tuttavia, completamente eccentrico rispetto alla massa geografica del continente e la cui influenza economica si è scontrata a lungo con gli ostacoli geopolitici rappresentati dai due colossi del socialismo reale, Repubblica Popolare Cinese e Unione Sovietica, a loro volta caratterizzati da strategie di sviluppo profondamente diverse: il modello agricolo delle “comuni” contro quello dell'industria pesante. All'opposto estremo continentale, l'area del Golfo Persico, grazie alle formidabili riserve petrolifere, ha assunto un peso economico e politico determinante durante gli anni Settanta del Novecento, quando i Paesi che ne fanno parte, trovando una concordanza di intenti mai più verificatasi in seguito e ponendosi alla guida dell'OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), provocavano quella fase di restrizione dei consumi energetici, nota come “shock petrolifero”, che ha impresso al sistema industriale dell'intero pianeta nuove spinte verso la riconversione produttiva e il decentramento localizzativo. Proprio quest'ultimo fenomeno ha coinvolto appieno l'Asia del Pacifico, dove sono venuti emergendo i Paesi definiti NIC (Newly Industrializing Countries: Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine), che, mutuando tecnologie già mature dai Paesi industrializzati – fra cui, in primo luogo, il Giappone – e facendo valere le capacità concorrenziali date dai costi di produzione (in particolare, della manodopera) nettamente inferiori, hanno letteralmente invaso dei loro prodotti i mercati internazionali. § La complessità del quadro economico asiatico si è ulteriormente accentuata in seguito ai rivolgimenti geopolitici e alle ripetute crisi congiunturali che hanno accompagnato gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo. Lo stesso Giappone ha visto messi in discussione alcuni fondamenti del suo modello organizzativo, a cominciare da quella piena occupazione su cui si basava una stabile pace sociale: l'immigrazione, in larga misura clandestina, di lavoratori cinesi, cui hanno fatto riscontro licenziamenti non solo nell'industria ma anche nel terziario, e la sopravvenuta difficoltà a fronteggiare la concorrenza dei NIC hanno rappresentato i primi sintomi di una crisi, dai pesanti risvolti finanziari (numerosi, infatti, i fallimenti di banche e società di intermediazione), che ha compromesso il ruolo di leadership economica detenuto dal Paese nei confronti del continente asiatico e, per alcuni aspetti, dell'intero mondo occidentale. Nel frattempo i NIC, dalla metà degli anni Ottanta, facevano registrare una crescita “galoppante”, con tassi annui di incremento del PIL intorno al 7-8% e con punte del 10% da parte della Corea del Sud e di Singapore. A ritmi simili si agganciavano, dai primi anni Novanta, anche il Viet Nam e, soprattutto, la Cina, dove, tuttavia, il processo accelerato di industrializzazione, sostenuto dai capitali esteri e mirato all'apertura di mercato, ha rischiato di compromettere la piena autosufficienza alimentare ereditata dal modello rurale maoista. Ma anche lo sviluppo dei NIC ha subito una brusca battuta d'arresto: nel 1997, l'esplodere – in coincidenza, certo non irrilevante, con il ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese seguito, a distanza di due anni, da quello di Macao – di una gravissima crisi finanziaria (legata almeno in parte, specie nell'ex colonia britannica, alla sopravvalutazione delle rendite immobiliari), con pesanti ripercussioni su tutte le borse mondiali, ha evidenziato i limiti strutturali di queste economie emergenti, costringendole ad accettare le stringenti direttive del Fondo Monetario Internazionale e, ancora una volta, la supervisione degli Stati Uniti per il varo delle più urgenti misure di salvataggio. La crisi è stata comunque riassorbita abbastanza rapidamente, e i tassi di crescita produttiva hanno ripreso a salire senza incertezze, grazie a politiche economiche che generalmente hanno previsto ancora un forte intervento dello Stato in termini almeno di regolamentazione degli investimenti e di orientamento delle risorse, oltre che di presenza diretta in alcuni settori produttivi. I risultati sul piano della disponibilità di reddito per la popolazione asiatica (sempre con riferimento alle regioni marittime, che sono quelle più dinamiche) sono stati relativamente poco appariscenti, in considerazione della massa demografica ingentissima. Se si escludono Emirati Arabi Uniti (ca. 55.000 dollari all'anno), Qatar (oltre 93.000 dollari), Brunei e Singapore (circa 38.000 dollari all'anno) – ma per popolazioni decisamente esigue –, Giappone (anche in questo caso oltre 38.000 dollari all'anno, ma per una popolazione decisamente più consistente) e Hong Kong (circa 30.000 dollari), Israele (28.500 dollari), Corea del Sud e Arabia Saudita (19.500 dollari circa), gli altri Paesi asiatici vantano PIL pro capite relativamente bassi: Turchia (circa 10.400), Malaysia (ca. 8000), Thailandia e Iran (all'incirca 4500) guidano il resto della graduatoria, che è chiusa, intorno ai 1000 dollari per persona, dallo Yemen (circa 1100), Tagikistan (circa 800), Bangladesh (poco più di 500) e Nepal (all'incirca 450). Ma è necessario, in molti di questi casi, commisurare questo dato alla reale dimensione demografica: a titolo di esempio, i 3300 dollari pro capite dei cinesi rappresentano un valore medio che può essere definito basso in assoluto, ma che va riferito a 1,3 miliardi di persone. Il ruolo dell'Asia orientale, nello scenario futuro a scala planetaria, si mantiene, dunque, estremamente rilevante. Positiva resta, infatti, la ragione di scambio, sostenuta dalla natura composita delle esportazioni: se, infatti, queste sono coperte per la quasi totalità da prodotti dell'industria manifatturiera per Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, quote via via più significative di prodotti di base, agricoli e minerari, vengono immesse nei circuiti commerciali da Thailandia, Malaysia, Indonesia e, soprattutto, dalla Cina, dove pure i prodotti industriali hanno raggiunto un'incidenza pari a ben di più della metà del totale. Dagli anni Ottanta, ormai, l'interscambio fra questa parte dell'Asia e gli Stati Uniti ha superato, in valore, quello fra gli stessi Stati Uniti e l'Europa. Inoltre, l'enorme quantità di popolazione presente nella regione, ormai in parte avviata verso la fase dei grandi consumi di massa, costituisce un mercato potenziale cui il mondo sviluppato guarda con interesse per l'ulteriore espansione del proprio sistema produttivo. Fondamentale importanza vengono ad assumere pertanto, qui come in tutti i maggiori complessi regionali mondiali, gli organismi internazionali, in particolare quelli volti a creare zone di libero scambio. Sotto questo profilo, si è rafforzato il ruolo dell'ASEAN (Association of South East Asian Nations, istituita già dal 1967), che, dagli originari scopi di equilibrio politico e di sviluppo socio-economico dei Paesi membri, è passata sempre più decisamente a promuovere forme di integrazione, fino a un Regional Forum (1993) esteso a tutti i maggiori partner commerciali (Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti, Unione Europea, Australia e Nuova Zelanda). Obiettivi analoghi persegue l'APEC (Asia-Pacific Economic Co-operation), istituita nel 1989 con la partecipazione di tutti gli Stati dell'area circumpacifica. § Non meno cruciale, nel panorama economico asiatico, è il subcontinente indiano, insieme regionale la cui definizione va ben oltre la delimitazione geografica a sud delle grandi catene montuose centrali: sul 3% della superficie delle terre emerse vive, qui, un quarto della popolazione mondiale, che tuttavia partecipa in maniera scarsa alla formazione del prodotto lordo totale e al valore dei flussi commerciali. Evidente, dunque, la condizione di sovrappopolamento, cui si aggiungono elementi di carattere etnico-religioso, generatori di forti tensioni politiche e sociali, che, da sempre, ne limitano lo sviluppo. Per il primo aspetto, va peraltro sottolineato come, nel periodo più recente, i tassi crescita del PIL abbiano finalmente superato quelli della popolazione non solo nell'Unione Indiana, ma anche nel Pakistan e nel Bangladesh; mentre la politica di apertura agli investimenti stranieri attuata dalla stessa Unione Indiana, a partire dai primi anni Novanta, se ha creato inizialmente taluni squilibri nel bilancio interno, ha aperto la strada alla valorizzazione delle condizioni (risorse naturali, manodopera a basso costo, ma anche poli di eccellenza nelle produzioni ad alta tecnologia) effettivamente disponibili per una più diffusa industrializzazione e un deciso ingresso nei mercati internazionali. Problema economico di fondo resta qui, comunque, la modernizzazione del settore primario, per ottenere quell'incremento di produttività che possa finalmente metterlo in condizione di soddisfare la domanda alimentare delle zone rurali, consentendone l'uscita dal sottosviluppo. Per il secondo aspetto, quello geopolitico, alcune frange di confine (Kashmir, Punjab, Bengala) rimangono, almeno in apparenza, le principali regioni-problema; ma la coesione, all'interno e fra i singoli Stati, è resa difficile dal permanere di conflitti religiosi (così in India, Pakistan, Srī Lanka) che affondano le loro radici nella storia e che la politica coloniale ha invano tentato di risolvere attraverso le divisioni confinarie. I riflessi sulle relazioni commerciali fanno sì che queste risultino o schiaccianti (dall'India verso i piccoli Stati himalayani) o, per converso, pressoché nulle (gli Stati islamici, Pakistan e Bangladesh, arrivano ad importare prodotti indiani attraverso l'Europa). Nonostante ciò, anche in quest'area ha preso corpo un tentativo di cooperazione internazionale, attraverso la SAARC (South Asian Association for Regional Co-operation), istituita nel 1985 e che, nel 1995, ha promosso un accordo di riduzione tariffaria su circa 200 prodotti, pari tuttavia a neppure il 10% del già modesto interscambio fra i Paesi aderenti. A partire dal 2005, la SAARC ha accettato, in qualità di osservatori, i principali partner commerciali dell'area: gli Stati Uniti, l'Unione Europea, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud. § La dissoluzione dell'URSS, oltre ad alcuni residui della contrapposizione fra i blocchi occidentale e comunista (in particolare, la disastrosa situazione economica della Corea del Nord), ha lasciato un profondo “vuoto” nell'Asia centrale, dove le repubbliche ex sovietiche, dopo una prima fase di gravissima recessione, stentano a imboccare la via dello sviluppo, soprattutto a causa della divisione politica, delle tensioni sociali, della scarsità di capitali e di professionalità. Gli investimenti esteri, tuttavia, sono frenati dal riemergere di atteggiamenti di chiusura, e i processi di liberalizzazione e privatizzazione non hanno mantenuto, in genere, i ritmi auspicati dal Fondo Monetario Internazionale; anche le relazioni, commerciali e politiche, con la Federazione Russa hanno conosciuto fasi altalenanti e, dopo essersi addirittura interrotte, sono in anni più recenti riprese (è il caso del Turkmenistan, la cui situazione economica ha recentemente iniziato a risentire positivamente degli accordi commerciali con la Russia stipulati nel 2006). A fronte di ciò, alcuni interventi infrastrutturali, mirati a rompere l'isolamento geografico e a favorire le esportazioni di materie prime agricole e minerarie (idrocarburi, gas naturale in particolare), non possono certo risultare sufficienti. § Infine, l'Asia mediterranea continua a risentire del forte squilibrio politico ed economico fra Israele, che vanta un reddito pro capite secondo, nel continente, solo a quello giapponese (ove si escludano i microstati e alcuni Paesi petroliferi del Golfo Persico), e gli Stati arabi circostanti, dove i tentativi di ripresa si scontrano con l'estrema povertà delle risorse o con il dissesto delle aree urbane e del patrimonio infrastrutturale causato dai ripetuti conflitti: squilibrio che il travagliato processo di pacificazione non è minimamente riuscito ad attenuare e che, anzi, le tensioni continuamente riemergenti (crisi del Libano del 2006, guerra a Gaza nel 2008) rischiano di aggravare, in un quadro di perdurante incertezza.

Economia: le risorse agricole

Molti e di diversa natura sono i fattori ambientali, climatici e umani che hanno contribuito a delineare i caratteri generali dell'agricoltura asiatica. Essa si è sviluppata in età antichissima, favorita dalla fertilità delle aree monsoniche, ricche di precipitazioni, e dalla possibilità di irrigare larghe fasce aride e semiaride offerta dai grandi corsi d'acqua della regione mesopotamica, di quella indiana e dell'Asia centrale e sud-orientale. Tali aree rimangono ancor oggi le più ricche dal punto di vista agricolo, nonostante il notevole impoverimento dei suoli: se si escludono, infatti, le valli alluvionali, dove il limo depositato dagli straripamenti evita l'esaurimento dei terreni, la scarsa concimazione e l'eccessivo sfruttamento hanno comportato una forte diminuzione della fertilità naturale, contribuendo a rendere sempre più precario l'equilibrio tra produzione agricolo-alimentare e popolazione. L'irrazionale sfruttamento di vaste superfici aggrava pertanto il problema dell'insufficienza degli spazi agricoli che, pur essendo un problema sentito ovunque, è particolarmente avvertito in Asia, continente nel quale vive ben più della metà dell'intera popolazione mondiale. Ne consegue la necessità di avviare una più razionale utilizzazione dei terreni agricoli, seguendo l'esempio del Giappone, la cui agricoltura è caratterizzata da uno sfruttamento altamente intensivo. Per quanto impostata su basi diverse, anche l'agricoltura cinese è contraddistinta da forme di sfruttamento intensivo, mentre nelle popolose aree dell'Asia meridionale le colture estensive, con rendimenti unitari modesti, comportano una situazione generale di sottosviluppo. Piuttosto deludenti sono i risultati conseguiti in India e in altri Paesi dell'Asia meridionale dalla politica di sviluppo agricolo avviata negli anni Sessanta, con l'ambizioso proposito di intraprendere una “rivoluzione verde”. Essa avrebbe dovuto portare a soluzione i problemi della scarsa produttività delle colture mediante lo sviluppo della meccanizzazione e l'adozione di tecniche agronomiche avanzate. Per quanto in alcune regioni si sia registrato un non trascurabile incremento della produzione cerealicola, soprattutto granaria, la rivoluzione verde si è arrestata di fronte alla difficoltà di introdurre tecnologie agricole moderne in situazioni economiche, sociali e culturali molto arretrate. In particolare, essa ha incontrato forti ostacoli nell'eccessivo frazionamento dei terreni agricoli (in India oltre il 50% delle proprietà contadine è costituito da appezzamenti inferiori all'ettaro), nello scarso impiego di concimi, naturali oltre che chimici, nell'insufficienza delle tradizionali tecniche di irrigazione e nella pressoché totale dipendenza dai fattori atmosferici, con conseguente perdita di raccolti per siccità o inondazioni. Molte delle difficoltà dell'agricoltura continentale sono condivise da quella insulare indonesiana, dove si cerca di trovare una soluzione ponendo a coltura nuove aree nelle isole più esterne dell'arcipelago utilizzando parte della popolazione agricola delle sovrappopolate isole di Bali e Giava. Quanto alla situazione degli altri Paesi, si passa dalle avanzate e sofisticate sperimentazioni dei ricchi produttori di petrolio del Golfo Persico, per i quali si pone soprattutto il problema di accrescere le scarse risorse idriche, al sottosviluppo cronico di altre aree e alle situazioni drammatiche venutesi a creare nella penisola indocinese dopo la fine della guerra vietnamita, con conseguenze alimentari e sanitarie disastrose soprattutto per la popolazione cambogiana, una parte della quale è riuscita a sopravvivere solo grazie agli aiuti internazionali. Anche nel Viet Nam, per ammissione delle stesse autorità di Ha Noi, dopo la fine del conflitto con gli Stati Uniti, sono ricomparse tutte le malattie dovute a carenze alimentari, data l'insufficienza della dieta basata sul consumo di riso e pressoché totalmente priva di proteine animali (negli ultimi anni, però, la situazione, grazie alla favorevole congiuntura economica, è andata gradualmente migliorando). Il riso costituisce l'alimento base per la grande maggioranza della popolazione asiatica e soprattutto l'area sud-orientale rientra in quella che è stata definita la “civiltà del riso”, non solo in quanto principale produzione agricolo-alimentare, ma perno di tutte le attività e della stessa organizzazione territoriale. La risicoltura irrigua, che può dare anche due raccolti all'anno, si estende nelle zone più umide della regione monsonica, caratterizzando il paesaggio agrario di un immenso arco di terre che va dall'India alla Cina. Complessivamente la produzione risicola rappresenta ca. il 90% di quella mondiale, coperta per un terzo dalla Cina, seguita da India, Indonesia, Bangladesh, Viet Nam, Thailandia. Per quanto in cifre assolute la produzione risicola risulti immensa, i valori scendono notevolmente se si considerano i consumi pro capite, tenuto conto che i due terzi delle calorie assorbite sono forniti dai cereali e che piuttosto scarse sono le altre produzioni cerealicole. Nonostante l'accrescimento degli ultimi anni, la produzione granaria rimane sempre al di sotto del fabbisogno. Le colture sono andate diffondendosi anche in zone diverse da quelle tradizionali, per quanto le principali aree granarie rimangano quelle della fascia agraria settentrionale, dove la piovosità è più scarsa e la continentalità più accentuata: Cina settentrionale, alta pianura dell'Indo, altopiano dell'Anatolia e pianure dell'Asia centrale e subsiberiana, dove è presente anche l'avena. In queste aree è inoltre diffusa la coltivazione del mais, di cui la Cina è il massimo produttore dell'area (secondo mondiale dopo gli Stati Uniti). Nella sua grande estensione e varietà di ambienti e climi, la Cina consente numerose altre colture, collocandosi al primo posto, tra i produttori asiatici, per soia, patate ecc. Molteplici sono anche, nell'ambito continentale, le colture industriali, molte delle quali sono state avviate e incrementate dalle potenze coloniali, comportando cospicui flussi migratori dalle regioni più popolose e più povere verso le grandi piantagioni commerciali dell'Asia sud-orientale. Della massima importanza sono le colture destinate all'industria tessile, tra cui spicca il cotone, che ha le sue principali aree nell'Asia centrale ex sovietica, dove la cotonicoltura è il risultato di grandi lavori d'irrigazione, e in Cina, India, Turchia, Pakistan. La iuta, che aveva la sua tradizionale area produttiva nella Cina, ora viene prodotta soprattutto dall'India (da sola circa due terzi dell'intera produzione mondiale), seguita dal Bangladesh. La canna da zucchero ha una notevole diffusione in India, nelle Filippine, nella Cina meridionale, in Thailandia e nell'Indonesia, ma la produzione complessiva di zucchero non è molto elevata. Un'altra rilevante coltura delle aree tropicali umide è il tè, di cui sono grandi produttori India, Cina, Srī Lanka e Giappone che, insieme ad alcuni altri Paesi asiatici, forniscono ca. i tre quarti della produzione mondiale. Estese sono anche le piantagioni di caffè (Viet Nam, secondo produttore mondiale, e Indonesia soprattutto) e di banane (India, Indonesia, Thailandia); nelle terre equatoriali è stata introdotta l'Hevea per ricavarne caucciù, in questo settore è quantitativamente rilevante il ruolo della Thailandia (oltre 3 milioni di tonnellate prodotte), seguita da Indonesia (2,75 milioni) e Malaysia (1,2 milioni). Importanti sono anche le piantagioni di tabacco, particolarmente diffuse in Cina, India, Turchia, Indonesia e nell'Asia centrale, con una produzione che supera il 50% quella mondiale. Tra le colture oleifere, oltre alla soia, hanno larga diffusione, in India e Cina, le arachidi (oltre la metà della produzione mondiale) e il sesamo. Anche per la palma da olio e da cocco le prospettive sono eccellenti, mentre l'olivo resta limitato all'area mediterranea. Notevole sviluppo hanno avuto anche le colture fruttifere, tra cui la palma da datteri, nell'Asia sud-occidentale.

Economia: allevamento, risorse forestali e pesca

Oggi, come in passato, l'allevamento presenta le caratteristiche di un'attività sussidiaria dell'agricoltura, fatta eccezione per le popolazioni nomadi delle zone aride e semiaride, le cui economie si basano essenzialmente sulla pastorizia. I bovini hanno la loro massima diffusione in India (quasi 180 milioni di capi), ma questo patrimonio zoologico, tuttavia, ha rendimenti piuttosto modesti, trattandosi di capi scarsamente selezionati e destinati tradizionalmente ai lavori dei campi e a una modesta produzione lattiero-casearia, escludendo il consumo di carni per motivi religiosi; ben rappresentata è anche la Cina. I due Paesi sono in testa anche per i caprini, mentre gli ovini hanno larga diffusione nelle regioni asiatiche della Russia e nelle zone aride dell'Asia centroccidentale, collegate al nomadismo. Esclusi dall'area islamica, in ubbidienza alle norme coraniche, i suini costituiscono, insieme agli animali da cortile, una delle principali e tradizionali fonti di carne per l'alimentazione dei popoli cinesi e indocinesi (la Cina è il primo Paese per numero di suini allevati – oltre 500 milioni di capi; il dato è rilevante se si pensa che il secondo Paese in questa graduatoria, gli Stati Uniti, si attesta a circa 60 milioni di capi). Cammelli e bufali sono soprattutto diffusi in India e Pakistan, mentre nelle regioni interne, in particolare in Mongolia, conservano una notevole importanza i cavalli; la renna infine rimane l'animale più caratteristico della tundra e della taiga. § La taiga siberiana, ancora scarsamente sfruttata, rappresenta un'immensa riserva forestale, fornendo un prodotto destinato prevalentemente alla fabbricazione di pasta di legno, carta ecc. Per il resto l'Asia non è ricca di foreste, degradate dalle pratiche agricole itineranti, soprattutto nella fascia tropicale; la superficie forestale è andata progressivamente riducendosi anche nell'area pluviale dell'Insulindia e in quella monsonica tropicale dell'Indocina e dell'India sudoccidentale, dove la foresta offre, tra l'altro, essenze pregiate. § Rilevante, ma con una diffusione piuttosto irregolare, è l'attività peschereccia, largamente praticata in vari Paesi come Indonesia, Cina, Corea, India e nell'area indocinese. Il primato in questo settore spetta tuttavia di gran lunga al Giappone, che ha organizzato l'attività peschereccia su basi altamente industriali, affermandosi come il massimo produttore mondiale di pesce fresco e conservato.

Economia: le risorse minerarie

La vastità del continente e la differente costituzione geologica tra le varie zone comportano la presenza di un'ampia gamma di minerali, a cominciare dal carbone, che abbonda nelle aree dei massicci paleozoici e la cui importanza come fonte energetica, in alternativa al petrolio, ha comportato una rivalutazione e un'intensificazione dell'attività estrattiva. I maggiori bacini carboniferi sono situati in territorio russo e cinese, ma rilevanti sono anche le riserve della penisola indiana; aree carbonifere minori si trovano in Giappone e Corea. Nei grandi bacini carboniferi russi e cinesi sono presenti anche ricchi giacimenti ferrosi, il cui sfruttamento, iniziato nel sec. XIX, ha comportato lo sviluppo del settore siderurgico, attorno al quale si sono andate formando le grandi regioni industriali degli Urali, del Kuzbass (Siberia sudoccidentale), della Manciuria e della Cina centrale. Scarsa rilevanza ha invece lo sfruttamento delle risorse locali per il gigantesco apparato siderurgico giapponese, che deve perciò ricorrere ai minerali importati. Complessivamente i Paesi asiatici contribuiscono per circa la metà alla produzione mondiale di ghisa e ferroleghe e forniscono una percentuale pressoché uguale di acciaio. Oltre che di ferro, l'Asia è ricca di altri minerali metalliferi: tungsteno (Cina, Corea del Nord, Myanmar, Uzbekistan), nichel (Cina), cromo (Turchia, India, Kazakistan, Cina, Iran), stagno, di cui la Cina è il maggiore produttore mondiale, seguita da Indonesia e Malaysia. Non mancano inoltre zinco (Cina), piombo (Corea del Nord), manganese (Cina), bauxite (India, Kazakistan). Le risorse aurifere sono quasi interamente concentrate nella Siberia orientale, dove sono inoltre localizzati i giacimenti diamantiferi; l'Indonesia ha cospicui giacimenti di rame. Un discorso a sé va fatto per il petrolio che ha rivoluzionato le economie dei Paesi del Golfo Persico, in particolare dell'Arabia Saudita che occupa il primo posto tra gli esportatori di greggio, seguita da Russia, Iran, EAU, Kuwait. Non trascurabili sono inoltre le risorse petrolifere di altre aree asiatiche, dalla Manciuria all'Indonesia, passando attraverso Myanmar e Malaysia. Risultati largamente positivi hanno dato le ricerche in territorio cinese e le riserve accertate risultano tali da collocare già ora la Cina tra i massimi produttori mondiali; parte del greggio viene esportato, soprattutto in Giappone. Diverso è il caso dell'India, le cui richieste energetiche sono essenzialmente coperte dal carbone; le prospezioni petrolifere, si sono comunque intensificate, specie nel Mar Arabico. § Il patrimonio idrico è rilevante, ma con una distribuzione irregolare e, se si esclude il Giappone, non adeguatamente sfruttato. L'acqua rappresenta un problema primario sia per le regioni aride e semiaride occidentali, sia per quelle umide sud-orientali, soggette a grandi inondazioni che, oltre a provocare periodicamente ingentissimi danni, disperdono enormi quantità d'acqua. Colossali impianti idroelettrici ha tuttavia l'Asia ex sovietica (come quello di Krasnojarsk, sul fiume Enisej); in Cina, India e nei Paesi della fascia tropicale sono stati costruiti importanti sbarramenti e opere di canalizzazione, specie in Iran e Iraq, che hanno consentito di recuperare all'agricoltura vaste estensioni di terre semidesertiche. La colossale diga delle Tre Gole, in Cina, è all'inizio del Duemila il più grande impianto di produzione di energia idroelettrica del mondo.

Economia: le attività industriali e terziarie

Fra le macroregioni che fino alla fine del secolo scorso venivano definite ancora “in via di sviluppo”, l'Asia deve ritenersi, complessivamente, la più industrializzata, sia allo stato attuale sia in prospettiva futura. Fino agli anni Settanta, l'industria asiatica veniva identificata, di fatto, con quella giapponese e, limitatamente ai settori siderurgico e tessile, indiana: il Giappone, in particolare, emergeva non solo per i poderosi comparti metalmeccanico (grandi acciaierie a ciclo integrale, che lo avevano portato al terzo posto della graduatoria mondiale, dopo URSS e Stati Uniti; cantieristica navale; costruzioni automobilistiche, in fase di progressiva affermazione) e petrolchimico (legato alla pressoché totale dipendenza energetica dalle importazioni di greggio), ma anche per l'elettromeccanica e la prima generazione dell'elettronica, accanto a industrie più tradizionali, come la tessile (setificio). Già allora le imprese giapponesi, legate al modello organizzativo tipico della grande industria integrata, assumevano carattere multinazionale e iniziavano, mediante cospicui investimenti all'estero, un processo di decentramento localizzativo cui lo “shock petrolifero” del 1973 dava improvviso impulso. Gli sbarramenti opposti dalle industrie europee e nordamericane per arginare la concorrenza dei prodotti giapponesi – di qualità spesso inferiore, ma estremamente competitivi sotto il profilo dei prezzi – orientavano tale decentramento verso i Paesi asiatici più vicini, pronti a mutuare le tecnologie semplici (in particolare, di assemblaggio), cui la manodopera locale, a bassissimo costo, era in grado di adattarsi immediatamente. Si delineava, così, come già accennato, il gruppo dei NIC. Nei restanti areali continentali dominava l'industria pesante sovietica (metalmeccanica e chimica), localizzatasi lungo la ferrovia Transiberiana e nelle regioni dell'Asia centrale, qui soprattutto in funzione di supporto alla conquista di nuovi spazi agricoli (macchinari, fertilizzanti). Viceversa, i progetti di industrializzazione dei Paesi petroliferi dell'Asia sudoccidentale, nonostante le enormi potenzialità finanziarie, si scontravano con la debolezza dei mercati interni, trattandosi di aree a bassa densità di popolazione, e con l'isolamento geopolitico, come dimostrava il sostanziale fallimento del progetto iraniano di localizzare un grande centro siderurgico a Bandar-e ‘Abbās: a parte alcuni grandi impianti di raffinazione del greggio, pertanto, quei capitali (i cosiddetti “petrodollari”) si indirizzavano all'estero o a sostenere interventi di infrastrutturazione urbana, nel settore dei servizi. Relativamente isolato, e comunque rivolto soprattutto ai rapporti con il mondo occidentale era lo sviluppo industriale della Turchia, notevole nei settori sia di base (metalmeccanico, petrolchimico, cementiero) sia propriamente manifatturieri (tessile, alimentare); e ancor più quello di Israele, dove si affermava decisamente una struttura fondata sulla piccola dimensione e l'alta tecnologia, anche in funzione del controllo e della valorizzazione territoriale. Dagli anni Novanta, infine, è venuto emergendo il ruolo del colosso cinese. Dopo una ormai remota fase, negli anni Cinquanta, in cui la Cina sembrava orientarsi a mutuare il modello urbano-industriale sovietico, la “rivoluzione culturale” maoista aveva decisamente invertito la tendenza, privilegiando il settore primario con la formazione delle “comuni popolari”, ovvero di unità economiche integrate e autosufficienti, che associavano agricoltura, industria e commercio. Il nuovo corso economico segnava, fin dagli anni Ottanta, una progressiva – pur se contrastata – apertura del grande Paese, con la creazione, lungo la fascia costiera meridionale, di “zone economiche speciali”, dove si localizzavano industrie leggere (agroalimentari, tessili e dell'abbigliamento, elettromeccaniche ed elettroniche, chimico-farmaceutiche) proiettate verso i mercati esteri. § Il settore terziario asiatico è caratterizzato, a sua volta, da un marcato dualismo. Da un lato, i servizi alle famiglie restano generalmente depressi, anche nei Paesi che hanno fatto registrare una crescita economica significativa, tuttavia basata sullo sfruttamento del lavoro (compreso quello minorile) e, dunque, generalmente priva di ogni tutela sociale. Le diffuse carenze alimentari e i bassi redditi pro capite limitano fortemente i consumi, interagendo con strutture distributive interne spesso primordiali. Dall'altro lato, le piazze finanziarie e commerciali giapponesi, di Hong Kong, Singapore e di alcune capitali del Sud-Est asiatico si sono poste all'attenzione del mondo intero per il grado di innovazione e la crescita vertiginosa fatti registrare negli anni Novanta, almeno prima della crisi che ne ha rivelato alcuni preoccupanti elementi di fragilità. Unitamente a quelle cinesi, esse restano, tuttavia, in primo piano nel panorama mondiale, con l'auspicio che opportune riforme strutturali e una sempre maggiore integrazione le rendano definitivamente solide e competitive, a sostegno dello sviluppo produttivo del continente.

Economia: le vie di comunicazione

La conformazione morfologica del continente ha notevolmente condizionato i tracciati delle vie di comunicazione, sviluppatesi sin dall'antichità nel senso dei paralleli, soprattutto per superare l'ostacolo dei grandi sbarramenti montagnosi della fascia centrale, contribuendo a rendere pressoché inesistenti i rapporti tra Nord e Sud. Ne è conseguita una netta prevalenza delle relazioni tra Ovest-Est, che ha consentito all'Islam di spingersi dalla Penisola Arabica sino alle Filippine e alle regioni mediterranee di intrattenere rapporti commerciali con la Cina sin dall'antichità, lungo la strada percorsa da Marco Polo: la “via della seta”. Nell'Asia meridionale, invece, il frastagliato contorno peninsulare e insulare del continente ha reso per molto tempo difficili le comunicazioni, anche marittime, sviluppatesi soprattutto in età coloniale. Per soddisfare le esigenze delle singole potenze furono realizzate reti stradali e ferroviarie parziali, condizionando i tracciati intercontinentali, così che a tutt'oggi non esiste una rete di comunicazioni panasiatica. La rete ferroviaria ha il suo più lungo e completo asse nell'Asia ex sovietica, collegata con l'Europa dalla Transiberiana che unisce Mosca a Vladivostok (9337 km), attraverso la grande regione pianeggiante siberiana, con diramazioni verso l'Asia centrale e la Cina. Nel 1984 è stata completata la ferrovia dal lago Bajkal all'Amur (BAM), un raddoppio, costruito alcune centinaia di km più a N, del tratto orientale della Transiberiana, con un impervio tracciato di 3150 km: oltre a costituire una gigantesca sfida tecnologica a continui ostacoli naturali, la nuova linea ferroviaria riveste grande importanza economica, in quanto destinata a diventare la via d'accesso per valorizzare enormi riserve minerarie e forestali sinora sfruttate solo in minima parte, rappresentando altresì il supporto per la creazione di nuovi centri industriali e quindi il popolamento di aree sinora pressoché disabitate. Cina e Asia orientale sono collegate direttamente dalla linea ferroviaria del Sinkiang, mentre l'India, che dispone di una rete ferroviaria piuttosto sviluppata, si raccorda all'Europa attraverso la Turchia, l'Iran e il Pakistan. Nel 2006 è stata inaugurata la ferrovia Qinghai-Tibet che attraversa il passo Tangula a 5072 m s.m. e che è la tratta ferroviaria più alta del mondo.Più carenti sono, a livello continentale, i collegamenti stradali (d'altronde la densità automobilistica è pressoché ovunque molto bassa), per quanto siano notevolmente migliorati in seguito ad alcune grandi realizzazioni, tra cui la strada che unisce la Cina all'India, attraverso le valli tibetane e l'Himalaya, e le arterie che collegano il Mediterraneo all'India e alla regione sudorientale fino a Singapore. Ancora assai largo è il ricorso alla navigazione fluviale; vivacissime arterie di traffico sono i fiumi cinesi e indocinesi, mentre meno utilizzate sono le pur poderose vie d'acqua siberiane, ghiacciate per buona parte dell'anno. In costante aumento sono sia il traffico aereo (spiccano, per traffico, gli aeroporti di Tōkyō, Pechino, Hong Kong e Bangkok) sia quello marittimo, che si avvale da tempo di buone strutture portuali (massimi porti asiatici sono oggi quelli della Cina, che hanno surclassato i prospicienti porti giapponesi); il settore ha ricevuto un notevole potenziamento, soprattutto nella regione del Golfo Persico, con la costruzione di nuovi porti attrezzati per accogliere le superpetroliere. Un ruolo particolare è svolto da Singapore, da sempre tipico porto di ridistribuzione delle merci, oggi organizzato con modernissime attrezzature e divenuto terminale fondamentale del ciclo di trasporto unitizzato basato sull'impiego dei containers. Oggi otto dei dieci porti più attivi al mondo sono situati in Asia, e di questi sei sono cinesi.

Economia: scambi commerciali e cooperazione economica

Sino al recente passato, i rapporti stabiliti dalle potenze coloniali tendevano a scoraggiare gli scambi commerciali su basi continentali, favorendo soprattutto le relazioni con l'Europa e gli Stati Uniti. Per quanto i Paesi industriali dell'Occidente continuino ad assorbire gran parte della produzione petrolifera del Golfo Persico e dei prodotti agricoli dei Paesi tropicali, esportando prodotti industriali di vario genere, un notevole incremento hanno avuto gli scambi commerciali all'interno del continente, specie per la dinamica presenza, in veste di importatore, del Giappone, divenuto il primo partner commerciale della Cina e il secondo dell'India, e oggi della Cina stessa. È stata comunque, soprattutto l'area dell'Asia sudorientale a rappresentare il più importante campo d'azione dell'economia giapponese, in quanto fonte di approvvigionamento di materie prime, mercato di esportazione, riserva di manodopera a basso costo, spazio per l'installazione di industrie altamente inquinanti; essa ha assorbito la percentuale più alta degli investimenti giapponesi all'estero, attuati inizialmente da società commerciali, interessate ad ampliare il mercato di vendita, e allargatisi successivamente a vari settori produttivi, a cominciare da quello minerario e petrolifero, offrendo in cambio capitali e tecnologie avanzate. Ancora più dinamica si sta dimostrando, in anni recenti, l'economia cinese, la quale ha sviluppato una rete di investimenti che copre tutti i continenti, dai Paesi in via di sviluppo, fornitori di materie prime, alle economie più avanzate, che rappresentano i principali partner commerciali. Un altro aspetto interessante dell'economia del Sud-Est asiatico è il fatto che molti investimenti sono stati realizzati attraverso l'utilizzazione di petrodollari arabi, venendo incontro alla necessità da parte dell'Arabia Saudita e dei piccoli emirati del Golfo Persico, di investire all'estero una forte aliquota delle proprie eccedenze finanziarie. Il Sud-Est si caratterizza inoltre per la presenza dell'ASEAN, sinora l'unica associazione asiatica avente come scopo l'integrazione economica tra i Paesi membri. L'intento di promuovere raggruppamenti regionali o settoriali si è posto anche per altri Paesi asiatici, soprattutto dell'area occidentale e meridionale, con lo scopo di favorire lo sviluppo e di tutelare gli interessi comuni; tuttavia ben pochi sono stati i progressi finora compiuti.

Esplorazioni

Già a partire dal sec. V a. C. i Paesi e i popoli dei vasti imperi assiro e persiano, fino al Turkestan e all'Indo, ci sono noti a grandi linee attraverso le esplorazioni del navigatore greco Scilace e le relazioni dei viaggi di Ecateo di Mileto e di Erodoto. Le conquiste folgoranti di Alessandro Magno, vere imprese esplorative, si spinsero fino all'odierna città di Amritsar; i suoi geografi resero più precisa la conoscenza dell'Asia sudoccidentale, del fiume Indo, delle coste dell'Oceano Indiano e del Golfo Persico, annunciando l'esistenza del Gange. I Romani, arrestati dai Parti nella loro espansione verso oriente, intrattennero relazioni commerciali via mare, partendo dal Mar Rosso, con i Paesi dell'Asia meridionale, dapprima fino alle foci dell'Indo, poi lungo le coste dell'India, di Ceylon, della Birmania e della Malesia. Con l'affermarsi del cristianesimo, numerosi missionari si recarono in Arabia, in Armenia, in Persia, in India, spingendosi fino nell'interno del continente e in Cina. Ma il primo valido contributo alla conoscenza dell'Asia fu portato, a partire dal sec. IX, dalle relazioni di viaggi compiuti dagli Arabi: Ibn Khurdādhbih lasciò un'opera (Sulle strade e i regni) con la descrizione di un itinerario dalla Mesopotamia al Fergana attraverso la Persia; al-Yaʽqūbī un Libro delle regioni; al-Masʽūdī toccò l'India e Giava; al-Idrīsī giunse verso il 1150 in Cina, toccando il lago d'Aral e il Tibet; Ibn Baṭṭūṭa nella prima metà del XIV secolo visitò numerosi Paesi e molte isole dell'Asia, lasciando dettagliate relazioni. Ma praticamente il mondo asiatico, salvo la regione dei luoghi santi e dei Paesi vicini, raggiunti prima da pellegrini bizantini e più tardi dai crociati, rimase a lungo sconosciuto all'Europa. La calata dei Mongoli di Gengis Khān fino alla Polonia e il terrore che le loro devastazioni sparsero in tutta l'Europa furono la spinta iniziale ai grandi viaggi in Asia, allo scopo di prendere contatto con i capi mongoli e promuovere l'alleanza nella lotta contro l'Islam, il comune nemico. Nel 1245 il francescano Giovanni da Pian del Carpine fu inviato in missione da papa Innocenzo IV presso il Gran Khān. Da Sarai, sul Volga, presso l'odierna Saratov, costeggiò il Syrdar'ja e, valicata la porta di Zungaria, giunse a Caracorum, in Mongolia. Di tale viaggio egli lasciò una relazione dettagliata nel volume Historia Mongolorum.. Ricalcando all'incirca le orme di frate Giovanni, un altro francescano, Guglielmo di Ruysbroeck, partito nel 1252, raggiunse nel 1254 Caracorum, inviato da Luigi IX di Francia; la sua relazione è un prezioso compendio di notizie sui popoli visitati, accompagnate da osservazioni geografiche sui vari Paesi. Ben presto però agli interessi politico-religiosi subentrarono ragioni commerciali, dato che era proprio dai Paesi orientali che giungevano in Europa, attraverso gli Arabi, seterie, spezie, pietre preziose. Nel 1261 due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo, partirono per Pechino dove il Gran Khān dei Tatari aveva fissato la sua capitale. Tornati a Venezia dopo sette anni di permanenza in Estremo Oriente, essi ripartirono nel 1271, portando seco il giovane Marco, figlio di Nicolò, e, attraversata l'Asia centrale, giunsero a Pechino dopo tre anni di viaggio. Incaricato di diverse missioni, Marco ebbe modo di visitare la Cina, recandosi fino in Birmania; ne ripartì nel 1292, effettuando nel viaggio di ritorno la circumnavigazione dell'Asia meridionale. Lasciò un vivido resoconto dei suoi viaggi nel Libro delle Maraviglie, più noto come Il Milione.. Contatti con la Cina stabilì anche frate Giovanni da Montecorvino, che dopo aver raggiunto l'India, si recò a Pechino (1294) dove stabilì un vescovado, seguito, tra il 1318 e il 1330, dal francescano Odorico da Pordenone, il quale durante il viaggio di ritorno visitò anche il Tibet. Con l'apertura della via marittima all'India, seguita alla scoperta di Vasco da Gama (1497-98) della possibilità di compiere il periplo dell'Africa, i portoghesi si spinsero nell'Oceano Indiano, stabilendo numerosi insediamenti in India, nella Malacca, a Canton, in Giappone. Quest'ultimo Paese fu largamente esplorato dal gesuita Francesco Saverio che, giuntovi nel 1549, vi soggiornò a lungo aprendovi delle missioni. La sua opera fu continuata da altri gesuiti, ma ben presto la Cina e il Giappone si chiusero all'ingresso degli stranieri. Alcuni missionari poterono tuttavia restare in Cina, in qualità di studiosi: tra questi, padre Matteo Ricci, nelle Indie Orientali dal 1577, e padre Martino Martini, che compendiò l'opera dei suoi confratelli nel Nuovo atlante della Cina, edito alla metà del Seicento. Il territorio asiatico si andava frattanto sempre meglio precisando con l'espansione russa nell'Asia settentrionale, di cui le sole notizie giunte in Occidente erano quelle riportate all'inizio del XVI secolo dai mercanti di pellicce. A questi fecero però presto seguito truppe irregolari di Cosacchi, che conquistarono città tatare o ne fondarono di nuove, come Tobolsk (1587), Tomsk (1604), Jenisejsk (1618), Krasnojarsk (1628), Jakutsk (1632) e Irkutsk (1652), base quest'ultima di ulteriori esplorazioni verso N e verso E. A N furono riconosciuti i fiumi Lena, Olenëk, Indigirka e Kolyma, mentre S. I. Dežnev (1648) guidò una spedizione alla penisola dei Ciukci, scoprendo, ma non si è certi, lo stretto di Bering. Tra il 1643 e il 1646 il cosacco V. Pojarkov giunse all'Amur, che discese fino alla foce. Ma queste esplorazioni, fatte da avventurieri e pionieri quasi del tutto incolti, non contribuirono a dare un'idea chiara del Paese. La prima spedizione basata su premesse scientifiche fu quella guidata da Vitus Joannsen Bering, incaricato nel 1725 da Pietro il Grande di accertare se il territorio asiatico si prolungasse o meno in quello americano; partito nel 1727 dalla penisola di Kamčatka, si portò sino a 67º N scoprendo lo stretto che porta il suo nome. La ricognizione della costa artica fu in gran parte compiuta dai russi nella prima metà del XVIII secolo : nel 1742 Čeljuskin raggiunse il punto più settentrionale della Siberia, che oggi porta il nome dello scopritore. Solo nel 1879 però lo svedese Nordenskjöld riuscì a raggiungere il Pacifico partendo dalla Norvegia, attraverso il tanto ricercato passaggio di Nord-Est. Frattanto era proseguita l'esplorazione delle regioni interne della Siberia, con numerosi rilevamenti, preludio alla costruzione di quell'importante via di penetrazione che fu la ferrovia transiberiana. Nell'Asia centrale e meridionale grande fu l'apporto dei gesuiti alla conoscenza di genti e Paesi; sono da ricordare, fra gli altri, i portoghesi Bento de Goes e Antonio de Andrade e i francesi J. F. Gerbillon e G. B. B. D'Anville. La Persia e l'India furono fatte conoscere al mondo occidentale dai francesi J.-B. Tavernier e J. Chardin (XVIIsecolo ) e nel 1802 il Survey of India iniziò la sistematica triangolazione del subcontinente indiano. La regione arabica, per lunghi secoli chiusa all'ingresso dei non musulmani, fu visitata dal danese Carsten Niebuhr (1761), che per primo diede notizie attendibili sul Paese, seguito nel 1811 dallo svizzero Ludwig Burckhardt. Alla ricerca di nuove terre da colonizzare, che aveva caratterizzato quasi tutte le imprese fino alla prima metà del XIX secolo , si sostituirono, a partire dalla seconda metà del secolo, spedizioni scientifiche, che portarono un decisivo contributo alla conoscenza delle regioni più interne, particolarmente delle zone più impervie delle grandi catene montuose dell'Asia centrale.

Preistoria

L'inizio del Paleolitico inferiore asiatico, la cronologia e le modalità del primo popolamento di questo continente sono oggetto di discussione. Mentre alcuni importanti siti, come per esempio Ubeidiya in Israele, con un'industria caratterizzata da nuclei choppers, poliedri, sferoidi, schegge e bifacciali acheuleani (questi ultimi assenti nei livelli inferiori), sembrano situarsi tra 1,4-1 milione di anni fa, alcune segnalazioni di manufatti litici a Riwat in Pakistan abbasserebbero questa soglia cronologica a circa 2 milioni di anni fa. Altri ritrovamenti di resti di Ominidi, con datazione non confermata intorno ai 2 milioni di anni, si sono avuti nella provincia di Yunnan in Cina, mentre industrie litiche associate a Homo erectus yuanmouensis avrebbero un'età magnetostratigrafica tra 1,7-1,8 milioni di anni. Se queste attribuzioni tassonomiche si dimostreranno corrette, potrebbe venire accertato un centro di origine indipendente dell'uomo asiatico nel Sud della Cina. Date altrettanto arcaiche (ca. 2 milioni di anni) e altrettanto discusse sono state proposte per i resti di Homo modjokertensis rinvenuti a Giava. A epoca più recente appartengono siti acheuleani come per esempio quello di Sitt Marklo in Israele o quello di Latamne in Siria riferito a un Acheuleano medio, e quello di Chirki on Pravara in India. In Cina la serie di Chu kut'ien, nei pressi di Pechino, nota per i numerosi resti di Homo erectus (sinantropo) rinvenuti sin dal 1923, contiene un'industria su ciottoli e schegge di quarzite di età generalmente compresa tra 500.000 e 250.000 anni. La grotta di Azich in Azerbaigian ha rivelato una sequenza dall'Acheuleano antico fino al Neolitico, con una mandibola umana di tipo arcaico ma di età ignota. L'Acheuleano superiore del Levante è noto attualmente in oltre 200 tra siti e rinvenimenti di superficie. Le fasi più recenti dell'Acheuleano del Levante (Acheulo-Yabrudiano) sono datate tra 150.000 e 100.000 anni. I successivi complessi musteriani (grotte di Qafzeh e Skhül in Israele) sono stati recentemente datati a circa 80.000 anni; il tipo umano rinvenuto in queste due grotte è ora considerato come un rappresentante di Homo sapiens sapiens arcaico e designato come un proto-Cro-Magnon. Resti riferiti al gruppo dei neandertaliani del Vicino Oriente, oltre che in altre grotte in Israele (Tabūn e Amud), sono noti in diversi siti asiatici, come Shanidar in Iraq (tra 60.000 e 40.000 anni) e Tescik Tasc in Uzbekistan (ca. 44.000 anni). Strutture di abitato costruite con ossa di mammut sono presenti in questa stessa epoca in Ucraina, ove l'esempio più significativo è costituito dalle capanne o recinti di Molodova I e IV, nella valle del Dnestr. La sequenza di Ksar Akil nel Libano riflette l'inizio del Paleolitico superiore, con livelli aurignaziani datati tra 34.600 e ca. 20.000 anni da oggi. Rilevanti anche le tracce del Paleolitico superiore in Siberia e nell'Asia centrale. Tra le località più celebri è Mal'ta, su un subaffluente dell'Angara, nella quale sono venute alla luce tra l'altro numerose statuette d'avorio. Sopra giacimenti dell'ultima fase del Paleolitico, in molte località asiatiche, tra cui la Siberia, la Mongolia, la Manciuria, la Cina, il Giappone, si è riscontrata l'esistenza di resti di insediamenti mesolitici, caratterizzati dalla presenza di un'industria microlitica, a fianco della quale sono presenti spesso macine e altri utensili che attestano la preparazione di nutrimenti a base di vegetali. Ma sulla nascita delle vere grandi civiltà agricole, le maggiori documentazioni ci provengono da quella zona compresa tra il Mediterraneo, il Golfo Persico e il Mar Caspio detta “mezzaluna fertile”. In un'epoca che viene denominata preceramica, in cui cioè non era ancora nota la fabbricazione dei vasi in terracotta e nella quale fiorirono le culture di Shanidar nell'Iraq e del Natufiano in Palestina, verso il VI millennio presero sviluppo i grandi complessi culturali neolitici che, dalle valli del Tigri, dell'Eufrate e del Giordano e dall'Anatolia, si diffusero verso l'Europa centrale e occidentale. Nel Neolitico l'Asia si presenta come un immenso mosaico di aspetti culturali sviluppatisi nelle varie zone raggiunte dalle correnti partite in buona parte dai centri di irradiazione dell'Europa orientale e del Vicino Oriente. Tra il lago d'Aral e l'alto bacino dei fiumi Ob e Jenisej, due sono le culture che primeggiano, quella pastorale di Afanasjevo (III millennio) a oriente e quella di Kelteminar (dalla fine del VII al III millennio a. C.) a occidente, che verso il II millennio sfociano nella cultura di Andronovo. Tra le altre culture neolitiche nell'Asia centrale vanno menzionate quella di Serovo, in cui spiccano varie manifestazioni di arte parietale e mobiliare, e la successiva di Kitoj, caratterizzata soprattutto dalla lavorazione della giada. Nei territori più meridionali è rilevante la cultura calcolitica di Namazga (6500-5700 anni da oggi), nel cui sito eponimo, Namazga Depe, sono anche presenti livelli dell'Età del Bronzo compresi tra il 2800 e il 1100 a. C., e in Indocina e Insulindia quella bacsoniana, la cui industria litica presenta singolari misture di caratteri arcaici con altri più recenti. Tra le stazioni preistoriche neolitiche cinesi primeggiano quella di Leeiligang, risalente a circa 7000 anni fa, seguita da quella Yang-Chiao (7000-5000 anni fa), caratterizzata da una ceramica rossiccia con decorazioni marroni di tipo geometrizzante e astratto, quella di Ta-wen k'ou (6000-5000 anni fa), che rivela la presenza di alcuni caratteri pittografici, precursori degli ideogrammi, e quella di Lung Shan (5000-4000 anni fa) caratterizzata fra l'altro dalla produzione di una ceramica nera, sottilissima e priva di decorazioni. Le grandi conquiste culturali conseguite con l'avvento del Neolitico, tra cui segnatamente la coltivazione dei vegetali, l'invenzione della ceramica, l'allevamento e la domesticazione del bestiame, condussero le genti del bacino del Mediterraneo orientale e delle valli mesopotamiche a un grande sviluppo precoce di fiorenti villaggi di agricoltori e poi di artigiani e di mercanti, quali Jarmo, Muallafat, Hassuna, Sialk, Ras Shamra, Halaf, divenuti in breve centri urbani e focolai di irradiazione culturale di primissimo piano. La scoperta e l'utilizzazione dei metalli, dapprima il rame e quindi il bronzo e l'oro, dovevano infine imprimere nuovo vigore alle rigogliose civiltà del Medio e Vicino Oriente.

Storia: dalle origini al XV secolo

Secondo un'ipotesi etimologica, il termine Asia deriverebbe da una voce assira indicante l'Oriente e, in questo senso, antichissima sarebbe la contrapposizione con Europa. In ogni caso, il termine, usato dai Fenici, dai Greci e poi dai Romani, aveva appunto in sé un implicito connotato direzionale più che uno specifico contenuto di Paesi determinati. In realtà, come in qualche misura è avvenuto per il concetto correlativo di Europa e per quello di Africa (con i quali costituisce il triangolo che racchiude il Mediterraneo), l'idea di Asia ha una sua storia e una sua evoluzione che ancor oggi non sono cessate. Inizialmente il termine designava soltanto o prevalentemente la penisola anatolica, quella che più tardi sarà indicata come Asia Minore; successivamente, dalle coste del Mediterraneo andò espandendosi verso oriente sino ai lidi dell'Oceano Pacifico. Ma solo nel sec. XVIII l'Asia conoscerà le dimensioni che oggi indicano gli atlanti geografici: perché un tempo, per esempio, il suo confine sarmatico correva lungo il fiume Don, non a cavallo dei monti Urali. È forse inutile sottolineare come, nella sua accezione moderna, il concetto sia tipicamente europeo ed eurocentrico: i nostri contemporanei asiatici lo hanno recepito passivamente, come innocuo retaggio del colonialismo culturale. In realtà, al di fuori di ogni vaga determinazione geografica, l'Asia si definiva (e male) in termini prevalentemente negativi come un continente abitato da gente etnicamente diversa da noi, caratterizzata da esperienze religiose non cristiane, con lingue e organizzazioni politiche per noi esotiche. Il concetto di Asia, dunque, poteva vantare una sua economia culturale solo quando il continente aveva una funzione storica marginale e passiva, sullo sfondo della vicenda europea. Oggi emerge in tutta la sua evidenza l'assurdo di una denominazione che raggruppa realtà umane e storiche molto diverse mentre spezza altre unità culturali che sono invece molto evidenti. È così chiaro l'imbarazzo di una nomenclatura e di una suddivisione in continenti che spacca in due l'unità storica e culturale del mondo arabo, agglomerando artificialmente una parte di esso all'Africa nera e l'altra ai Paesi di matrice indiana o cinese. Nella misura, insomma, in cui un continente vuol essere un'unità storica e umana al di sopra delle frammentazioni politiche (come avviene, grosso modo, nel caso dell'Europa) bisognerebbe parlare, piuttosto che di Asia, delle quattro o cinque unità in cui essa si suddivide. Vi è, innanzitutto, una realtà vicino-orientale (che trabocca poi in Africa) caratterizzata da popoli e da culture diversi, ma unificata poi dall'espansione araba e dalla conseguente diffusione dell'islamismo. Vi è quindi il mondo indiano, creatosi nelle valli fluviali e diffusosi non solo nella grande penisola ma anche nei Paesi indocinesi e indomalesi. Vi è l'Estremo Oriente, che si riconosce culturalmente in una matrice cinese. Vi sono infine l'Asia continentale dei deserti e delle steppe, generatrice delle grandi culture nomadiche, e le semispopolate tundre dell'estremo settentrione. Ciascuno di questi mondi ha una sua unità e una sua autonomia storica precisa, anche se non sono mancati influssi reciproci, scambi duraturi, conquiste. Anche nel sec. XX, non appena la tensione antieuropea della lotta contro la dominazione si è acquietata, il senso dell'unità asiatica si è andato necessariamente affievolendo. Il concetto è tanto poco utilizzabile che una notevole parte della pubblicistica anglosassone interessata ai problemi attuali usa il termine Asia in senso restrittivo, escludendo il Vicino Oriente e le regioni dell'Asia centrale che hanno fatto parte dell'URSS, limitandolo cioè al subcontinente indiano, alle tormentate regioni sudorientali e all'Estremo Oriente. In tal modo, paradossalmente, il concetto non copre più le regioni alle quali in origine si applicava, ossia l'Anatolia e le costiere mediterranee. Tuttavia l'Asia conserva una forte dimensione unitaria nel nostro mito di Europei; un mito esotico carico a volte di valori negativi (l'Asia patria del lusso barbarico, della mancanza di misura umana, della tirannide), ma anche di riverenza per un continente nel quale si vede la culla di tante civiltà e di tante religioni. È in Asia che si compie il salto qualitativo dalle culture primitive alle grandi civiltà monumentali. Queste vedono la luce nei tre grandi bacini fluviali della Mesopotamia, dove scorrono l'Eufrate e il Tigri; dell'India nordoccidentale, dove fluisce l'Indo; della Cina settentrionale, dove si snoda l'Hwang He. La prima vicenda storica è particolarmente tumultuosa nella prima di queste aree dove, a partire dagli ultimi secoli del IV millennio a. C. (secondo ipotesi incerte), cominciano a giungere, a formarsi, a svilupparsi alcune delle popolazioni che daranno vita a civiltà molto complesse. Si discute se spetti agli Elamiti o ai Sumeri la palma dell'antichità, che è comunque molto marcata trattandosi in ogni caso di una vicenda che attorno al 2300 a. C. testimonia personaggi storici ben individuati e avvenimenti e istituzioni delineabili con chiarezza. Più tardi, mentre l'area di diffusione della civiltà si allarga al di fuori del bacino fluviale verso l'altopiano iranico, verso la costa mediterranea (sino a congiungersi con il mondo egizio, altrettanto antico) e verso le montagne dell'Anatolia, si registra la gloria di popoli e potentati sempre nuovi, che in parte convivono con i precedenti, in parte li soppiantano o li assimilano: sono Accadi, Assiri, Babilonesi, Urriti, Ittiti, Ebrei, Fenici, Iranici. Queste popolazioni, in parte semitiche, in parte indeuropee, in parte di altra origine, presentano civiltà assai diversificate tra loro, ma in ogni caso di livello elevato, caratterizzato da opere monumentali, da un'organizzazione politica e sociale complessa, da un'avanzata diffusione dell'agricoltura a fianco di altre forme di produzione, da un artigianato e da un'arte di cui sono giunte a noi numerosissime e splendide testimonianze. Con l'ultimo dei popoli citati più sopra, cioè con gli Iranici, avviene, almeno nel campo dell'organizzazione politica, un salto qualitativo, attraverso la creazione di imperi di dimensioni amplissime. La prima potenza iranica è quella dei Medi, che raggiungono il loro apogeo a cavallo tra il sec. VII e il VI a. C. Ma assai più rilevante sarà quella dell'impero persiano che, fondato da Ciro il Grande alla metà del sec. VI a. C., unificherà politicamente tutta l'Asia occidentale, dalle coste della Grecia sino al fiume Indo. Più a oriente, la prima grande testimonianza di civiltà è offerta dalle culture di Harappā e di Mohenjo-Daro, create tra il III e il II millennio a. C. da popolazioni per le quali si è ipotizzata un'affinità o un rapporto con il mondo sumero. Questa cultura, che con le due città sopra citate fornisce un esempio di incredibile splendore e modernità dell'organizzazione urbana, viene sommersa verso la metà del millennio dalla grande migrazione degli Arii (un popolo indeuropeo, come gli Iranici): è questo il fatto determinante di tutta la successiva storia del subcontinente indiano. Gli Arii trovano nel Paese popolazioni a diverso livello di cultura e di civiltà e cominciano un'opera che è a un tempo di conquista e di convivenza. Nel giro di un millennio ca., i nuovi venuti si diffondono nelle regioni settentrionali del Paese (valli dell'Indo e del Gange) mentre più a S continuano a rimanere sostanzialmente estranee le popolazioni dravidiche. È durante questa prima fase che l'India ariana elabora gli elementi essenziali della propria cultura religiosa e della propria organizzazione politica, tra cui l'istituto delle caste. Ancora più in là, in quella terra che la paleoantropologia ci dice abitata da esseri umani in età molto antica, si veniva elaborando quella che sarà la civiltà cinese. L'archeologia, ricchissima di reperti in terra cinese, sposta gradatamente più indietro il limite di passaggio dalla protostoria e dalla leggenda a una vera e propria situazione storica. Secondo le tradizioni scritte, gli Hsia fondarono la prima dinastia della storia cinese (2205-1766 a. C.). Il centro principale di questa dinastia è stato scavato a Erlitou, dove compaiono i primi reperti in bronzo e le fondamenta di un grande palazzo. La dinastia Shang è la seconda dinastia storica in Cina ed ebbe una durata di circa 600 anni (1776-1111 a. C.). Organizzò uno Stato di tipo feudale, articolato in città-Stato, caratterizzato da una civiltà indubbiamente avanzata e, in particolare, da un artigianato del bronzo di grande valore. All'inizio dell'ultimo millennio a. C. una popolazione stanziata ai margini della civiltà Shang soppianta quest'ultima dando vita alla gloriosa dinastia Chou, destinata a durare sino quasi alle soglie della nostra era. Ma è nella prima parte dell'ultimo millennio che vanno elaborandosi i modelli fondamentali della civiltà destinata a diffondersi in tutto l'Estremo Oriente e, tra il sec. VI e il V, la figura di Confucio assomma in sé e simbolizza tutto il lungo processo di formazione della civiltà cinese. Il sorgere, quasi contemporaneo, delle maggiori civiltà fluviali ha naturalmente posto il problema dei loro rapporti reciproci, problema ancora lontano da soluzioni definitive, anche se l'ipotesi di influssi mesopotamici sulle altre aree (di sviluppo leggermente più tardo) appare probabile. Così, attorno alla metà dell'ultimo millennio a. C., la storia dell'Asia presenta già i suoi punti fermi. Nonostante tutte le successive variazioni ed evoluzioni, Persia, India, Cina costituiscono delle unità storico-culturali destinate a non perdere più la loro identità. Più a N, le steppe dell'Asia centrale svolgono già la loro funzione di fornire popoli nuovi e conquistatori alle civiltà sedentarie circostanti e di facilitare, con i loro continui movimenti migratori interni, lo scambio di nozioni e di valori tra le culture maggiori. La storia successiva dell'Asia occidentale è intimamente legata a quella del nostro continente, dall'epica contrapposizione tra Greci e Persiani a quella non meno aspra tra Parti e Romani, per non parlare della storia religiosa, che vede nascere in Asia quella che sarà la fede dell'Europa nei due millenni successivi. Per quest'area, tuttavia, la grande svolta è rappresentata, nel sec. VII, dalla figura di Maometto, dal formarsi della religione islamica e dallo sviluppo del popolo arabo. L'Islam muta radicalmente il profilo culturale di questa parte del pianeta. In tutti quelli che oggi sono i Paesi arabi, il popolo del Profeta porta non solo una religione nuova, ma una completa assimilazione culturale e linguistica. Altrove, Islam può significare il predominio politico degli Arabi, o una grande influenza della cultura araba, ma non la scomparsa delle peculiarità locali. È questo il caso del mondo persiano, che si converte, assume grafia e costumi nuovi, ma non perde la propria identità culturale e, per lunghi periodi, vanta una propria autonomia politica. A maggior ragione, l'influenza o la conquista islamica hanno un significato ristretto in regioni più lontane, come in India, nell'Asia centrale, in Indonesia (dove la conversione avviene solo attorno alla metà del nostro millennio). L'India, nel frattempo, aveva registrato un'ulteriore diffusione della civiltà ariana, che si imponeva alle popolazioni dravidiche, pur assorbendo da esse numerosi stimoli e costumi culturali. Il sec. III a. C. è caratterizzato dall'egemonia della grande dinastia Maurya, la prima ad avere, praticamente, un carattere panindiano. Il maggiore sovrano di questa dinastia, Aśoka (274-232) ha, come è noto, legato il suo nome al successo storico del buddhismo, la grande religione universale nata in India e destinata a diffondersi, verso oriente, fino ai lidi del Pacifico. Nel sec. IV d. C. l'India conosce una nuova unificazione politica sotto la dinastia dei Gupta, che può essere considerata la prima e ultima fase unitaria la cui ispirazione ideologica si rifaccia alla fede induista: i Maurya, infatti, come si è visto, si ispirarono con Aśoka al buddhismo, mentre le successive unificazioni dell'India avranno dei protagonisti musulmani o addirittura protestanti (gli Inglesi). All'inizio del sec. VIII , tuttavia, fanno la loro prima apparizione nella storia dell'India le popolazioni islamiche, che più tardi giungeranno ad avere il predominio politico su tutto il vastissimo Paese creando una tensione religiosa che ancora sussiste nel terzo millennio. Nel frattempo la cultura indiana si diffondeva, con una graduale penetrazione, nelle regioni dell'Indocina e dell'Insulindia. In Indocina l'assetto storico ed etnico attuale si è andato elaborando durante il primo millennio della nostra era, quando diverse popolazioni di provenienza settentrionale sono calate al Sud, soppiantando o assimilando le popolazioni precedenti, delle quali i Cambogiani (Khmer) e le popolazioni Mon sono oggi le maggiori sopravvivenze. Questi popoli venuti dal Nord sono i Birmani (affini ai Tibetani), stanziatisi nei bacini dell'Irrawaddy e del Saluen, i Thai (provenienti dallo Yunnan), che hanno gradatamente conquistato il bacino del Menam e quello del Mekong, i Vietnamiti, che si sono stanziati lungo le costiere orientali della penisola. Si tratta di popolazioni etnicamente più simili ai Cinesi che agli Indiani, ma che devono all'India il loro ingresso nel mondo civile, la loro religione, la loro grafia, molti dei loro valori politici e sociali. Analogo è stato sotto questo riguardo lo sviluppo del mondo malese, i cui maggiori imperi, sino all'arrivo dei musulmani e degli Europei, erano ispirati dalla cultura indiana. In Estremo Oriente ai Chou si sostituiva, nel sec. III a. C., la dinastia Han, la cui vita quattro volte centenaria ha imposto alla Cina un'esperienza unitaria di eccezionale importanza. Poi, mentre per altri quattro secoli l'unità cinese conosceva un'eclissi durante la quale il buddhismo penetrava e si diffondeva, la cultura cinese improntava di sé alcuni Stati limitrofi nascenti, come la Corea, il Giappone, il Viet Nam, unico Paese dell'Indocina in cui l'influsso cinese prevale su quello indiano. Durante il sec. XIII, l'Asia conosce (suo malgrado) un'esperienza unificante: quella della conquista mongola, operata da Gengis Khān (ca. 1162-1227) e dai suoi successori . È questa la più alta pagina politica espressa dai popoli delle steppe che, direttamente o indirettamente, hanno imposto la propria legge sulla Russia, sulla Cina, sul mondo persiano; per non parlare delle ulteriori esperienze di conquista di Tamerlano (sec. XIV) e dei Moghūl che dall'Afghanistan invasero nel 1526 il subcontinente indiano dando vita a un impero durato per tre secoli. Difficile fu però la convivenza tra l'islamismo dei nuovi dominatori e l'induismo, di cui i musulmani, tutti eguali davanti a Dio, respingevano la suddivisione della società in caste rigidamente separate. Nell'altro grande gigante asiatico, la Cina, il lungo periodo della dominazione straniera terminò invece grazie al regno della dinastia imperiale Ming (1368-1644), poi scalzata dall'invasione dei nomadi della Manciuria che ressero il Paese con la dinastia Ch'ing fino al 1912. I mancesi svilupparono ulteriormente il preesistente apparato burocratico statale, intensificarono i contatti con l'Europa e resero prospera l'economia, soprattutto nel sec. XVIII, benché il ceto mercantile non raggiungesse l'importanza di quello europeo essendo collocato ai margini della società e sopraffatto dai signori feudali e dai mandarini, privilegiata élite di funzionari civili. Dopo le grandi invasioni dei Moghūl e dei mancesi, Cina e India chiusero riuscirono a mettere fine alle scorrerie delle popolazioni nomadi, gradualmente assorbite all'interno delle rispettive culture. Anche il Giappone, a lungo sconvolto dalle lotte tra i suoi signori feudali, ebbe tra i sec. XVI e XVII un analogo processo di unificazione interna: l'irrobustito potere imperiale ridimensionò infatti la riottosità della casta guerriera dei samurai e degli altri feudatari favorendo la crescita delle città e delle attività mercantili e imprenditoriali (pur male accette al confucianesimo).

Storia: l’espansionismo europeo

Mentre i più grandi Paesi asiatici conoscevano questa evoluzione, le esplorazioni geografiche portoghesi e spagnole iniziate alla fine del sec. XV aprivano la strada all'espansionismo europeo in Asia che tuttavia, fino al sec. XIX, ebbe un carattere essenzialmente commerciale. L'avvicendarsi dell'egemonia dei Portoghesi, poi degli Olandesi e infine degli Inglesi non provocò infatti una penetrazione all'interno dei territori asiatici, ma si fondò a lungo sul possesso di scali, fortificazioni e depositi di merci dislocati nei punti strategici costieri toccati dalle rotte ininterrottamente battute dai convogli delle compagnie mercantili. Diverse furono le reazioni dei vari segmenti dell'immenso continente al predominio europeo: nell'Asia mediorientale il mondo islamico controllato dai Turchi si chiuse rigidamente all'Europa cristiana, vivendo una lunga decadenza economica e politica che, dopo la fine della prima guerra mondiale, condusse alla spartizione dell'Impero ottomano tra Francia e Gran Bretagna.Altrettanto fecero in Estremo Oriente la Cina, il Giappone e la Corea, rinserrate in un isolamento intransigente che consentì una duratura difesa dalle ingerenze straniere, mentre nel mondo indiano il lento disfacimento (nel sec. XVIII) dell'Impero moghūl diede luogo a sultanati indipendenti che, ostili tra loro, non resistettero alla conquista inglese. Scalzato il precedente predominio commerciale portoghese, l'Inghilterra in quest'area combatté accanitamente per il controllo dei traffici orientali contro la Francia e fu proprio la sconfitta di quest'ultima nella guerra dei Sette anni (1756-63) a determinare le prime vere e proprie conquiste coloniali, con l'acquisizione britannica del Bengala e, nella valle del Gange, del Bihar, mentre anche l'Olanda si annetteva l'Indonesia. Da parte loro i Portoghesi mantennero il dominio su Macao, Goa, Diu, Ceylon e Timor e gli Spagnoli quello sulle Filippine, conservate fino alla guerra ispano-americana, quando passarono agli Stati Uniti (1898). Fu comunque solo nel sec. XIX che il colonialismo sembrò il destino ineluttabile di tutto il continente. Mentre la Francia s'impossessava tra il 1862 e il 1893 del Vietnam, della Cocincina, della Cambogia, del Tonchino e del Laos, tutti raggruppati nell'Unione Indocinese, la penisola indiana cominciò a trasformarsi nel più importante dominio coloniale degli inglesi che ne allargarono il territorio combattendo i Birmani (1824-26), conquistando alcune zone costiere e sottoponendo aprotettorato l'Assam. Per tamponare la potenza della Russia zarista, dilagata nell'Ottocento verso oriente sino al Turkestan (1880-84) e al Mar d'Ohotsk, l'Inghilterra tentò poi d'impadronirsi dell'Afghanistan, occupò il Sind (1843), il Punjab (1845-49) e, con una seconda offensiva antibirmana, Rangoon, le foci dell'Irrawaddy (1852) e infine l'intera Birmania (1886), espandendosi altrsì nell'arcipelago malese (1888). Pur assolvendo una funzione di civilizzazione del Paese, in particolare creando una classe dirigente e intellettuale locale, la Gran Bretagna dovette subire in India non poche rivolte che la spinsero a trasformarne il dominio da possedimento amministrato dalla Compagnia delle Indie a territorio direttamente dipendente dalla corona (1858) e poi in Impero (1877). Sottomessi subito dopo il Belucistan e l'Afghanistan, gli Inglesi puntarono verso il ricco mercato cinese, favoriti dal taglio dell'istmo di Suez (1869) e dal controllo di Singapore, in loro possesso dal 1819 e chiave di volta dei traffici di quell'area. A eccezione della colonia portoghese di Macao, unico punto di contatto commerciale con l'Occidente insieme con il porto di Canton, la Cina permaneva nel suo orgoglioso isolamento, opponendosi in particolare al commercio britannico dell'oppio. La conseguente reazione inglese (scatenando la cosiddetta guerra dell'oppio839-42), seguita poi da altre spedizioni anglo-franco-olandesi e statunitensi, obbligò i cinesi ad aprire al commercio europeo e a cedere all'Inghilterra Hong Kong. Alla pur vinta resistenza cinese verso l'Occidente e a quella della Thailandia, rimasta con l'antico regno dei Thai pressoché esente da intromissioni straniere, fece da significativo contrappunto il Giappone che in virtù della pressione economica europea smantellò in pochi decenni la sua tradizionale struttura oligarchico-feudale. Protagonisti ne furono le nuove classi mercantili, la cui rivolta ebbe come effetto la restaurazione dell'indebolito potere imperiale che, sostenuto dalla rinascita dello shintoismo, condusse alla riforma agraria (1872), all'industrializzazione e all'introduzione sul finire del secolo di un sistema parlamentare limitato però dall'assenza di diritti politici per la stragrande maggioranza della popolazione. Proprio questa modernizzazione provocò un espansionismo nipponico nocivo soprattutto per i Cinesi, cui il Giappone strappò l'isola di Formosa (1894-95), ma pericoloso anche per le potenze coloniali, inutilmente impegnate a tamponarlo. Con la successiva guerra contro la Russia (1904-05), i Giapponesi toglievano infatti allo zar la penisola del Kwantung e la parte meridionale dell'isola di Sahalin, inglobando inoltre nella loro orbita la Corea, formalmente annessa nel 1910. Mentre il Giappone vedeva in queste vittorie il segno di una potenza che avrebbe potuto sostituire l'Europa nel dominio dell'Asia orientale, la Cina veniva di fatto spartita in zone d'influenza russe, francesi, inglesi e tedesche (cui ben presto si aggiunsero gli Statunitensi). Il Paese reagì con un nazionalismo dai tratti xenofobi e tradizionalisti (tale fu nel 1900 la rivolta dei Boxers, subito repressa dall'intervento militare occidentale) non efficacemente contrastato dall'autorità imperiale, già in decadenza e colpita poi mortalmente dalla nascita di un'opposizione antidinastica guidata dal partito rivoluzionario del Kuomintang di Sun Yat-sen, il quale, grazie a una vittoriosa ribellione, riusciva nel 1912 a proclamare la Repubblica, in vita fino al 1916, quando la Cina sprofondava nella guerra civile.

Storia: la fine del colonialismo e le guerre del Sud-Est asiatico

I sommovimenti cinesi rappresentarono uno dei sintomi del grande risveglio dei movimenti nazionali asiatici che avviarono il tramonto del colonialismo e, dopo decenni di battaglie, ridisegnarono gli assetti geopolitici del continente all'indomani del secondo conflitto mondiale, allorché interagirono con eventi decisivi per i destini dell'Asia: la sconfitta nipponica, l'avvento del comunismo in Cina e il profilarsi del confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Le vittorie del Giappone nel corso della guerra avevano infatti allentato in molte regioni la presa dei vecchi colonialismi e, malgrado la disfatta dell'Impero giapponese, dopo il 1945 fu difficile restaurarli. Una dopo l'altra le antiche colonie conquistarono l'indipendenza, a cominciare dall'India (1947) da tempo in lotta contro gli Inglesi sotto l'illuminata guida dell'apostolo della non-violenza, Gandhi. A causa dell'antica divisione religiosa tra musulmani e induisti, però, il Paese fu diviso in due, l'India vera e propria, costituitasi in Repubblica federale (1949), e il Pakistan, a sua volta scisso in due province distinte, orientale e occidentale, distanti 1800 km l'una dall'altra e tra le quali s'incuneava il territorio indiano. Si crearono così le premesse di un duplice contrasto: anzitutto tra i due Pakistan, con il risultato che nel 1971 quello orientale, dopo una guerra appoggiata dall'India, si costituiva in autonoma Repubblica del Bangladesh, mentre quello occidentale subiva un'involuzione antidemocratica; e in secondo luogo tra India e Pakistan occidentale, più volte in guerra per il possesso del Kashmir, regione spartita tra i due Paesi. A quella indiana si aggiunse nel secondo dopoguerra l'indipendenza di altre colonie britanniche, guadagnata non senza aspri movimenti di guerriglia, come in Birmania (1948) e Malesia (1957), nonché quella dell'Indonesia olandese, raggiunta definitivamente a metà degli anni Cinquanta dopo aver ottenuto una larga autonomia dalla medrepatria e in seguito alla lotta per l'unificazione dell'arcipelago condotta dal leader nazionalista Akmed Sukarno. In Cina fu invece l'influenza della rivoluzione russa a far sì che l'ideologia marxista divenisse una leva di rivendicazione di autonomia nazionale. Ma la presenza del Partito comunista provocò nel 1927 una drammatica rottura con il movimento nazionalista del Kuomintang, capeggiato ora dal generale Chiang Kai-shek che, controllando gran parte del territorio del Paese, formò un governo insediato a Nanchino (1928), in continua lotta contro i “signori della guerra” (ossia i capi degli eserciti privati organizzati autonomamente) e soprattutto contro i comunisti. La guerra civile avvantaggiò le mire egemoniche del Giappone, impadronitosi della Manciuria, e benché la conseguente guerra sino-giapponese iniziata nel 1937 e poi la seconda guerra mondiale riavvicinassero le due parti, nel 1946 la lotta riprese fino alla vittoria dei comunisti che, guidati da Mao Tse-tung, proclamarono nel 1949 la Repubblica popolare. I nazionalisti si rifugiarono a Formosa (o Taiwan, nel frattempo restituita alla Cina dai Giapponesi), instaurando un regime autoritario destinato a far da baluardo contro quello comunista cinese, che nei decenni successivi e fino a oggi non ha cessato di rivendicare la sovranità dell'isola. A Taiwan, tuttavia, i rifugiati furono anche in grado di gettare le fondamenta di un Paese prospero e ben organizzato, per quanto fiaccato dai contrasti tra l'esigua popolazione indigena d'origine malese-polinesiana, la maggioranza taiwanese e i profughi nazionalisti cinesi. L'avvento del comunismo in Cina assolse inizialmente una funzione di modernizzazione antifeudale, d'industrializzazione e di unificazione dell'immenso Paese. Ma sul piano internazionale il rinsaldarsi dei legami con l'URSS spinse l'altra grande potenza uscita vincitrice dal conflitto mondiale, gli Stati Uniti, a una strategia di attivo contenimento in tutta l'Asia del nuovo blocco sino-sovietico. Ad alimentare questa scelta contribuì anche la cruenta espulsione della Francia dall'Indocina. Qui infatti nel corso della guerra il dominio francese era stato scalzato dall'occupazione giapponese, contro cui mossero le organizzazioni nazionaliste guidate dal movimento indipendentista del Vietminh, diretto dal leadercomunista Hô Chi-Minh, allora sostenuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Al momento della sconfitta nipponica, amalgamando sapientemente nazionalismo e marxismo, Hô Ch-Minh s'impadronì del potere ad Hanoi fondando la Repubblica Democratica del Vietnam (1945), mentre anche Cambogia e Laos si proclamavano indipendenti. I Francesi, volendo restaurare la propria autorità, accettarono l'autonomia dei nuovi Stati inquadrandoli in una federazione indocinese, ma non la loro indipendenza, che fu raggiunta solo nel 1954 dopo un estenuante conflitto con la Repubblica vietnamita, che ne uscì divisa in due parti all'altezza del 17° parallelo: il Vietnam del Nord, comunista, e quello del Sud, filoccidentale. L'avanzata del comunismo nel Sud-Est asiatico accrebbe i timori degli Stati Uniti, preoccupati anche per il regime semidittatoriale instaurato in Indonesia da Sukarno, che sembrò inclinare verso i comunisti finché non fu rovesciato da un colpo di stato militare del generale Suharto (1965). Per fronteggiare queste minacce, gli USA inserirono a pieno titolo lo sconfitto Impero nipponico nel sistema delle alleanza antisovietiche e cercarono di propagare in Asia il modello economico-sociale di stampo occidentale già introdotto in Giappone, liberale in politica e liberista in economia, contrapponendolo sia a quello comunista cinese, a economia pianificata e dispotico, sia ai tentativi portati avanti soprattutto dall'India di conciliare la democrazia con il dirigismo statale nell'economia. Selezionando in base a un criterio politico gli aiuti finanziari e gli investimenti promossi dal dopoguerra in molti Paesi arretrati del continente, gli USA finirono però sovente per suscitare ulteriori reazioni antioccidentali, senza contare il risentimento psicologico provocato contro di loro dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki. Di qui il diffuso ricorso in Asia agli antichi valori del buddhismo e dell'induismo come contenitori di un'identità autonoma dall'Occidente e la scelta di non pochi Stati del continente, prima fra tutti l'India, di schierarsi su posizioni di neutralismo e non allineamento nello scontro russo-statunitense che intanto aveva cominciato a produrre i suoi deleteri effetti anche in Estremo Oriente e nel Sud-Est. Anzitutto in Corea che, guadagnata alla fine della guerra l'indipendenza dal Giappone e invasa a nord dai Sovietici e a sud dagli Statunitensi, si divise in due Stati presto entrati in guerra (1950-53) con il sostegno dalle rispettive superpotenze. Poi in Indocina, lacerata tra il 1964 e il 1976 dallo sfibrante conflitto tra Vietnam del Nord, spalleggiato da Russia e Cina, a quello del Sud, dove la guerriglia comunista dei vietcong provocò l'inutile intervento degli USA, incapaci d'impedire alla fine la riunificazione dei due Stati nella Repubblica Socialista del Viet Nam (1976). La guerra vietnamita si estese rovinosamente anche al Laos, dove ebbe alla fine il sopravvento un regime comunista filovietnamita, e alla Cambogia, martoriata dal feroce regime filocinese dei khmer rossi che, guidati da Pol Pot (al potere dal 1975 al 1979), si resero responsabili del genocidio di almeno un milione di persone e furono rovesciati solo dall'arrivo dell'esercito vietnamita.

Storia: i mutati assetti geopolitici

Attraversato dalle profonde linee di frattura provocate dalle tensioni internazionali, afflitto da drammatici problemi di sovrappopolazione, deficienza alimentare e povertà, sottoposto alle trazioni centrifughe create dai tanti conflitti interni, il continente asiatico alla svolta degli anni Settanta del Novecento mostrava sempre più il suo carattere di composito mosaico di popoli, culture, religioni, economie diverse e concorrenti tra loro, non ricomposte né dal colonialismo né dalle raggiunte indipendenze nazionali né infine dalle esperienze comuniste, quasi sempre ricadute nell'antica tradizione del dispotismo asiatico. Questo frastagliato scenario, nel quale sei colossi demografici (Cina, India, Indonesia, Pakistan, Bangladesh e Giappone) concentravano ormai metà della popolazione mondiale, si rivelò pertanto fertile terreno di coltura dei particolarismi politici, nazionalistici, etnici e religiosi. Così alle vecchie e nuove contese di confine (indo-pakistane per il Kashmir, russo-cinesi sulla frontiera siberiana, ancora indo-cinesi dopo l'annessione del Tibet alla Cina nel 1950), alle interminabili controversie per la sovranità delle miriadi di isole del Pacifico (tra Russi, Giapponesi, Cinesi, Filippini, Vietnamiti, Malesiani), alle rinnovate lotte per le egemonie regionali (dell'Indonesia con la Malesia sul Borneo, del Vietnam con la Cina e la Cambogia sulla penisola indocinese), si vennero sovrapponendo innumerevoli e violenti conflitti interetnici, che dalla Malesia e dall'Indonesia passando per l'India, il Blangladesh e lo Srī Lanka giungevano fino all'Asia occidentale, punteggiata dalle lotte separatiste delle minoranze armene e del popolo curdo, smembrato fra Turchia, Iraq e Siria. La dissoluzione dell'URSS (1991) e la fine del bipolarismo hanno reso oltretutto questo tipo di contrasti ancor più acuti ed estesi, travolgendo anche l'Asia caucasica e transcaucasica, dove sono nate realtà statali autonome dalla Russia sovietica e sono esplose le rivendicazioni indipendentistiche della Cecenia, del Dagestan, dell'Ossezia del Sud, dell'Abhasia, dell'Adžaristan, del Samcke-Džavakej, del Nagorno-Karabah (regione dell'Azerbaigian abitata in prevalenza da armeni che chiedono l'annessione alla loro patria). Assai frequentemente questi conflitti si sono intrecciati con l'espansione dei movimenti fondamentalisti islamici, in particolare in Pakistan, in Kirghizistan, in Uzbekistan, in Tagikistan (sconvolto dal 1992 dalla guerra civile) e soprattutto in Afghanistan: caso emblematico della dilagante avanzata politica dell'islamismo che, in forme più o meno moderate, ha investito gran parte dell'Asia centro-meridionale fino al Sud-Est, causando gravi scontri religiosi in Malesia, nelle Filippine e soprattutto in Indonesia, dove, prima e dopo la violenta estromissione dal potere del corrotto dittatore Suharto (1998), la lotta tra cristiani e musulmani ha condotto il Paese sull'orlo della disgregazione, infiammando gli impeti secessionisti presenti da tempo nel Kalimantan, nelle Molucche, nella provincia di Irian Jaya e nelle isole di Aceh, Ambon e Timor Est (che nel 1999 si separava dallo Stato indonesiano). Fenomeni che appaiono non solo come conseguenti al crollo del sistema sovietico e alla fine del bipolarismo delle superpotenze, ma anche indotti dai processi di globalizzazione economica che, per altri versi, hanno consentito l'avvio di inedite relazioni politiche tra mondo occidentale e Paesi asiatici, parallelamente alla definitiva affermazione del modello capitalistico non solo in India, ma anche in realtà comuniste come il Viet Nam. La stessa Cina ha per suo conto superato il comunismo sul piano economico (soprattutto con il ritorno alla sua sovranità di Hong Kong nel 1997 e di Macao nel 1999), aprendo le sue enormi potenzialità produttive e il suo vastissimo mercato ai rapporti con gli Stati Uniti e l'Europa, seppur nulla concedendo alla democrazia, come ha dimostrato la brutale repressione attuata dal governo in risposta alle crescenti richieste popolari di liberalizzazione politica. Se non il regime politico, a trarre vantaggio dalla globalizzazione è stata l'economia cinese, come è accaduto anche a Taiwan, alla Corea del Sud, alla Thailandia, a Singapore e alla Malesia. In altro senso però, facendo naufragare il passato miraggio di una via asiatica culturalmente e politicamente autonoma dal comunismo e dal capitalismo, l'integrazione economica mondiale ha contribuito a distruggere in molti Stati del continente sistemi di valori locali di solida tradizione, ha suscitato forti squilibri sociali (come in Corea del Sud, scossa da violente agitazioni esplose nel 1997 di fronte al tentativo di annullare le garanzie sindacali) ed ha approfondito lo squilibrio tra le regioni ricche e quelle rimaste povere, come la Cambogia, la Corea del Nord, il Tibet e numerosi Stati indiani. Diverso il caso del Giappone che dopo decenni di prosperità ha vissuto negli anni Novanta una grave stagnazione economica associata a un'instabilità politica e a una crisi sociale da cui sono usciti pesantemente delegittimati sia i ceti dirigenti sia l'apparato politico-amministrativo. Colpita da una breve quanto intensa crisi economico-finanziaria nel 1997-98, l'Asia ha inoltre dovuto subire un conseguente rallentamento di quei processi d'integrazione economica e di collaborazione politica regionale faticosamente avviati nel ventennio precedente soprattutto nel Sud-Est con la creazione dell'ASEAN e della SAARC e più recentemente nell'area dell'Asia Centrale, dove Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan hanno costituito l'Unione centro-asiatica (1994), mentre altri Paesi ex sovietici, Azerbaigian, Georgia e Uzbekistan, si sono associati (con Ucraina e Moldavia) per controbilanciare il peso della Russia postsovietica. Dal punto di vista degli equilibri politici continentali si è assistito comunque a un allentamento delle tensioni in Cambogia, dopo il ritiro dell'esercito vietnamita (1989) e la fine della guerriglia dei khmer rossi (1997), e in Laos,dove dal 1986 s'introduceva una cauta liberalizzazione economica pur rimanendoincontrastato il monopolio del Partito comunista. L'impetuosa crescita economica cinese si è però tradotta in un palese irredentismo nazionalistico verso Taiwan e gli arcipelaghi del Mar della Cina,rinnovando così, sia pure nel complessivo clima di distensione sino-americana, il contrasto con l'alleanza nippo-statunitense, ribadita nel 1996 con l'evidente intenzione di proporla come asse strategico per il controllo dell'intera area estremo e sud-orientale asiatica. Ciò ha accentuato anche la tensione del Giappone con la Corea del Nord, dove l'avvento di Kim-Jong-Il dopo la morte del padre Kim-Il-Sung (1994), dal giorno dell'indipendenza ininterrottamente a capo del regime comunista, non attenuava il riarmo del Paese, solo alle soglie del 2000 mitigato dai contatti diplomatici avviati con il governo sudcoreano in vista dell'eventuale riunificazione del Paese. Un quadro insomma ancora contraddittorio, che spesso ostacola i già difficili processi di democratizzazione interna, da cui sono esenti non solo gli Stati comunisti, ma anche il Myanmar (tra alti e bassi sottoposta a dittatura dal 1962) e il Pakistan (dal 1999 in mano ai militari). Altrove la democrazia va affermandosi a fatica, come in Malesia, a Singapore, in Corea del Sud, a Taiwan (anche se questi due ultimi Paesi hanno conosciuto le loro prime alternanze di governo con le rispettive elezioni alla presidenza di Kim Dae-Jung (1997) e di Chen Shui-bian (2000), e nei Paesi dell'Asia centrale già sovietica, resi instabili anche dai tanti interessi internazionali che si concentrano sul petrolio del Mar Caspio; oppure incontra nuove difficoltà, come nelle Filippine (dove le elezioni del 2001 si sono svolte in un clima di violenza e di intimidazione), o in India, soggiogata da vacillanti coalizioni di governo, dall'arrivo al potere dei nazionalisti indù e soprattutto dalle persistenti spinte centrifughe regionalistiche.

Religioni

Si può dire che l'Asia sia il continente più altamente spirituale , in quanto le più grandi religioni, come dottrine di salvezza o come insiemi di regole morali e giuridiche, sono tutte provenienti dall'Asia; o per lo meno dall'Asia provengono quelle che per il loro carattere ecumenico hanno più contribuito a plasmare gran parte dell'umanità: il buddhismo, il cristianesimo, l'islamismo. In questo continente il pensiero filosofico non si è mai dissociato da quello religioso; pur considerando le diversità dei popoli, le naturali caratteristiche di alcuni (propensione speculativo-religiosa degli Indiani, speculativo-pratica dei Cinesi), il fatto religioso permette di cogliere in tutta l'Asia la fisionomia più profonda delle società e degli individui, i quali presentano appunto, sia pure in differenti misure, una disposizione alla filosofia e alla spiritualità che in generale sfugge al nostro modo di pensare. § Procedendo in maniera alquanto schematica si deve dire che è particolarmente importante, per l'Asia, la distinzione tra religioni “fisse”, cioè quelle delle popolazioni che si sono stabilite in regioni dai confini relativamente delimitabili tra il IV e il I millennio a. C., e religioni “mobili”, cioè missionarie: buddhismo, manicheismo, islamismo (oltre al cristianesimo introdotto nell'Asia orientale a partire dai sec. X-XIII), che si sono propagati, in generale, da W verso E. Mentre altrettanto importante è la distinzione tra il fondo religioso “statico” o arcaico e la costituzione di religioni “organizzate” o storiche. Il fondo religioso statico, che è legato soprattutto ai ritmi stagionali e al culto della natura, può essere di tipo agricolo, di tipo pastorale o connesso alla caccia: si ritrova qui la fondamentale separazione di morfologia sociale tra popolazioni contadine (sud e sud-est), popolazioni di pastori (ovest e centro), popolazioni di cacciatori o pescatori (nord e nord-est). Esso si è modificato principalmente per l'introduzione di religioni “missionarie” che spesso hanno dato luogo a particolari sincretismi (per esempio, il lamaismo tibetano), oppure è rimasto relativamente puro (per esempio, lo sciamanismo siberiano, appena tinteggiato di cristianesimo). La costituzione di religioni organizzate, cioè con caste di sacerdoti o un canone di testi sacri, appartiene invece alla storia; per cui tali religioni sono in generale databili, anche se con molta difficoltà, come nel caso dell'Iran e dell'India, poiché una delle peculiarità del continente asiatico è il suo rifiuto della storia (con la sola eccezione della Cina che ha un sistema cronologico estremamente preciso ma, in verità, per l'epoca anteriore al sec. I a. C., ricostruito del tutto arbitrariamente). Da un punto di vista storico, per quanto concerne la fascia meridionale dell'Asia, dalla Mesopotamia all'Iran, dall'India alla Cina, vanno in ogni caso individuati due momenti: il primo, tra il III e il I millennio a. C., riguarda l'imporsi e il consolidarsi di una religione teocratica, basata essenzialmente sul concetto di “regalità” o sulla nozione di “prestigio” (le caste in India, le famiglie nobili in Cina, con i relativi culti degli antenati divinizzati); amministrata da sacerdoti e specialisti dell'ordine religioso, essa si fonda su un rapporto di potere, animata però da un grande sentimento del “sacro”, e si appoggia principalmente sul sacrificio o sul culto pubblico. Il secondo momento, tra il sec. VII e il III a. C., che ha contribuito in modo decisivo a formare l'Asia religiosa così come si presenta ancora ai nostri giorni, consiste nel sorgere di una religione del contadino, del mercante – oggi si direbbe del popolo – al di fuori delle caste e della nobiltà feudali e determinata da istanze morali (i profeti in Israele, Zarathustra in Iran, il giainismo e il buddhismo in India, il taoismo in Cina). Essa ha dato luogo a movimenti vasti e complessi, sia politici sia strettamente religiosi, che cercavano nella mistica e nell'ascetismo una fuga dai sistemi troppo rigidi imposti dall'alto e ha prodotto, accanto a una “sofistica” che è alla base della più profonda saggezza orientale, una delle più turbanti rivoluzioni dell'umanità (basti pensare alle rivelazioni dei profeti nella Bibbia, ai canti di Zarathustra, alle Upaniṣad e alla Bhāgavadgītā in India, a Lao-tse e a Chuang-tzu in Cina). § Con queste poche coordinate, si considerano ora le singole religioni, incominciando da quelle definite come “fisse”: mesopotamiche, iraniche, indiane, cinesi, nordsiberiane. Il primo gruppo di religioni, secondo una prospettiva storica, è quello dei popoli della regione del Tigri e dell'Eufrate – brulicante di agglomerati semitici e indeuropei – e dei loro vicini dell'Asia occidentale, Ittiti, Urriti, Siriaci, Fenici. Ricordando che le dottrine religiose, giuridiche e morali di questi popoli vengono come sublimate dalla religione ebraica, che dipende strettamente da questo immenso contesto, si deve dire che tale gruppo di religioni ha fornito gran parte delle nozioni religiose di tipo astrologico e di tipo divinatorio a tutto il mondo mediterraneo. Le religioni mesopotamiche sono rappresentate da complesse cosmogonie, che prendono le mosse (molto più delle religioni indiane o cinesi) dall'osservazione dei pianeti e introducono un'importante distinzione tra il cielo, la terra, le acque, gli inferi e gli dei che dominano tali settori del cosmo: a Babilonia An (o Anum, Anu), dio del cielo; Enlil (o Ellil), dio della terra; Enki (o Ea), dio delle acque che è anche dio della magia e ha come sposa Ninki, “la signora della terra”; Nergal, dio degli inferi. A queste entità si aggiungono le divinità astrali: Sin, dio della Luna; Šamaš, dio del Sole; Innin o Ištar, dea del pianeta Venere; mentre un culto particolare viene rivolto alla costellazione delle Pleiadi. A queste divinità planetarie si aggiungono Iškur, dio del fulmine, Ninurta, dio dell'uragano, e altri dei dalle funzioni meno individualizzate: della caccia, della pesca, del fuoco, della fertilità, del mangiare e del bere. Grandissima importanza inoltre veniva assunta da quelli che sono stati chiamati “gli dei nazionali”: Marduk e suo figlio Nabû per Babilonia, Assur per l'Assiria, ecc. Le religioni ittita e urrita non offrono che delle varianti di cosmogonie indeuropee, quali si ritrovano presso i popoli iranico e indiano; mentre le religioni fenicia e soprattutto siriaca, per quanto concerne il culto delle pietre e per il ruolo attribuito ai pellegrinaggi in luoghi considerati come comunicanti con il cielo, anticipano e nel contempo forniscono le coordinate fondamentali di quella religione dei nomadi arabi che, a opera di Maometto, diventa con il Corano una delle più importanti religioni rivelate del mondo. § Se le religioni iraniche non presentano la complessità delle religioni mesopotamiche riguardo al numero di dei, di culti e di pratiche, esse propongono tuttavia una complessa “stratigrafia” religiosa, dominata dalla grande importanza che vi assumono “le immagini della regalità” e resa ancor più difficile per il fatto di avere adottato, a partire dal sec. VII d. C., la religione islamica (in una forma scismatica). Nell'universo religioso iranico è possibile scorgere la sovrapposizione della più antica religione indeuropea – come si può ricostruire attraverso l'Avestā, con i suoi rituali del sacrificio e le sue pratiche di purificazione – con una religione di tipo profetico e salvifico. Vari sono infatti i personaggi o le entità avestiche che prefigurano le immagini del “salvatore” (come possiamo concepirlo nel cristianesimo): basti indicare il Saošiant o “uomo primordiale”, una sorta di Adamo celeste che è anche il salvatore dell'umanità futura. Il fondamento della religione iranica è riconducibile a un'angelologia, cioè a un culto delle forme angeliche, e si presenta come un'irriconciliabile dualità tra la luce (o la parvenza angelica dell'uomo) e la tenebra (o la parvenza materica e demoniaca dell'uomo). Di qui quel dualismo rigoroso che anima tutto il mondo iranico e che, al di là di tante eresie – la più rilevante è stata il manicheismo fondato da Mani nel sec. III d. C. –, si è congiunto alla religione profetica per eccellenza, cioè all'Islam, dando luogo a una particolare religione profetologica: lo sciismo. Basato su un ciclo della profezia (rappresentato dal messaggio dei profeti tradizionali fino a Maometto) e su un ciclo della rivelazione connesso con il ruolo di una serie di entità, gli imām, apparsi sulla Terra undici volte, mentre il dodicesimo e ultimo è entrato in un ciclo di occultazione, lo sciismo implica una doppia dimensione della rivelazione: una oggettiva e tangibile (i profeti), l'altra occulta e trascendente (gli imām). Questa religione della luce e delle forme angeliche, ma soprattutto del velo e del Paradiso (non si dimentichi che la parola è iranica e vuol dire “giardino”), è religione ufficiale nella Repubblica islamica dell'Iran, ove domina la stessa vita politica del Paese. § Con le religioni indiane si tocca una delle punte più alte di religiosità: l'India infatti resta ancora oggi un universo in cui tutto si colloca, dalla questione delle caste fino ai semplici rapporti tra individui, su un piano “religioso”. Va precisato che nella penisola indiana sono sempre sussistite più forme di religione – nell'interno e a Ceylon intere popolazioni sono rimaste con una religione puramente tribale – e che, alla base, si trovano almeno due componenti: quella indoariana (la religione dei Veda) e quella indigena (culti a divinità femminili, venerazione degli idoli, ecc.). Esse hanno contribuito, negativamente la prima, positivamente la seconda, al formarsi delle due grandi “eresie” indiane, il giainismo e il buddhismo (sec. VI a. C.) e hanno dato luogo, tra il sec. V e il IV a. C., al lento formarsi dell'induismo, tuttora la religione principale dell'India (anche se non vanno sottovalutate quelle che, impropriamente, si chiamano sette: sikhismo, ecc.). La forma più antica di religione “organizzata” in India è quella introdotta dagli ariani nel II millennio a. C. Religione dei testi rivelati (i Veda – lett., “i saperi” – sono quattro: Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda, Atharvaveda, a cui si aggiungono i Brāhmaṇa e le Upaniṣad), essa si fonda sulle formule sacrificali e solo in un secondo tempo sulla distinzione delle caste. Basata sul concetto di “ordine” (rṭá) – nozione cardinale dell'universo giuridico, religioso e morale degli Indeuropei – e sulla preminenza attribuita al sacrificio agli dei (yajña), quale cemento costitutivo della società degli uomini, la religione vedica è una delle più complesse dell'umanità e ha influenzato tutte le eresie e le filosofie pratiche (lett., darśana, cioè punti di vista) sorte in India a partire dal sec. VI a. C. È in questo secolo infatti che nascono in India il giainismo, che continua ad avere aderenti nella penisola indiana, e soprattutto il buddhismo, entrambi per impulso della casta guerriera che, attribuendo nuovi valori e significati alla nozione vedica di “rinuncia”, intendeva sfuggire alla morsa di una religione completamente “formalizzata”, tendente ad asservire principi e popolo a un potere esercitato esclusivamente dai sacerdoti. Ed è sempre nel sec. VI a. C. che incomincia a prendere forma l'induismo, risultato di una fusione di molteplici elementi religiosi, provenienti in gran parte dalle epopee (dal Mahābhārata, in cui si trova il testo per eccellenza dell'induismo, la Bhāgavadgītā, e dal Rāmāyana) e che si depositano nei Purāṇa (lett., “antichi racconti”, di cui se ne contano 18, che sono vere e proprie enciclopedie di scienze religiose). L'induismo, che si distingue dalla religione vedica soprattutto per il ruolo attribuito ad alcune divinità – a Brahmā, Śiva, Viṣṇu, cui si aggiungono Kṛṣṇa, Rāma, ecc. –, integra in una costruzione “teistica” un insieme di saperi pratici, di tecniche di comportamento, aventi come scopo “la salvezza dell'anima”, la sua liberazione (moksha, la parola è uguale per i buddhisti e per gli induisti). Esso è una religione basata sulla devozione (bhakti), sulla fiducia nella buona azione, sull'abbandono alla divinità; è una religione della gioia, che porta inevitabilmente a forme di pietismo, ma che accresce nell'individuo la volontà di comportarsi pacificamente (di qui il vegetarianesimo, ecc.). § Le religioni cinesi vanno considerate in connessione con quelle dell'Asia centro-settentrionali e dell'estremo Nord-Est con cui hanno evidenti affinità, almeno nella loro forma primitiva, prima che si costituisse e si sviluppasse (nei sec. VI-V a. C.) il confucianesimo, cioè la “religione di Stato” del popolo cinese. In Cina però, da sempre, più che di religioni bisognerebbe parlare di una particolare religiosità, poiché le istanze più profonde dell'animo cinese – oggi come ai primordi, agricolo e collettivo – sono legate all'idea di gruppo sociale (famiglia, villaggio, ecc.) e al ruolo della “festa”, insieme religiosa e civile, che consolida la vita in comune e favorisce legami sempre più “unitari”. Difatti il fondamento religioso dei Cinesi, quale si manifesta nelle raccolte di testi tradizionali, antologizzati da Confucio o dai suoi primi seguaci (Shih-ching o “libro delle odi”; Shu-ching o “libro dei documenti”; I ching o “libro dei mutamenti”, ecc.), è innanzitutto sociale e dà luogo più che a una religione a una “ragion di Stato” che attribuisce un'importanza determinante al “comportamento” civile, quindi alle norme o regole (li) che lo sanciscono. Per cui accanto al confucianesimo, che ha costituito l'ossatura civile e religiosa della Cina fino ai nostri giorni, si è avuto (oltre a diversi altri movimenti, tutti molto ricchi di stimoli religiosi), quasi per reazione, il taoismo (sec. V-III a. C.). Concepito su basi mistiche, per sfuggire almeno nelle intenzioni le troppo rigide costrizioni della vita civile sostenute dal confucianesimo, il taoismo ha predicato l'immediatezza e l'integrazione della parte più profonda dell'uomo alla natura, presa come modello di “ordine precostituito”, quindi superiore a tutte le regole o leggi degli uomini. Per cui si potrebbe dire che in Cina si assiste – sia sul piano religioso sia sul piano sociale – a un costante abbinamento delle nozioni di “natura” e di “cultura”. La prima, sostenuta dai taoisti (e in seguito da tante sette religiose); la seconda dai confuciani (e adottata a partire dall'impero degli Han da ogni forma di governo): entrambe però fondibili in un'unica nozione, quella di “universalismo”. Su questo fondo si sono adattate varie religioni, il neotaoismo (sec. II-III, nato piuttosto come movimento politico), il buddhismo (entrato in Cina nei primi secoli dopo Cristo), e varie forme di pensiero (anche di tipo occidentale: marxismo, ecc.). § L'ultimo gruppo di religioni è quello delle popolazioni di lingua uralica, paleosiberiana, ecc., che occupano l'Asia settentrionale. Queste società, ridotte ormai a poche centinaia di migliaia di individui, costrette a una vita condizionata in modo spesso drammatico dal problema del nutrimento e della sopravvivenza, hanno posseduto ricche e complesse cosmogonie, in parte spiegabili con la ripartizione stagionale – estiva e invernale – implicata dai ritmi della caccia o della pesca (come del resto presso gli Eschimesi). Le funzioni religiose, rigorosamente collettive, avvenivano durante la stagione invernale, mentre il fondo religioso consisteva in un fenomeno – tuttora esistente – chiamato nella storia delle religioni sciamanesimo (la parola, di origine tungusa, è stata usata a partire dal sec. XVIII). Queste popolazioni, da un punto di vista religioso, si reggono infatti sui poteri di un personaggio “eccentrico” rispetto alla comunità, lo sciamano, sorta di intermediario tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti, al quale competono le predizioni, la recitazione dei miti e soprattutto il ruolo di guaritore. Si tratta in effetti di religioni ricchissime di spiriti, ritenuti responsabili della pesca e della caccia, colpevoli delle malattie e della morte e che a volte hanno un compito benefico, aiutando lo sciamano, come “spiriti ausiliari”, nei suoi doveri di scovatore ed eliminatore dei mali. Queste religioni possiedono grandi mitologie (analoghe a quelle dell'America Settentrionale) che rispecchiano probabilmente l'originario sostrato religioso di tutta l'Asia centrale. § Le religioni “mobili” che più hanno contribuito a far cadere le barriere esistenti fra razze e popoli nel continente asiatico sono, per ordine crescente di importanza: il manicheismo, l'islamismo, il buddhismo e il cristianesimo. La religione manichea, fondata da Mani nel sec. III in Iran, è stata concepita fin dagli inizi come “universalistica” e ha conosciuto un grande successo lungo la “via della seta”, tra l'Iran e la Cina (dove ebbe molti aderenti). Diventata religione di Stato dell'impero turco degli Uiguri (nel sec. VIII), è stata perseguitata ovunque e i suoi seguaci costretti al silenzio (come del resto in Occidente). Essa si basava su un dualismo estremo – prettamente iranico – tra bene e male, luce e tenebra, e forniva ai fedeli un insieme di dottrine logico-religiose che ben si adattavano sia al problema della salvazione sia al problema di una necessaria spiegazione eziologica del mondo. Essa disponeva di un ricco insieme di testi religiosi (compreso un Vangelo e grandi raccolte di inni), che ci sono noti per frammenti. La religione islamica ha avuto un'immensa espansione nel continente asiatico arrivando, tra il sec. VII e il XIII, attraverso l'Iran, in India e quindi in Indonesia. Varie nazioni asiatiche sono tuttora musulmane: il Pakistan (in cui risiede però un'importante comunità parsi, cioè di seguaci degli antichi culti avestici), l'Afghanistan, la Malaysia e buona parte delle isole indonesiane. È in queste regioni che si è avuto, da un punto di vista strettamente religioso, uno dei più curiosi sincretismi asiatici, poiché l'islamismo non è riuscito a sopraffare l'elemento magico-religioso proprio delle società malesi, che persiste accanto alla religione di Stato combinato con altre forme religiose, soprattutto cinesi e buddhiste. § La religione buddhista infine è quella che più di ogni altra ha contribuito e contribuisce a dare una fisionomia unitaria al continente asiatico. Portata fuori dai confini indiani soprattutto a opera dell'imperatore Aśoka (sec. III a. C.), tre secoli dopo la nascita del Buddha, sia nei Paesi a W dell'India (Afghanistan, Iran, Turkestan orientale, dove fu soppiantato dall'islamismo), sia nei Paesi a E, il buddhismo è diventato nel corso dei secoli la religione per eccellenza dell'intero Oriente, mentre non è sopravvissuto proprio in India, dove aveva avuto origine. Oggetto di vari scismi, determinati da numerosi concili avvenuti dopo la morte del Buddha, esso dispone di diversi canoni delle sacre scritture; il più famoso, quello in lingua pāli, comprende molte centinaia di testi. Divisosi nei primi secoli dell'era cristiana in due branche, il Grande Veicolo (Mahāyāna) e il Piccolo Veicolo (Hināyāna), più aderente alla lettera dell'insegnamento del Buddha, è sotto queste due forme, abbastanza diverse, che è penetrato in numerosissimi Paesi. Nella forma del Piccolo Veicolo è sussistito e sussiste tuttora a Ceylon (Srī Lanka), si è introdotto quindi in Birmania, in Cambogia e di qui si è imposto alle altre popolazioni indocinesi. Nella forma del Grande Veicolo si è introdotto in Cina (i primi contatti risalgono ai sec. III-I a. C.), dove si può parlare di un vero e proprio buddhismo cinese a partire dai sec. III-IV d. C., quando sono state conquistate a questa religione grandi masse di popolazione e larghi strati della nobiltà e sono state fondate la scuola della religione pura, la scuola della meditazione (lett., ch'an, quella che diventerà alcuni secoli dopo in Giappone lo zen), la scuola della disciplina. Dalla Cina il buddhismo è penetrato nel Vietnam, in Corea e di qui in Giappone, dove fu adottato ufficialmente dal principe Shōtoku Taishi (m. 621 d. C.). Direttamente dall'India, e sempre nella forma del Grande Veicolo, esso è penetrato nel Tibet dove, nel sec. VII d. C., fu sostenuto dal re Srong-btsan-sgampo, che combatté la religione indigena (il Bon), e dal Tibet passato in Mongolia. § Del cristianesimo in Asia si parla già nel Nuovo Testamento: San Giovanni infatti nomina, nell'Apocalisse, le sette chiese dell'Asia: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea; altre chiese erano già sorte anche a Colossi, Gerapoli, Magnesia, Tralles, Mileto per lo zelo degli apostoli e dei primi loro discepoli. Nei sec. II e III il raggio d'azione del cristianesimo si allargò anche alla Penisola Arabica, all'Armenia e alla Persia: mentre nell'Armenia si ebbe una vasta diffusione, nella Persia si trattò di piccoli gruppi di Ebrei cristiani, di minoranze siriache, di nestoriani; nell'Arabia il cristianesimo si diffuse, oltre che nelle città, anche fra le tribù arabe, specialmente a opera dei monaci (sec. IV). Nel sec. VII troviamo una forte colonia di nestoriani in Cina, dove ebbero modo di affermarsi e di fiorire fino all'845, quando un editto imperiale ne provocò la distruzione. In India le prime notizie di diffusione del cristianesimo risalgono al sec. VIII e si riferiscono a piccole comunità nel meridione. L'avvento dell'islamismo e la separazione della Chiesa orientale da quella occidentale chiusero le vie dell'espansionismo cristiano verso le popolazioni dell'interno asiatico, ma ad aprirle nuovamente furono proprio i Mongoli e, nei varchi da loro lasciati aperti, francescani e domenicani poterono penetrare in Asia e punteggiare il vasto continente di piccoli centri cristiani: nel sec. XIII sorse la sede episcopale a Khanbaliq (Pechino), Zaitun (Chuanchow) e, poco dopo, quelle di Sultanieh in Persia, di Kaffa, di Tana, di Sarai e ancora nel Turkestan e nel Khorāsān. Nel sec. XIV anche l'India, che si trovava sulla via percorsa dai missionari, ebbe un vescovado a Colombo (Ceylon). La diffusione della fede cristiana subì un nuovo arresto con la caduta dei Gengiscanidi (1368) e riprese solo con la scoperta della via delle Indie da parte dei Portoghesi (1497-98). Si aprì allora per il cristianesimo un grande periodo missionario, che investì tutto il continente asiatico e si fregiò dei nomi di San Francesco Saverio, di padre Ricci, di R. de Nobili; sorsero le diocesi di Funchal, di Goa, di Macao, di Manila, di Funan, che attestano la presenza del cristianesimo in Cina, nell'India, nelle Filippine e nel Giappone. Ma l'isolamento scelto da Cina, India e Giappone nel sec. XVIII segnò la fine di queste missioni. La ripresa avvenne solo nel sec. XIX, ma con estrema difficoltà per tutti i contrasti sorti tra l'Asia e gli Stati occidentali; non poté intaccare la massa compatta delle popolazioni induiste, buddhiste e confuciane, ma ottenne discreti risultati fra le minoranze e i ceti più umili (gli intoccabili dell'India) che vi hanno visto spesso uno strumento di elevazione sociale. All'arduo problema di penetrare anche nelle grandi masse asiatiche, le Chiese cristiane hanno cercato di prepararsi con la creazione di un clero indigeno in Cina, Indocina, India, Giappone, Corea, ma si sono trovate spesso di fronte all'ostacolo costituito dal nazionalismo asiatico, il quale da una parte si rifaceva alla tradizione per presentare un'alternativa alla civiltà occidentale, mentre dall'altra introduceva dall'Occidente ideologie politiche e sociali in posizione critica di fronte alla religione cristiana.

Lingue

La situazione linguistica del continente asiatico è particolarmente complessa; infatti non solo si trovano famiglie di lingue del tutto dissimili, data la vastità geografica e l'abbondanza di razze e di popoli, ma bisogna tenere conto dell'enorme ricchezza di varietà all'interno di ognuna di queste famiglie e, se si eccettua l'Asia sudorientale, della grande mobilità di molte di esse che si estendono, soprattutto nella zona settentrionale, dalla costa del Pacifico fino all'Europa (per esempio, l'uralico). Procedendo in modo schematico, così come si è parlato, a proposito della storia di questo continente, di “isole o differenti Asie”, si può parlare di differenti Asie linguistiche e, rinunciando a una distinzione tra lingue antichissime e lingue arcaiche e tra lingue morte e lingue tuttora parlate, si possono dividere le lingue dell'Asia in quattro categorie: lingue indeuropee (collegate a quelle dell'Europa); lingue asianiche (quelle dell'antico mondo anatolico-mesopotamico); lingue eurasiatiche e dell'Asia settentrionale (in rapporto con alcune lingue europee, come l'ungherese, ecc.); lingue dell'Asia orientale e sudorientale (cinese e lingue apparentate). § Le lingue indeuropee più precisamente asiatiche sono l'ittita, lingua dell'Impero ittita (1900-1200 a. C.), interpretata nel sec. XX grazie agli archivi di Boğazkale in Cappadocia (che risalgono al sec. XIX a. C.); il tocarico, denominazione impropria usata per designare un insieme di dialetti parlati nell'Asia centrale, di cui si conservano documenti scritti databili dal sec. VI d. C.; infine l'indoiranico, che si divide in indoiranico e in indoario e che è la lingua di base di tutto il Sud-Ovest dell'Asia. L'indoiranico a sua volta comprende, cronologicamente, l'avestico, lingua in cui è conservato il più antico documento della civiltà iranica, l'Avestā, databile, come scrittura, tra il sec. IX e il VI a. C.; l'antico persiano, noto attraverso le iscrizioni dell'imperatore Dario del 522 a. C.; il pahlavi, parlato a partire dal sec. II a. C.; infine il persiano o fārsi, lingua ufficiale dell'Impero iranico a partire dal sec. VII d. C.; a queste si aggiungono numerosi dialetti come il partico, il parsik o mediopersiano, il pashtō o afghano, ecc. L'indoario, cioè la lingua degli invasori ari che tra il II e il I millennio a. C. occuparono la penisola indiana venendo a contatto con popolazioni indigene, chiamate impropriamente dravidiche, comprende la lingua sanscrita, tra le più importanti del mondo per continuità, quantità di testi e ricchezza di pensiero. Lingua religiosa con i Veda e gli altri scritti della “tradizione” (sec. XIII-VI a. C.) e lingua letteraria a partire dai sec. V-IV a. C., forse non è mai entrata nell'uso come lingua parlata. A essa si sono affiancati i cosiddetti “pracriti” (lett., “lingue naturali” ) e appunto attraverso i pracriti si è venuto formando un vasto insieme di lingue dette “medioindiane”, i cui esempi di scrittura – i primi dell'India – risalgono al sec. III a. C. con le iscrizioni rupestri dell'imperatore buddhista Aśoka. Le lingue medioindiane sono alcune centinaia e si distinguono in gruppi nordoccidentali (hindi, sindhi, ecc.), meridionali (kontani, marāṭhī, dotato di un'importante letteratura), orientali (oriyā, bengālī, assamese, bihārī, ecc.), centrorientale (kosali), centrale (hindi propriamente detto, la lingua più parlata dell'India e quinta nel mondo), a cui si aggiunge il singalese a Ceylon, mentre va segnalato a parte il pāli, la lingua del primo canone delle scritture sacre del buddhismo. § Le lingue asianiche (sumero, elamita, cassita, hattico, urrita, ecc.; le altre lingue, soprattutto semitiche, tra cui l'ebraico, il fenicio e l'arabo, vanno piuttosto considerate nelle loro implicazioni mediterranee) formavano una vasta, complessa scacchiera tra il IV e il I millennio a. C. Esse ci sono note attraverso denominazioni geografiche, non genetiche, poiché non è stato possibile raggrupparle, se non a seconda della scrittura, di tipo sumero-accadico o di tipo greco. Il sumero, certamente la più antica lingua scritta dell'umanità, caratterizzato da una scrittura cuneiforme a partire dal 3500 a. C., disponeva di una ristretta gamma di suoni e si distingueva per un vasto sistema verbale e per l'uso continuato delle elisioni. Delle altre lingue si può dire che l'elamita si caratterizzava per l'assenza di genere grammaticale e per la distinzione tra animato e inanimato, possedendo anch'esso un sistema verbale molto ricco; il cassita, l'hattico e l'urrita avevano temi nominali e temi verbali ben distinti, mentre i verbi proponevano l'opposizione fra transitivo e intransitivo. L'urrita inoltre aveva particolarità lessicali e sintattiche che lo avvicinavano all'ittita. § Le lingue eurasiatiche e dell'Asia settentrionale sono riconducibili a un passato certamente molto arcaico. Esse si distinguono in famiglie uraliche, uralo-altaiche, turche, paleosiberiane a cui si aggiungono il coreano, il giapponese e l'ainu. Le lingue uraliche e uralo-altaiche hanno il loro punto focale intorno al fiume Ob, a E dei monti Urali, e si ritrovano un po' ovunque nelle regioni centro-settentrionali del continente asiatico (e anche in Europa: per esempio, il lappone, ecc.). Esse formano principalmente i gruppi ugriano, samoiedo (studiato più particolarmente in questi ultimi decenni) e altaico (che si riconnette però con le lingue paleosiberiane dell'estremo Nord-Est). Le lingue turche, che comprendono anche le tunguse e le mongole, mancano di una collocazione geografica precisa, per l'oscurità delle origini dei popoli che le parlano a partire dal I millennio a. C. Esse inoltre hanno risentito, pur conservando grandi similitudini, dell'estrema mobilità dei gruppi umani e del proliferare di dialetti, dovuti soprattutto alla sovrapposizione di migrazioni. I documenti scritti o letterari più antichi sono del sec. VIII per il turco, del XIII per il mongolo (la Storia segreta dei Mongoli, che racconta la nascita miracolosa di Gengis Khān ed è uno dei testi più conosciuti dell'Asia centrale, risale secondo la datazione cinese al 1242-45). Tutte queste lingue si basano su una forte armonia vocalica, non hanno generi grammaticali e si distinguono principalmente per la grande quantità di suffissi e la povertà o assenza di prefissi e infissi. Delle lingue tunguse fa parte anche il mancese, la sola lingua di questa famiglia ad avere una letteratura scritta (il cui apogeo è nel sec. XVIII). Va precisato infine che sia le lingue tunguse sia le lingue mongole hanno inevitabilmente risentito di una forte influenza della lingua cinese, che ha fornito loro buona parte dei modelli letterari, senza però modificare il fondo linguistico e la struttura. Le lingue paleosiberiane, cioè quelle dell'estremo Nord-Est dell'Asia e della regione dello Jenisej, oggi praticamente estinte, sono particolarmente importanti da un punto di vista strettamente linguistico per i loro legami con le lingue dell'America Settentrionale; esse sono prive di coordinazione e di subordinazione e fanno un grande uso, come l'eschimese, delle particelle modali (per la scrittura usano un curioso sistema pittografico). Il coreano è in parte riconducibile alle lingue tunguse, in parte derivato (come l'ainu) dalle lingue paleosiberiane; si caratterizza per le numerose categorie di parole invariabili, per i suffissi formativi e per la ricchezza dei verbi di cortesia (come il giapponese). Per la scrittura usa un sistema grafico di venticinque segni molto facili e ha una letteratura a partire dal sec. VII d. C. Il giapponese, lingua di formazione mista dalle origini molto complesse e che risente di influenze tunguse, altaiche, coreane e forse indonesiane, comprende vari dialetti databili a partire dal sec. VII d. C. e diventa una lingua “costruita” nel sec. X, subendo in seguito vari mutamenti (soprattutto nel sec. XVI). Si caratterizza per la distinzione morfologica tra parola nominale, parola di qualità e parola verbale e per la vasta utilizzazione di suffissi formativi: la scrittura giapponese è costituita da un sistema misto, in cui l'ideogramma cinese si combina con due alfabeti sillabici da esso derivati. Tra le lingue eurasiatiche vanno collocate le lingue indiane non indoarie, cioè le lingue dravidiche e anche le lingue austroasiatiche (o nisâda) parlate dalle popolazioni autoctone dell'India. Esse sono numerosissime e formano vari insiemi più o meno connessi tra loro, con la sola eccezione della lingua munda parlata nell'Est dell'India e che appartiene alla famiglia indocinese. Le più importanti sono: il tamil, dotato di una ricca letteratura sia religiosa sia di corte, il malayālam (spesso confuso con il tamil), il canarese o kannada, il telugu (tutte più o meno accostabili alle lingue uralo-altaiche); oltre ai dialetti: il tulu, il kodagu, il toda, il kolami, ecc. § Le lingue dell'Asia sudorientale si dividono in tibeto-birmane, thai, cinese, mon-khmer e munda (quest'ultima parlata esclusivamente in India). Esse si caratterizzano globalmente per la flessione monosillabica e presentano una certa parentela con le lingue paleosiberiane e maleopolinesiane. La lingua dominante è evidentemente il cinese, sia per la scrittura che risale al sec. XVII a. C. (incisioni su bronzi), sia per la grande ricchezza semantica e letteraria. Lingua di civiltà, che ha subito molte riforme (più di scrittura che di morfologia), essa è riuscita a costituire, al di sopra dei molteplici dialetti, una lingua comune, ufficialmente identificata con il pechinese, chiamata una volta mandarino e detta oggi “p'u-t'ung Kuan-hua”; lingua amministrativa e “comunitaria”, essa si sovrappone agli idiomi locali, non togliendo nulla alla lingua letteraria (che gioca un po' il ruolo del latino in Occidente), restando completamente indipendente e ricca di esempi evocatori, di allusioni e di riferimenti al passato. Alle caratteristiche strettamente monosillabiche il cinese abbina il sistema dei toni (i principali sono quattro) mentre la sintassi, estremamente logica e fissa, si basa sulla posizione e sull'aspetto dei singoli morfemi e sul coordinarsi armonico delle frasi tra loro. Le lingue tibeto-birmane comprendono il tibetano, diventato lingua letteraria nel sec. VII d. C. per impulso buddhista e che si è ispirato a modelli sanscriti; il birmano, conosciuto a partire dal sec. XII attraverso le iscrizioni; il lolo, e un gruppo di lingue minori, a tendenza polisillabica, il kachin, il bodo,naga, ecc., oltre a sottogruppi himalayani non facilmente classificabili come il karen. Le lingue thai comprendono un insieme abbastanza vario: siamese, laotiano, thai nero, thai bianco, shan, vietnamita, ecc.; tutte con scrittura di tipo indiano e fortemente apparentate, dal punto di vista sintattico, con il cinese, hanno una letteratura molto ricca, anche se recente. Il vietnamita, databile a partire dal sec. XIV per delle iscrizioni rupestri, presenta inoltre caratteristiche mon-khmer, mentre il lai, parlato nelle montagne del centro dell'Hainan, presenta marcati tratti maleopolinesiani. Le lingue mon-khmer, che si incuneano tra le lingue tibeto-birmane occupando la Cambogia e alcuni isolotti più a nord sul fiume Mekong, comprendono soprattutto il khmer o cambogiano e il mon o talaing, dotati entrambi di scrittura a partire dal sec. VIII (ricchissima l'epigrafia cambogiana).

Letteratura

Le letterature dell'Asia sono così numerose, ricche e complesse, da rendere pressoché vano il semplice tentativo di fornirne un elenco sommario, tanto più che non esiste nessun criterio particolare di classificazione, neppure quello linguistico, e si passa dalle più ricche letterature del mondo (quella sanscrita, quella cinese) a letterature che non hanno mai superato la forma orale. Per di più tali letterature si compongono e si scompongono in una grande varietà di generi, estremamente diversi, appena si abbandonano le suddivisioni generali (poesia, epica, ecc.), spesso inscindibili da elementi folcloristici e quasi sempre connessi con forme, e relativi sentimenti, di tipo religioso. Per cui si potrebbe caratterizzare l'Asia, dal punto di vista letterario, come il continente della “conoscenza e del sapere” più che della “creazione e della letteratura”, dato che, nella maggioranza dei casi, le letterature hanno avuto e hanno tuttora scopi principalmente educativi e didascalici oppure sono essenzialmente religiose. Si è detto che il criterio linguistico non è sufficiente per definire una letteratura in Asia; infatti in questo continente più che a opposizioni di lingue si assiste a sovrapposizioni di generi, che vanno da improvvisazioni secondo schemi tradizionali (Nord-Est dell'Asia: incantesimi del tamburo, ecc.) a elaborazioni letterarie apparentemente molto individuali (poesia cinese, persiana, ecc.), senza che per questo sia possibile parlare di procedimenti fondamentalmente diversi, poiché, anche nel caso di una composizione letteraria individuale, le componenti “evocativa” e “allusiva”, capitali per le letterature dell'Asia, ubbidiscono a schemi altrettanto potenti e imposti dalla tradizione. Inoltre, nonostante la celebre dichiarazione del poeta giapponese Okakura, “L'Asia è una”, i blocchi che compongono l'Asia (semitico, indeuropeo, estremo-orientale, ecc.) proprio combinandosi fra loro forniscono alle letterature asiatiche le più straordinarie caratterizzazioni. Per esempio, lo spirito semitico unito allo spirito ariano dà quel miracolo che è la poesia persiana (peraltro fecondata dai mistici indiani); lo spirito indeuropeo combinato con lo spirito estremo-orientale dà quella sorta di incantesimo che è la favola cinese buddhista (che si ritrova anche in Giappone); il genio nomade dell'Asia centrale congiunto con il genio sedentario cinese dà quel favoloso spettacolo che è il teatro Yüan e così via. Inoltre l'Asia, pur possedendo una letteratura da 15.000 anni e la scrittura da almeno 6000, ha mostrato una particolare noncuranza, che dura ancora oggi, per la scrittura come veicolo letterario, poiché ha sempre preferito conservare alla letteratura un ruolo di “esercizio” più che di “composizione” e usare la scrittura soprattutto per ragioni politiche (antico Oriente, India di Aśoka, Cina degli imperatori Han); oppure – e del resto relativamente tardi – per depositare le scritture sacre (che costituiscono i veri gioielli letterari dell'Asia, proprio per il loro valore altamente religioso). Per cui in Asia esiste, più che in ogni altro continente, una particolare dicotomia tra genere letterario scritto (editti su pietra, ecc.) e genere letterario orale (questo solo degno, di fatto, di essere considerato come pienamente letterario), e una quasi cronica impossibilità a datare, anche all'interno delle più ricche e conosciute letterature, i documenti letterari (così come quelli religiosi). Inoltre, estremamente sinuoso resta il rapporto tra fondo popolare (atemporale) e modello letterario (difficilmente databile), quali si ritrovano soprattutto nel contesto della poesia lirica (o “improvvisazione”) e della poesia epica (o “recitazione”). Stabilita la grande ambiguità fra tradizione orale e tradizione letteraria, tra letteratura improvvisata e letteratura scritta, non bisogna sottovalutare un altro fenomeno, proprio del continente asiatico, cioè quello che ha sempre fatto preferire anche a popoli grandemente “letterati” (come gli Indiani) il sistema mnemonico come più efficace, più vitale e, per quanto concerne la diffusione, più immediato e meglio rispondente alla trasmissione e all'assimilazione dei testi. Detto questo, le letterature asiatiche si possono classificare, sia pure con estrema relatività, in due blocchi: il primo, appartenente al più antico passato, composto da letterature completamente scomparse oppure da letterature che, nate nel II millennio a. C., continuano a sussistere; il secondo che comprende letterature apparse nei primi secoli dopo Cristo e che sono venute costituendo le lingue e letterature nazionali, così come si possono cogliere nell'attuale situazione geografico-politica. La fisionomia generale, nel primo blocco, è fondamentalmente religiosa; nel secondo è caratterizzata dall'impulso esercitato dai popoli più ricchi di tradizione e dal ruolo, talora determinante, svolto dal buddhismo, come catalizzatore di scritture a scopo apologetico ed edificatorio. Nel primo blocco si devono comprendere: la letteratura sumera (precedente al sec. XXV a. C.), l'assiro-babilonese (XXV-VI a. C.), la fenicia (XV-II a. C.), l'ebraica (a partire dal XIII a. C.), l'elamita (tracce nel XIII-XI a. C. e nell'VIII-IV a. C.), l'ittita (XVI-XIII a. C.), la sanscrita (dal XIII a. C.), la cinese (dal XII a. C.), l'iranica (avestica: dal IX al VII a. C.; pahlavi: dal III a. C. al VII d. C.), l'aramaica (VI a. C.-VI d. C.), la mandea (VI a. C.-IX d. C.). Nel secondo blocco si devono comprendere: la letteratura araba (dal sec. V-VI), la manichea (III-IX), la persiana (dal VII), le medioindiane (dal II), le dravidiche (dal I), l'indeuropea dell'Asia centrale (V-X), quella turca dell'Asia centrale (dall'VIII), la tibetana (dall'VIII), la mongola (dal IX), la mancese (dal XIII), la coreana (dal VI), la vietnamita (dal XIII), quella del Laos (dal XIII), la cambogiana (dall'VIII), la siamese (dal XIII), la birmana (dall'XI), la giapponese (dal VI-VII). Soltanto nel sec. XIX si sono avuti i primi esempi di opere letterarie realmente “individualizzate”, poiché lo scrittore, per l'influenza occidentale, ha incominciato ad attribuire più importanza al soggetto narrativo e a personalizzare maggiormente le sue creazioni, abbandonando almeno in parte gli schemi letterari tradizionali. Anche le forme espressive hanno subito una certa occidentalizzazione prediligendo le novelle e i romanzi; sono infatti, ormai, abbastanza numerose le opere narrative di genere occidentale nelle maggiori letterature asiatiche - l'araba, la giapponese, la cinese, l'indonesiana - che vengono tradotte nelle principali lingue occidentali. Talvolta questa letteratura asiatica di stampo occidentale cerca di recuperare i valori e le tematiche della tradizione, ancora viva e sentita da gran parte della popolazione; vi influiscono soprattutto i fattori religiosi, in particolare l'islamismo e il buddhismo. Meno prolifica è invece la produzione letteraria più fedele alle tematiche tradizionali, tant'è vero che in alcuni Paesi si è andata sempre più sviluppando una doppia letteratura, quella più “moderna” e occidentale, destinata allo strato più colto, e quella tradizionale per quella parte di popolazione sì alfabetizzata ma meno permeabile agli influssi occidentali. Modi e temi propri di ciascun popolo persistono nella produzione poetica, che in diversi Paesi asiatici è ancora assai vitale. Non mancano tuttavia, in Asia, poeti anche di spicco che sperimentano, con fortuna, le più moderne strade della poesia occidentale.

Teatro

Strettamente connesso, alle origini, con le nozioni di “festa” e di “rito religioso”, il teatro in Asia ha dato luogo a una vasta gamma di forme di rappresentazione, spesso opposte e in ogni caso non comparabili, oscillanti tra la recitazione dei bardi (Iran, Tibet, Asia centrale, Cina, ecc.), la sacra rappresentazione e la rappresentazione di corte (India, Cina, Giappone, ecc.). Solo l'India si è distinta, storicamente, per un ricco repertorio di testi teatrali letterari, scritti da autori famosi (per esempio Kālidāsa). Gli altri popoli, in generale, hanno coltivato il teatro come la forma per eccellenza della gioia, del divertimento; senza però trascurare la componente didascalica, che ha avuto nel teatro uno dei suoi principali veicoli. Ancora oggi, in bilico tra la festa popolare e la festa religiosa, il teatro sussiste in Asia attraverso forme che a noi sembrano archeologiche (teatro kathakalia Malabar, in India; teatro in Giappone; teatro delle ombre del Kelantan in Malaysia, ecc.), mentre al contrario costituiscono una testimonianza della vitalità estetica e delle molteplici formulazioni stilistiche di questo continente. Il teatro rappresenta infatti uno dei più affascinanti mezzi offerti per penetrare nell'estetica asiatica, poiché musica, danza, canto e recitazione si fondono, e così gli stili, in una formulazione corale che tende essenzialmente a un ruolo pedagogico e a un allentamento della tensione, indispensabile in Paesi in cui vigono rigide regole sociali. Il teatro asiatico, inscindibile dalla danza, cioè dall'arte che in questo continente ha più di ogni altra un'effettiva unità, resta tuttora (con il cinema) il mezzo più attivo per creare (mediante l'azione di personaggi divini o umani, regali o popolari, di carne o di legno: immensa è l'importanza delle marionette soprattutto nell'Est) le condizioni ideali per l'assimilazione della tradizione storica, mitologica, epica, poetica, e in taluni Paesi (Cina) anche dell'insegnamento politico. Inoltre la recitazione, che ubbidisce a schemi e canoni del massimo rigore, non dà mai l'impressione di essere stata imparata, ma piuttosto di essere “improvvisata” ogni volta, spesso in uno stato vicino alla trance o in uno “sdoppiamento” che non ha niente a che vedere con il concetto di catarsi tipico del teatro occidentale. Istruttivo sotto questo profilo è il teatro giapponese, di cui è possibile tracciare la storia a partire dal sec. XIII, che è passato dal (dal sec. XIV) al bunraku (dal sec. XVI), al kabuki(dal sec. XVII), senza che nessuna di queste forme sia stata soppiantata dalla successiva. Nel , uno degli stili più compiuti e rappresentativi del teatro dell'Estremo Oriente, convergono l'esperienza religiosa del buddhismo Zen e il gusto del fuggitivo, dell'istantaneo, proprio della poesia cinese e giapponese. Portato alla perfezione da Zeami Motokiyo (1363-1444; autore di gran parte dei testi del repertorio e di vari trattati di poetica, riscoperti all'inizio del sec. XX e da porre tra i gioielli della letteratura sapienziale giapponese), il , il cui repertorio è rimasto sostanzialmente immutato dal sec. XV, rappresenta, in una scena priva di elementi concreti e suggerita da pochi oggetti simbolici, uno o alcuni personaggi alle prese con un'apparizione, per lo più di un guerriero o di una fanciulla morti tragicamente (impersonata da un attore-danzatore chiamato Shite), che racconta la sua storia, cioè “rappresenta gli atti” che hanno causato la sua fine. Forma di teatro apparentemente religiosa, è invece fondamentalmente estetica, perché tende a produrre nello spettatore uno stato di grazia, una partecipazione, a cui si aggiunge il suggerimento di non aderire a passioni materiali. Con i drammi dobbiamo ricordare i kyōgen, farse popolari che si intercalano tra un e l'altro durante “una giornata di ”, comprendente cinque e quattro kyōgen. Il bunraku è invece un teatro di marionette; noto anche con il nome di jōruri, deve gran parte del suo repertorio a Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), il più grande drammaturgo giapponese, autore di 140 drammi. Le marionette, molto realistiche e di ca. 60 cm di altezza, vengono mosse da persone che compaiono sulla scena incappucciate (solo il responsabile del tronco e della testa della marionetta può avere il viso scoperto), ognuna delle quali muove un arto della marionetta. Le storie preferite sono quelle di ingiustizie guerriere (principi costretti a fuggire a causa di ministri usurpatori, ecc.) oppure di amori tragici. Il kabuki infine, la forma più popolare del teatro giapponese, paragonabile al teatro d'opera occidentale, ha utilizzato il repertorio dello jōruri sostituendo gli attori alle marionette e utilizzando anche procedimenti propri del kyōgen. Esso propone, oltre a storie drammatiche, anche vicende comiche, in parte ispirate dalla morale buddhista, con una netta preferenza per i personaggi del popolo. Tuttavia, l'elemento fondamentale del kabuki è il richiamo a canti e danze delle antiche tradizioni delle feste popolari. Come si vede, sussistono vari generi teatrali, ciascuno con un repertorio fisso (solo il kabuki si è in parte rinnovato a contatto con esempi occidentali): il teatro di apparizioni (il ), quello di marionette (il bunraku), il teatro di personaggi del popolo (il kabuki) propongono forme tradizionali tuttora percepite come attuali, in cui si evidenzia, come in tutto il teatro asiatico, il ruolo non realistico, ma completamente simbolico della rappresentazione. Altrettanto istruttivo, sotto il medesimo profilo, è il teatro cinese, costituitosi ufficialmente nel sec. VIII, ma i cui inizi risalgono alle origini della civiltà cinese. Si può quindi affermare che balletti, pantomime e giochi di destrezza siano stati sempre presenti in Cina (su due piani, quello di corte e quello popolare); per quanto solo nel sec. XIII, in parte per influsso mongolo, queste forme raffinate e insieme popolari diventarono, sotto la dinastia mongola degli Yüan, un vero e proprio genere teatrale, con testi scritti. Si può datare da allora il teatro cinese letterario, che ha mantenuto costantemente, pur con varianti stilistiche e con nuovi apporti spettacolari, un posto di primo piano nel gusto della nobiltà cinese fino alla metà del sec. XIX, quando la rivolta contadina dei T'ai-p'ing, distruggendo i centri feudali del meridione della Cina, ha praticamente contribuito a disperdere le compagnie del teatro classico e ha facilitato il trionfo di un tipo di spettacolo popolare chiamato ching hsi (lett., “spettacolo della capitale”), noto in Occidente come Opera di Pechino. Esso è caratterizzato da un massimo di stilizzazione poiché, mancando le scene, tutto deve essere suggerito dalla mimica degli attori che sono insieme cantanti, danzatori e acrobati. Viene così rappresentato un repertorio vario, carico di suggestioni, di simbolismi e di evocazioni. Nel sec. XX alcuni autori cinesi hanno preferito seguire i modelli occidentali, soprattutto russi. Con la Rivoluzione culturale la condanna della tradizionale Opera di Pechino da parte del gruppo radicale ha dato luogo a soggetti che si ispirano soprattutto alla vita politica del Paese. Dopo l'eliminazione del gruppo radicale, il teatro cinese ha avuto un'ondata di “grandi ritorni”, si è ripreso a rappresentare l'Opera di Pechino, sono stati tradotti e messi in scena capolavori delle letterature straniere, nonché opere ispirate all'attualità politica e ideologica.

Arte

Dal III al II millennio a. C. contemporaneamente allo sviluppo storico delle civiltà fluviali dell'Asia si manifestano, con progressiva definizione, le differenti culture artistiche, retaggio di remote consuetudini figurative, che determinano l'origine dell'arte asiatica nei suoi tre diversi aspetti, occidentale, meridionale e orientale. Non poche approssimazioni culturali congiungono l'arte di queste civiltà con altre manifestazioni espressive. Nucleo focale dell'arte nell'Asia anteriore è la civiltà sumero-accadica della Mesopotamia, all'origine di tutta una correlazione di contatti con l'Asia Minore e il Mediterraneo orientale, nonché, attraverso altri addentellati, con l'Iran delle vallate e con quello delle alture. A sua volta l'Iran si volse d'attorno, anche verso il mondo indiano; e con questo alcuni spiegano certi sincronismi con l'arte mesopotamica attraverso i sigilli della valle dell'Indo e la comune venerazione per i simboli della fecondità, espressi con la raffigurazione della “dea madre”. Diverse appaiono tuttavia, sull'esame dei resti dell'edilizia urbana di Harappā e di Mohenjo-Daro, le strutture sociali tra gli abitanti della Terra dei Cinque Fiumi (Punjab) e quelli della Mesopotamia. Concepite secondo un medesimo piano regolatore, le due maggiori città dell'Indo non sono il risultato emancipato di un piccolo insediamento occasionale sul corso del fiume (come avvenne gradatamente per le contemporanee città della Mesopotamia), ma sono realizzazioni di una grande progettazione urbana. Vi si riscontrano punti di contatto reciproco (nella misura degli impulsi e degli stimoli), ma profonda appare la differenza tra la forma sociale strutturata su un sovrano assoluto (come nella Mesopotamia) e la distribuzione urbana della popolazione delle città di Mohenjo-Daro e di Harappā. Gli scavi condotti in Cina hanno portato alla scoperta del centro di Erlitou, appartenente alla prima dinastia cinese, quella degli Hsia (III-II millennio a. C.), dove sono state rinvenute terrecotte decorate e sculture fittili a forma di animale con marchi che probabilmente sono i primi esempi di scrittura. In questa cultura è già presente il bronzo: attrezzi da lavoro, armi e piccoli vasi rituali, che denotano una tecnica di fusione che aveva già raggiunto una certa fase di sviluppo. Questo ritrovamento, quindi, convalida la tesi che la fusione del bronzo in Cina è una scoperta autoctona e non dovuta a influssi occidentali. L'arte della civiltà cinese Shang (1523-1028 a. C.), la seconda delle dinastie storiche, appare impregnata di simbolismi e di credenze religiose, che trovano ampio rilievo nella decorazione dei bronzi attraverso la raffigurazione terrifica di draghi (k'uei) e di maschere misteriose (t'ao-t'ieh). La figura umana appare solo sporadicamente e con lineamenti ed espressioni di sconcertante drammaticità. Agli inizi degli anni Novanta del sec. XX, sono più di seimila i siti neolitici scavati in Cina (dalla vallata del fiume Hwang He, al Nord, in Mongolia e Manciuria, al Sud, lungo il fiume Yangtze Kiang) e confermano ulteriormente lo sviluppo autoctono di questa civiltà, che è stata caratterizzata fin dalle origini da una produzione artistica strettamente legata a valori magico-simbolico-religiosi. Accanto a queste tre civiltà, mesopotamica, indiana e cinese, deve considerarsi, specie per l'arte, quella delle steppe. Una civiltà complessa, mobilissima, ma senz'altro essenziale quale veicolo di trasmissione e di irradiazione tra le civiltà sedentarie. Nella prospettiva storica le civiltà dei fiumi svolsero, con la creazione delle prime città-Stato, una funzione sperimentale di organismi sociali pilota. L'arte all'inizio è l'espressione di un antico rituale di sudditanza politico-religiosa al capo, al re. Una forma, cioè, complementare all'organizzazione strutturale dello Stato e che si esprime soltanto attraverso raffigurazioni di aulica caratterizzazione per glorificare le imprese di guerra ed esaltare la figura del re-dio-guerriero, che ha il potere di mediazione con la divinità. La città cresce attorno al palazzo regio e al tempio. A infrangere questo involucro, ancor prima delle religioni storiche, interviene in queste civiltà un ricambio interno attraverso stimoli diversi che affinano la coscienza dell'individuo e ne precisano le esigenze. Altre linfe vitali a questo rinnovamento strutturale giungono dall'esterno, attraverso le guerre e le invasioni. Nella Mesopotamia, ad addolcire la fissità ieratica dell'arte sumerica, giungono e s'impongono con le loro convenzioni stilistiche i Semiti. Così più tardi succederà nella valle dell'Indo, con l'invasione degli Indoariani che determinarono nei due millenni che seguirono l'evolversi della vita sociale e spirituale, anche se dalla fusione con gli aborigeni uscì un sistema sempre più differenziato di caste e sottocaste. Il mondo religioso degli Arii, ristretto a pochi aspetti fenomenici naturali, si scontrò con quello multiforme indiano nell'indefinibile saga di divinità. Da quel mosaico vennero stimoli vitali e continuativi per il ricco evolversi dell'arte e della cultura in genere. § A travolgere la dinastia Shang in Cina, alla fine del II millennio a. C., intervengono gli ambiziosi Chou, attraverso i quali mutano condizioni sociali e politiche e sorgono nuove dottrine filosofiche e religiose. Al senso pratico della vita indicato dal confucianesimo si contrapposero certe deviazioni del pensiero divulgate dal taoismo, ancorato a pratiche magico-religiose e a un fondo di superstizione. Sorsero tuttavia nuovi valori e nuove sollecitazioni che portarono gli ideali dell'individuo a una nuova adesione del sentimento verso la natura, premessa determinante per il processo evolutivo della pittura. Più tardi ancora, e sempre sulle indicazioni confuciane, si giungerà ad acquisire mezzi e coscienza per operare la valutazione estetica. La progettazione della Grande Muraglia è concepita durante il turbolento periodo dei Regni Combattenti (che nell'arte è caratterizzato da un ricco e fantasioso repertorio di stili decorativi), antefatto alla costituzione dell'unità nazionale realizzata poi dalla dinastia Han (206 a. C.-220 d. C.) nella quale si riconosce e si riassume l'intera civiltà cinese, la cui essenza alimenterà anche l'arte delle successive dinastie (T'ang, Sung, Ming, comprese pure quelle di dominazione straniera Yüan e Ch'ing). L'artista Han prende coscienza di se stesso e sa scoprire nella realtà che lo circonda valori e significati nuovi, temi per una ricca stagione dell'arte. La produzione della ceramica conosce ora l'uso dell'invetriatura. Anche la scultura segna alcune fasi di sviluppo in alcune opere di carattere funerario. Il mondo terrifico e drammatico dell'arte Shang si dissolve sotto l'invadente esuberanza decorativa di raffinate astrazioni e stilizzazioni. Il naturalismo appare nella piccola statuaria, che riflette in poche ed essenziali annotazioni il gusto e il costume dell'epoca. Elementi della civiltà cinese circolavano nell'arte asiatica, dal Pamir alla Corea. Influssi cinesi erano già apparsi negli stili della cultura Dong Son, diffusasi secoli prima dall'Indocina fino a Giava. Nuovi traffici commerciali e missioni diplomatiche intensificarono la presenza della Cina Han nel mondo eurasiatico attraverso quell'arteria vitale nei rapporti tra est e ovest che fu la carovaniera della “via della seta”, percorsa anche più tardi dai successori T'ang, che lasciarono i segni della loro civiltà accanto a quelli delle correnti greco-iraniche e indiane nei grandi incontri dell'arte buddhista fiorita nelle oasi centrasiatiche. Nella Cina Han la ricchezza e il formarsi di nuove categorie sociali favorirono gli spostamenti nella capitale e intensificarono la costruzione di città murate con nuove esigenze architettoniche. § Dalle città murate della Cina ai luoghi santi dell'India il paesaggio muta. Dopo il passaggio di Alessandro, la diffusione di elementi ellenistici mescolati ad altri di origine iranica (che nei riscontri dell'arte achemenide rivelavano influssi di quella mesopotamica nelle versioni assire) trovò innesto, con persistenze durature, in alcuni filoni dell'arte indiana, la cui manifestazione maggiore si ritrova più tardi nell'arte del Gandhara e delle scuole greco-buddhiste della scultura di Mathura e di Amaravati (sec. II-III), attraverso le quali l'immagine del Buddha si sostanzia del modellato greco. Con il regno di Aśoka (274-232 a. C.) la colonna persepolitana da elemento funzionale di sostegno si trasforma in un motivo religioso a sé stante. Per i suoi editti il re maurya chiama scultori persiani. L'incontro del buddhismo con le varie sette dell'induismo provocherà, in India e fuori, quei sincretismi religiosi da cui l'arte trarrà vantaggi per arricchire di nuove invenzioni iconografiche la pittura e la scultura. Nel paesaggio si inserisce la forma simbolica dello stūpa, in una varietà di strutture e di dimensioni. È l'architettura con la sua opulenta integrazione scultorea a imporsi nello scenario dell'arte indiana. Dai santuari rupestri ai templi costruiti, ogni architettura obbedisce a regole spaziali contemplate dal magico diagramma del mandala, secondo una concezione cosmogonica che vede nel modulo compositivo, il quadrato, la presenza di una divinità (la posizione del quadrato nella pianta corrispondeva al significato e all'importanza della divinità). A tale concetto si ispirava anche l'articolazione urbana della città. § Dalla Cina, tramite la Corea, giunge in Giappone nel sec. VI d. C. il buddhismo, attraverso il quale l'arcipelago assume una precisa fisionomia storica. Nei primi secoli la civiltà giapponese si forma e si sviluppa sul modello di quella cinese e l'arte di quest'epoca ne è evidente testimonianza. L'evoluzione successiva, a iniziare dal periodo Heian, si svolge per gestazione intima, tutta conchiusa e contenuta nell'ambito d'una particolare condizione geografica, determinante ultima che giustifica la persistenza di forme e motivi della tradizione nel tempo, attraverso i periodi Kamakura, Muromachi, Momoyama, fino a quello Edo o Tokugawa che giunge alla seconda metà del sec. XIX. Quando il Giappone dipendeva culturalmente ancora dalla Cina, l'arte indiana gupta e postgupta (sec. IV-X) si irradiava nell'India esteriore improntando dei suoi caratteri fondamentali momenti dell'arte cambogiana (Khmer), vietnamita (Cham), siamese (Dvāravatī), indonesiana (negli stili propri di Giava centrale), nepalese e tramite questa anche dell'arte tibetana. § Nel sec. VII l'arte subiva un vasto processo di trasformazione per il diffondersi e l'innestarsi delle convenzioni estetiche musulmane, espresse soprattutto nell'architettura e nelle arti applicate. Nell'ampiezza storica di oltre un millennio di evoluzione l'Islam assorbì e fuse nella propria civiltà elementi di culture diverse, che ne rivitalizzarono costantemente la forza creativa. L'arte islamica si propagò attraverso differenti correnti stilistiche che non mancarono di influire sulle tradizioni artistiche con cui vennero in contatto. Nell'Asia occidentale, dopo gli influssi ellenistici e cristiani (assieme ad altri dell'Iran achemenide e sassanide) che caratterizzarono l'arte omayyade, altre componenti (irano-mesopotamiche e centrasiatiche) distinguono il processo di orientalizzazione dell'Islam attraverso l'arte abbaside; mentre con quella selgiuchide (di cui diretta erede, in Anatolia, sarà quella ottomana) si irradiano nell'area iranica e poi in quella anatolica elementi dell'arte delle steppe, alimentati più tardi dall'arte mongola ilkhanide e timuride, con apporti culturali dell'Estremo Oriente. Alle tradizioni di fondo turco iranico si ricollega più tardi (1502-1736) l'arte safavide della Persia, che dominerà poi, accanto a quella timuride, l'arte islamica dell'India, fino alla formazione di quelle correnti indo-musulmane che sotto l'impero dei Moghūl (1526-1707) tendono a individualizzarsi in uno stile ben definito. La decadenza delle tradizioni artistiche del continente asiatico è la conseguenza dell'espansione politica occidentale. Alla divulgazione degli stili occidentalizzanti in Oriente fa riscontro più tardi, nel sec. XIX, un processo inverso: l'arte europea scopre quella delle civiltà orientali e ne trae elementi decisivi per l'evoluzione del linguaggio figurativo moderno. Oggi in molti Paesi asiatici (Giappone, India, Filippine, ecc.) si nota la coesistenza, spesso polemica ma certamente feconda di sviluppi, tra la cultura occidentalizzante e quella legata alla tradizione. Bisogna, d'altra parte, sottolineare che tale fenomeno non si è verificato nei Paesi a struttura socialista (Cina, Viet Nam, Cambogia, ecc.), le cui espressioni artistiche si sono collocate essenzialmente nell'ambito del realismo.

Musica

Il continente asiatico può essere diviso in quattro grandi famiglie musicali, all'interno delle quali è riscontrabile una sostanziale affinità nella teoria e nella pratica della musica. Famiglia sino-giapponese, comprendente la Cina, il Giappone, la Mongolia, la Corea, il Viet Nam: la scala tipo di questa famiglia è pentafonica, ottenuta attraverso il circolo delle quinte; lo strumento più diffuso è la cetra a corde di seta con ponticello mobile, denominata cheng, gaku-so e koto in Giappone, jatag nella Mongolia, kayakum in Corea, dan trahn o dan thap luc nel Viet Nam; la musica di queste nazioni ha un carattere essenzialmente melodico. Famiglia thailandese-malese-indonesiana, comprendente un gruppo thailandese (Thailandia, Myanmar, Laos, Cambogia) e un gruppo indonesiano (Malaysia, Indonesia): ha scale pentafoniche o eptafoniche, o scale speciali (Indonesia, Malaysia), quali lo slendro e il pelog; gli strumenti più importanti sono metallofoni (gong usati in più esemplari riuniti in carillons) e xilofoni; le musiche hanno carattere eterofonico o polifonico. Famiglia indo-pakistana, comprendente l'India, il Pakistan, Ceylon (Srī Lanka): la scala tipo è eptafonica, l'ottava è divisa in 22 microintervalli detti sruti; lo strumento più diffuso è la vina; la musica è essenzialmente modale e dà largo spazio all'improvvisazione che avviene sulla base dei rāga. Famiglia turco-arabo-persiana, comprendente la Turchia, i Paesi arabi del Medio Oriente, l'Iran e le ex Repubbliche sovietiche dell'Asia: la scala tipo è pentafonica, sulla base di ottave divise in 17, 24, 28 microintervalli; tra gli strumenti più diffusi, l'ud arabo, il sitar, il tar, appartenenti alla famiglia del liuto, e il santur, salterio a corde percosse; come per il gruppo precedente, la musica è essenzialmente modale e improvvisata. Allo stato attuale degli studi è impossibile assegnare la musica delle Filippine, del Tibet, del Nepal a questa o a quella famiglia asiatica. § Al di là di questa suddivisione generale è possibile individuare schematicamente alcuni fondamentali tratti distintivi della musica asiatica. Le scale musicali sono riconducibili a tre categorie. La prima trae origine dal circolo delle quinte (cioè dalla sovrapposizione di intervalli di quinta successivi a un suono dato) ed è utilizzata in varietà trifoniche, pentafoniche, eptafoniche; la varietà pentafonica, per toni interi, è senz'altro la più importante. La seconda, un tipo di scala temperata ottenuta equalizzando gli intervalli del circolo delle quinte, dà luogo a due varietà: pentafonica, propria del sistema slendro, ed eptafonica, quest'ultima assai prossima alla moderna scala maggiore occidentale. La terza categoria, infine, comprende le scale estranee al circolo delle quinte, proprie della zona indonesiana (sistema pelog), indo-persiana, araba e turca, caratterizzate spesso dall'uso di intervalli microtonali. Una particolarità propria della musica asiatica è rappresentata dalla larga utilizzazione di strutture modali, che pur sotto diverse denominazioni (tiao in Cina, sempo in Giappone, dieu in Viet Nam, rāga in India, datsgah in Iran, maqām in Arabia e Turchia) presentano alcuni attributi costanti, quali: una scala caratteristica; suoni con funzione preminente e privilegiata all'interno della scala medesima; figure melodiche peculiari e distintive, suscettibili di varia elaborazione. § Vastissima è la varietà degli strumenti, che nell'area sino-giapponese e malese-indonesiana vengono riuniti in orchestre talora imponenti, mentre in India, in Iran, in Turchia e nei Paesi del Medio Oriente, dove la musica è essenzialmente improvvisata, il loro uso è prevalentemente solistico. I complessi più importanti sono l'orchestra di corte gagaku in Giappone, comprendente attualmente 16 strumenti di otto diverse specie; l'orchestra piphat in Thailandia, comprendente 15 strumenti ed esistente, in varianti, anche in Laos, Cambogia e Myanmar; il gamelan in Indonesia; accanto a queste devono essere menzionate le grandi orchestre di corte attive fino all'inizio del sec. XX in Cina e le orchestre di teatro tuttora attive in Cina, Giappone, Malaysia, India meridionale. § Per quanto attiene ai diversi generi musicali, la musica popolare (canti di gioco, canti di festa, canti di lavoro, nonché il repertorio musicale di cantori vaganti) è ampiamente presente in tutto il continente; la musica religiosa è specialmente sviluppata nell'area sino-giapponese, mentre nel mondo musulmano si limita alla lettura intonata del Corano; analogamente, in questa zona, come in quella thailandese-malese-indonesiana, la musica teatrale ha più diffusione che non in quella turco-arabo-persiana e in quella indiana, dove tuttavia sono molto diffusi la danza e i drammi danzati. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, sempre più rilevante è stata sulla musica asiatica l'influenza delle tecniche compositive ed esecutive occidentali. Questo fenomeno si è attuato in vari modi: con l'adozione di strumenti occidentali quali il violino o la chitarra per eseguire musiche tradizionali; con l'impiego del sistema temperato in sostituzione delle accordature proprie a ciascun sistema asiatico; con l'utilizzazione della tonalità; con l'armonizzazione delle composizioni monodiche; con l'introduzione delle forme compositive proprie della tradizione europea; con la creazione di complessi stabili modellati sull'orchestra occidentale. Il fenomeno ha avuto particolare rilevanza soprattutto in Giappone, dove fin dal 1867 la musica europea sostituì quella tradizionale nell'insegnamento pubblico. D'altra parte, proprio in questo Paese, che sia sul piano organizzativo (orchestre, festival, ecc.) sia su quello della pratica compositiva può competere con le più avanzate nazioni dell'Occidente, si è andato organizzando in tutti gli ambiti dell'attività musicale un movimento volto alla riscoperta e alla rivalutazione della tradizione folcloristica nazionale.

Cinema

I due terzi circa dei film di lungometraggio prodotti annualmente provengono dall'Asia. Eppure fino a un'epoca abbastanza recente l'Europa e l'America ignoravano quasi tutto delle cinematografie orientali. Quando il film giapponese Rashomon del regista Akira Kurosawa trionfò alla Mostra di Venezia del 1951 si scoprì che la produzione di quel Paese, organizzata alla maniera hollywoodiana, superava del doppio Hollywood come numero di film e che l'India si collocava al secondo posto; inoltre, che Giappone e India vantavano un passato cinematografico risalente ai primi decenni del Novecento. Nel 1924 gli studi di Kyōto, essendo stati distrutti l'anno prima da un terremoto i teatri di posa di Tōkyō, sfornarono da soli ben 875 film; nel 1925 l'India aveva un numero di sale inferiore di ottanta volte a quello della Gran Bretagna ma una produzione superiore di almeno tre volte. In Cina, negli anni Cinquanta, il film La fanciulla dai capelli bianchi fu visto da ottanta milioni di persone; a Manila, nelle Filippine, i cinematografi stipati proiettano in continuazione, come già a Shanghai, dall'alba a mezzanotte. A un simile interesse della popolazione asiatica in genere per il cinema fanno però riscontro una disponibilità di sale tuttora insufficiente anche nei luoghi più forniti, e in certe zone irrisoria, e una produzione costantemente inadeguata ai bisogni, tanto più che si tratta sempre di un pubblico che preferisce di gran lunga i prodotti nazionali, parlati nella sua lingua o nel suo dialetto. Tale produzione d'altronde, negata o frenata dai regimi stranieri succedutisi nel continente, è nata oppure si è sviluppata con caratteri peculiari soltanto dopo la conquista dell'autonomia e la fine dell'occupazione o della guerra. Va detto che negli anni Trenta Giappone, Cina e India conobbero nel cinema un forte movimento di autocoscienza culturale, che diede eccellenti prove sotto l'impulso dell'arte sovietica rivoluzionaria e lo stimolo di drammatici rivolgimenti sociali. Ciò non toglie che in moltissime zone, dall'Estremo Oriente all'Asia Minore, sia prevalso e prevalga ancor oggi l'esempio negativo dello spettacolo d'evasione – sia hollywoodiano sia indiano, sia cinese sia egiziano –, spesso rifatto con risultati anche più deteriori. La produzione assai copiosa di Hong Kong, per esempio, alimenta l'intero Sud-Est analfabeta con film mediocrissimi, servendo perfino i Cinesi d'America; così come i musical indiani incontrano grande favore nell'Africa nera o in Grecia. D'altra parte il cinema della Repubblica Popolare Cinese è stato a lungo impegnato all'interno e tra i suoi problemi non spiccava certamente quello di conquistare i mercati. Al Festival del film asiatico, aperto in Giappone nel 1954 e proseguito poi altrove, esso non ha mai presenziato; è apparso invece ai festival europei e nei circuiti dei Paesi socialisti a partire dal 1950, anno della sua rivelazione a Karlovy Vary (ma notevoli film cinesi del periodo del Kuomintang erano già stati accolti a Mosca nel 1935, così come Venezia aveva ospitato prima della guerra film giapponesi e indiani). Dopo il secondo conflitto mondiale l'orizzonte del cinema asiatico si è allargato sempre più e non soltanto quantitativamente: ne fanno fede lo sviluppo culturale in Cina e nelle Repubbliche sovietiche dell'Asia; la fioritura artistica e il vasto movimento cooperativistico in Giappone; l'affermazione internazionale del cinema bengalese e gli influssi neorealistici e modernisti in India, nel Pakistan, in Indonesia; il cinema militante in Corea, nel Viet Nam e nel Laos; i fermenti nuovi a Hong Kong, nello Srī Lanka, in Iran, Iraq, Libano, Turchia e i tentativi autonomi nello Stato d'Israele. Sul finire degli anni Ottanta si è constatata l'ottima salute del cinema dell'Estremo Oriente dove, accanto al tradizionale grande livello della cinematografia giapponese (si pensi ad Akira Kurosawa e al suo Sogni del 1990), stupisce la vitalità del travagliato cinema cinese, con personalità del calibro di Zhang Yimou (Sorgo Rosso, Orso d'oro a Berlino nel 1988), mentre i maggiori festival internazionali si contendono le opere del taiwanese Hou Hsiao Hsien (Città dolente, Leone d'Oro a Venezia nel 1989), e soprattutto di Tsui Hark, straordinario produttore-regista di Hong Kong. Il cinema asiatico degli anni Ottanta ha mantenuto la sua produzione altissima, grazie soprattutto alla Cina e all'India. I giovani autori cinesi hanno creato un linguaggio più moderno rispetto agli anni precedenti, soffermandosi sui problemi concreti della città (Montagne selvagge, 1986, di Y. Xueshu; Terra gialla, 1984, di Chen Kaige; L'incidente del cannone nero, 1986, di H. Jianxin). Questi nuovi autori hanno creato la cosiddetta nouvelle vague cinese, che è stata comunque espressione più di volontà di cambiamento che di una precisa poetica. Nel continente asiatico il cinema di Taiwan, nonostante la sua chiusura in schemi rigidi e la censura, ha portato al riconoscimento internazionale diversi autori come Ling Qingje, Wang Tong, Wan Jen, Chang Yi. I capofila di questi nuovi autori sono Yang Dechang (Quel giorno sulla spiaggia, 1983; Terroristi, 1987) e Hou Xiaoxian (Un'estate dal nonno, 1984; Amore, vento e polvere, 1986). È comunque l'India che si è confermata come il Paese con la più alta produzione cinematografica di tutti gli anni Ottanta. Un cinema caratterizzato dalla pluralità delle lingue e dalle diverse culture di ogni singola regione. L'intera produzione è costituita quasi esclusivamente da film commerciali, basati sulla presenza di uno o più divi, ma capaci di creare un impatto enorme con il pubblico (12 milioni di presenze in media al giorno). Tra gli autori più rappresentativi del cinema indiano segnaliamo Shyam Benegal (Trikaal, 1985), Narsing Rao (Dasi, 1988), Govind Nihalani (Tamas, 1987), Mani Kaul (Siddheswary, 1989). Particolare interesse ha suscitato Salaam Bombay!, realizzato nel 1988 dalla regista Mira Nair. Il cinema asiatico degli anni Ottanta ha segnato inoltre la difficoltà della cinematografia iraniana che, con il regime di Khomeini, ha perso molti dei suoi cineasti e registrato un conseguente crollo della produzione: pochi sono i film che hanno suscitato un certo interesse, come Il corridore (1985) di A. Naderi e Il ciclista (1987) di M. Makhmalbaf. Negli anni Novanta è continuata la crescita del cinema asiatico soprattutto con i film di Zhang Yimou (Lanterne rosse, 1991, Leone d'Argento a Venezia; Non uno di meno, 1999, Leone d'Oro e premio speciale per la regia a Venezia). Altri registi hanno confermato la loro bravura, come il giapponese Ryu Murakami (Tokyo Decadence, 1991) e i taiwanesi Ang Lee (Il banchetto di nozze, 1993, vincitore dell'Orso d'oro al FilmFest di Berlino, Tempesta di ghiaccio, 1997, premiato a Cannes per la sceneggiatura) e Tsai Ming-liang (Vive l'amour, 1994). Anche l'iraniano Makhmalbaf si impone nuovamente con Pane e fiore (1996) e Il silenzio (1998), mentre sono pure da segnalare Sotto gli ulivi (1994) e Il sapore della ciliegia (1997) dell'iraniano Abbas Kiarostami e L’anguilla del giapponese Shoei Imamura (1997). Per non parlare del clamoroso successo internazionale di John Woo, di Hong Kong, che ha esportato i suoi romantici e violenti gangster-movies sino a Hollywood, di Wong Kar-wai, anche lui di Hong Kong, vincitore a Cannes per la miglior regia con Happy Together (1997), e del giapponese Takeshi Kitano, che prima ha conquistato a Venezia il Leone d'Oro con il duro e disperato Hana-bi (1997), poi ha svelato un'anima giocosa e poetica con L'estate di Kikujiro (1999).

Folclore

Il continente asiatico presenta un quadro folcloristico forse ancor più vario di quello africano. In un discorso generale, non si può fare a meno di riscontrare in Asia una più netta differenziazione di aree folcloristiche, coincidenti in gran parte con zone di diffusione delle varie religioni, meno con territori di espansione di dati gruppi etnici. La conservazione di questo folclore, garantita dal carattere particolarmente conservatore delle società asiatiche, è stata solo moderatamente scalfita dalle vicende della colonizzazione europea. Si pongono come fenomeni particolari le situazioni della Cina, del Giappone e di Formosa, Paesi investiti in epoca relativamente recente da evoluzioni di carattere politico ed economico di grande portata. Rinviamo, per un esame specifico e approfondito, alle voci delle singole nazioni; qui tentiamo di cogliere, a titolo di esempio, alcune possibilità di accostamento fra usi e costumi più interessanti e persistenti. Tra le grandi feste sono da ricordare quelle che celebrano il capodanno: il Now Rūz iraniano, il Muharran pakistano, il Nevruz turco, il Nawruz afghano, il Tet vietnamita, il capodanno cinese, quello khmer-cambogiano, quello thailandese, quello laotiano (Pimay), quelli giapponese, nepalese, tibetano (in questo, detto Durgāpūjā, emergono particolarmente elementi primitivi) e quello indiano (Vasanta Pañcamī, praticato specie nelle zone settentrionali del subcontinente). India, Giappone e Cina sono tra i Paesi che offrono il più ampio campionario annuale di feste sacre e profane. Particolarmente seguite sono le feste indiane, tra le quali spicca l'Holī, una specie di saturnale proprio delle caste inferiori. Numerose le feste imperniate sul bagno lustrale e sul culto dell'acqua: oltre che in India, si trovano diffuse specie in Myanmar e in Thailandia. Numerose le feste dedicate ad animali sacri e a oggetti naturali (residuo di primitivo animismo). Tutte le feste sono accompagnate da processioni caratteristiche (diffuso l'uso di carri o barche abbondantemente addobbati) e dall'esecuzione di musiche e danze (parecchie con maschere demoniache) di antichissima origine. Un particolare rilievo folcloristico assumono le danze e le musiche, eseguite con strumenti tipici e secondo tecniche e stili ben distinti dalla musica occidentale. Le danze sono particolarmente legate alle pratiche religiose e occupano in Asia un posto importante nel quadro folcloristico. Si tratta in gran parte di coreografie e simbolismi di chiara derivazione mitologica. La varietà dei balli è quanto mai ampia; si va da alcune sfrenate danze di ispirazione guerriera (danze dei bugti pakistani, danza delle spade turca, varie danze curde e afghane) alle misurate e mimate danze indiane (le danze classiche del Manipur, il bhārata nāṭyam, il kathākali) e indocinesi (notevoli le danze thailandesi). In India, come in altri Paesi asiatici, il ballo è una “scienza” che si concreta attraverso accurate ricerche mimiche. Caratteri religiosi assai evidenti si conservano, oltre che nei Paesi dell'Indocina, anche nello Srī Lanka, in Malaysia e in Giappone. Riti tradizionali funerari e matrimoniali sono ampiamente rispettati in India, Giappone, Thailandia, Turchia (interessanti gli usi delle genti druse) e Cina (nonostante gli sforzi della legislazione che tende a modernizzare la famiglia). Negli usi funebri e nelle manifestazioni relative al culto degli antenati (particolarmente accentuati in varie forme di religione sia primitiva sia evoluta), permangono la pratica dell'incinerazione e l'uso di banchetti e di danze rituali. L'abbigliamento è estremamente vario e offre numerosi esempi di costumi che si possono considerare fra i più sfarzosi che esistano; se l'uomo indiano si è convertito all'abbigliamento europeo, la donna indiana è rimasta fedele al sari; fenomeno analogo si è verificato in Giappone, dove la donna (specie contadina) ha conservato in parte il costume tradizionale (solo le donne delle nuove generazioni preferiscono gli abiti occidentali). Costumi tradizionali conserva la donna in Thailandia, Cambogia, Viet Nam, Malaysia. Tranne che nelle campagne, la Cina ha rivoluzionato l'abbigliamento. La persistenza dell'abbigliamento tradizionale è accentuata fra uomini e donne nel Medio Oriente e in India. Notevoli per la bellezza, certi costumi delle donne del Kashmir, delle Ibo (Myanmar) e delle Meo (Laos). L'artigianato è notevolmente sviluppato specie nelle zone più depresse ed è particolarmente interessante nelle aree indiana, indocinese e in Giappone, dove ha assunto però anche funzioni turistico-commerciali. Prodotti particolarmente pregevoli sono i tappeti iraniani, afghani, indiani e alcuni giapponesi; le sete indiane e i lavori in rame e in ottone dell'area indiana. È infine interessante rilevare la formazione di tradizioni popolari intorno ad alcune forme di sport; tipici sono i casi delle varie forme di lotta giapponese, dove la tradizione della lotta e dell'uso delle armi si sintetizza nella figura sempre valida del samurai.

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Per le lingue

C. Tagliavini, Le lingue del mondo, Bologna, 1941; W. K. Matthews, Languages of the U.S.S.R., Cambridge, 1951; K. Karlgren, Sound and Symbol in China, Hong Kong, 1962; R. A. D. Forrest, The Chinese Language, Londra, 1964; J. Bloch, Indo-Aryan from the Vedas to the Modern Times, Londra, 1965; Handbuch der Orientalistik, Leida, 1968 e seg.

Per le letterature

E. G. Browne, A Literary History of Persia, 4 voll., Cambridge, 1918-30; M. Winternitz, A History of Indian Literature, 4 voll., Calcutta, 1927, 1933, 1963, 1967; A. B. Keith, A History of Sanskrit Literature, Oxford, 1928; M. Granet, La Pensée chinoise, Parigi, 1934; K. Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Napoli, 1987; A. Saraçgil, La letteratura turca contemporanea: proposte di letture, Napoli, 1988.

Per l'arte

A. K. Coomaraswamy, History of Indian and Indonesian Art, Londra, 1927; A. Eckhardt, History of Korean Art, Londra, 1929; R. Grousset, Les civilisations de l'Orient, Parigi, 1929-30; G. Combaz, L'Inde et l'Orient classique, 2 voll., Parigi, 1937; H. Frankfort, The Art and Architecture of the Ancient Orient, Harmondsworth, 1954; M. Granet, La civiltà cinese antica, Milano, 1959; N. I. Wu, L'architettura cinese e indiana, Milano, 1963; I. Sickman, A. Soper, L'arte e l'architettura cinese, Milano, 1969; J. Needham, Science and Civilisation in China, 7 voll., Cambridge, 1954-71; Hayashi Ryoichi, The Silk Road and the Shoso-in, New York, 1975; Ph. Denwood (a cura di), Arts of the Eurasian Stepplands, Londra, 1977; A. Cotterel, Le Premier Empereur, la plus grande découverte archéologique du siècle, Parigi, 1981; Wang Zhongshu, Han Civilisation, New Haven-Londra, 1982; An Chimin, Some Problems Concerning China's Early Copper and Bronze Artifacts, in “Early China”, n. 8, 1982-83; Pal Pratapaditya, Art of Tibet, Berkeley, 1983; H. Munsterberg, The Arts of Japan, s.l. (Giappone), 1985; E. B. Adams, Palaces of Seoul, Seoul, 1985; J. Fonteyn, R. Hempel, Populäre Kunstgeschichte. China - Korea - Japan, Tōkyō, 1985; Pal Pratapaditya, Art of Nepal, Berkeley, 1985; W. Zwalf (a cura di), Buddhism: Art and Faith, Londra, 1985; Chang-Kwang-chih, Studies of Shang Archaeology, New Haven-Londra, 1986; Lin Yun, A Reexamination of the Relationship between Bronzes of the Shang Culture and of the Northern Zona, Londra, 1986; Yin Wei chang, A Reexamination of the Ehr-li-t'ou Culture, Londra, 1986; Motoo Hinago, Japanese Castle, Tōkyō, 1986; E. Lee Sherman, A History of Far Eastern Art, Londra, 1988; H. Parmentier, L'Art du Laos, Parigi, 1988.

Per la musica

C. Sachs, The Rise of Music in the Ancient World, New York, 1943 (trad. it., Firenze, 1963); L. Picken, The Music of Far Eastern Asia, in “The New Oxford History of Music”, vol. I, Oxford, 1957 (trad. it., Milano, 1962); H. Hussman, Grundlagen der Antiken und Orientalischen Musik-Kultur, Berlino, 1963; R. Perinu, La musica indiana, Padova, 1983.

Per il cinema

U. Casiraghi, Il cinema cinese, questo sconosciuto, Torino, 1960 (con bibliografia); J. L. Anderson, D. Richie, Il cinema giapponese, Milano, 1961; E. Barnouw e S. Krishbaswamy, Indian Film, New York, 1963; G. Sadoul, Storia del cinema mondiale dalle origini a oggi, Milano, 1964 (con bibliografia); idem, Les cinémas des pays arabes, Beirut, 1966; Ph. Parrain, Regards sur le cinéma indien, Parigi, 1969; M. Müller, Cinemasia. Giappone. Corea. Cina. Hong Kong. Malesia, Venezia, 1983.

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